sabato 21 maggio 2011

Un passaggio nel Duomo di Milano

Un giovane scuro



(di Felice Celato)






Quando a Milano mi capita di passare dal centro e di avere una mezz’ora libera, non manco mai di entrare nel Duomo: l’interno austero e solenne, la memoria dei grandi vescovi che vi hanno predicato, il pensiero ai funerali dei grandi lombardi che hanno avuto luogo nella chiesa simbolo della cristianità meneghina severa e generosa, la suggestione delle grandi vetrate sullo sfondo dell’abside, il senso di una pietas nobile e seria, valgono senz’altro il piccolo fastidio di passare i severi controlli di sicurezza che ci ricordano in che mondo viviamo.


L’ho fatto anche ieri, verso mezzogiorno e, scavalcando l’inevitabile folla di turisti, sono arrivato davanti al grande quadro della Madonna che allatta, appeso a metà della navata di sinistra fra centinaia di candele accese dalla pietà popolare: un giovane scuro (un nero forse più asiatico che africano), alto e di taglia robusta, le larghe spalle curve nell’atto di una preghiera raccolta sull’inginocchiatoio davanti al quadro: una preghiera silenziosa, le mani giunte nell’atto di una invocazione accorata, il volto segnato da qualche lacrima.


Non so, ovviamente, che cosa invocasse il giovane scuro ma non ho potuto sottrarmi all’emozione di immaginare: si trattava senz’altro di un giovane forte, uno che aveva avuto la forza di sradicarsi da chissà quale contesto sociale ed economico che tanti suoi meno coraggiosi conterranei dovevano subire senza speranza, uno che aveva accettato le difficoltà di una rischiosa emigrazione per radicare altrove, in un mondo ignoto del quale conosceva solo qualche immagine patinata, le proprie energie vitali e la propria ricerca della felicità. Cosa chiedeva alla Madonna, con tanto commosso fervore? Un ricongiungimento, la salute di un parente restato nella gabbia del paese d’origine, un po’ meno di ostilità e un po’più di certezze, un po’ di pace, un supplemento di forza per resistere nel tentativo di trovare uno spazio di futuro?


Non lo so, ma avrei voluto abbracciarlo, quel giovane scuro, per comunicargli almeno il senso di una umana com-passione che forse è proprio una delle cose che più gli manca. Mi è tornato in mente un verso di Dante, che, nel Paradiso (“VergineMadre,figlia del tuo figlio….”,33° canto) ha un senso certamente diverso da quello che le circostanze mi hanno suggerito: “Ancor ti priego, Regina, che puoi/ ciò che tu vuoli, che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi.” E sono uscito sul sagrato, verso la Galleria, per consumare un rapido pasto; al bar, un gentile cameriere, con piccoli baffi meridionali, si è scusato con me per l’inopportunità dello scorrere davanti ai tavolini di un paio di vu’cumprà : “Non se ne può più, mi creta”, sì, “mi creta”, come dicono tutti gli immigrati dal Sud d’Italia per sembrare più Lombardi.


Fuori della Galleria, si distribuivano volantini elettorali.


Roma, 21 maggio 2011

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