giovedì 21 luglio 2011

Luglio : Guido, i’vorrei

Pessimismo afoso
(di Felice Celato)

Pensando alla giornata “politica” di ieri, mi è venuto in mente questo sonetto di Dante, nel quale il Sommo Poeta vagheggia una estraniazione radicale, un sogno di fuga dal presente a metà fra il piacere intellettuale e l’avventura romantica (ante litteram), un modo per sottrarsi alle angustie anche politiche del suo tempo (ricordiamoci che solo pochi anni dopo scriveva la famosa invettiva Ah!Serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiero in gran tempesta, non donna di province ma bordello!, che, ahimè!, tanto si attaglia al tristo e pericoloso presente che viviamo). Vale la pena di rileggerlo, per sognare insieme a Dante:


Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;


sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.


E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:


e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.


Tre anni fa, proprio nel bel mezzo di un luglio afoso e denso di problemi, mi venne da invocare, sul giornale on-line dell’ Onlus Associazione Amici per la Città, (la Bussola delle politiche partecipate), “Vogliamo un santo!”  (http://www.amiciperlacitta.it/articolo.cfm?id=932) e di ripercorrere, nostalgicamente, il famoso frammento della lettera a Diogneto che tratteggiava, nel II secolo, una sorta di brevissima summa delle virtù del cristiano che vive nel mondo.


Oggi, non mi consola più nemmeno questa invocazione: forse non basterebbe più nemmeno un santo da imitare, un indiscusso esempio di qualcuno in cui possiamo riconoscere un ideale incontaminato, una natura umana pura, una bontà primigenia, un agire disinteressato; forse non ci resta che chiuderci o a pregare (per coloro che credono) o a sognare il vascello che con pochi amici ci aiuti a fuggire da questo povero, bellissimo e stupido Paese, dove le più vive intelligenze, che pure abbondano diffusamente, si lasciano soffocare dall’immondizia (non solo materiale) di ogni giorno, attorcinandosi in comportamenti di cui non riusciamo più a capire né il senso né il possibile esito.


Chiuderci e aspettare. Ma aspettare che cosa? Il grande crack? La palingenesi? Il rilancio delle speranze di cui parlavamo allora? Il riarmo mentale di cui parla oggi de Rita?


Temo molto che, purtroppo, aspetteremo solo, come è di rito, le prossime elezioni, che caricheremo di speranze, attraversando incoscienti il durissimo e pericoloso periodo che le precede fra polemiche violente e sragionamenti pomposi, mentre la barca continua ad imbarcare acqua; poi celebreremo la vittoria o piangeremo la sconfitta, tornando a immergerci subito dopo nella melma dalla quale non riusciamo ancora a trovare il modo di tirarci fuori.


Fa caldo, come lo faceva nel luglio del 2008; ci vuole una pausa rigeneratrice, che fughi anche questo cupo pessimismo che le circostanze alimentano. Per ora sogniamo solo l’incantamento che ci porti nel vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio.


21 luglio 2011

martedì 19 luglio 2011

Attorno al premio Strega

La globalizzazione
(di Felice Celato)
Il premio Strega di quest’anno è andato ad un libro di Edoardo Nesi “Storia della mia gente” (Bompiani) che per la verità non è (solo) un romanzo ma, forse più propriamente, un racconto autobiografico dal taglio anche marcatamente critico, una specie di indagine sociologica in forma letteraria sui temi ormai non nuovi della cosiddetta globalizzazione e dei fenomeni di  crowding-out economico conseguenti all’immigrazione (cinese, nella fattispecie). L’ambientazione è a Prato; il tempo quello proprio recente; il contesto umano quello della media imprenditoria a base familiare messa in crisi dall’arrivo di migliaia di cinesi che rapidamente “spiazzano” le basi dell’economia locale occupando non solo – come è comunemente percepito altrove – i posti più bassi della scala socio-economica del lavoro ma addirittura quella più evoluta dell’imprenditoria minuta dei settori industriali tecnologicamente tradizionali.



Non saprei dire dei meriti letterari, forse non eccelsi, del libro, che si legge però bene e bene amalgama le varie “anime” del racconto (quella propriamente narrativa, quella riflessiva, quella della anche aspra denuncia del problema, etc), dando vita ad una narrazione-trattazione non priva di considerazioni interessanti e anche profondamente sentite (talora direi: risentite). Certe citazioni possono apparire un po’ pop, il linguaggio talora inutilmente poco sorvegliato, ma nel complesso il libro è piacevole, ripeto, interessante e senz’altro da raccomandare per una lettura non banale.


Detto questo (poco), vorrei soffermarmi brevemente sul tema di fondo del libro: la globalizzazione, come lascia intendere non senza veemenza Nesi, è l’origine dei mali della nostra economia (almeno di quella Pratese).


La tesi è diffusa, soprattutto in certe aree geografiche e culturali del Paese, ma non per questo meno curiosa, quasi come se la globalizzazione sia il frutto di una scelta centralizzata e cosciente: ad un certo punto ci siamo svegliati e ci siamo detti: perché domani non facciamo la globalizzazione? Beh, certo, se così fosse sarebbe come se un monopolista pazzo, un bel giorno, avesse detto: “domani facciamo la concorrenza! Al diavolo i privilegi di cui gode chi ha un intero mercato in mano e viva la spartizione di ciò che era mio!”


Ma così non è, è troppo facile capirlo (e certamente lo ha capito anche Nesi): la cosiddetta globalizzazione (come del resto la dinamica dell’emigrazione) non è altro che il nome che abbiamo inventato per un fenomeno che affonda le sue radici nei profondi e spaventosi squilibri economici e demografici del nostro mondo, dove grandi masse di poveri, crescenti a ritmi nettamente superiori a quelli dei mondi diciamo lato sensu occidentali, hanno impetuosamente cominciato a bussare alle porte del mondo ricco rivendicando, per fortuna in prevalenza pacificamente, una parte del benessere di cui questo godeva (e tuttora gode). Bussavano (e bussano tuttora, e busseranno ancora di più nel prossimo futuro) per chiedere di non essere più solo sfruttati produttori di materie prime e poveri consumatori di quel poco di benessere che il mondo occidentale per lunghi anni ha fatto percolare al di fuori del proprio recinto; ma semplicemente co-produttori del futuro, anche a costo di vivere una o due generazioni di quasi schiavismo (quale è spesso quello cui si sottomettono molti dei nostri immigrati). E noi abbiamo forzatamente risposto inventandoci un termine, appunto la globalizzazione, nel quale abbiamo cercato di incorporare il concetto di bilaterale abbattimento delle frontiere dei nostri mercati, ben capendo – se non lo avessimo capito saremmo stati veramente miopi – che questa apertura portava come inevitabile risvolto “una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario, come in precedenza non era mai avvenuto” (Caritas in veritate, 42) e che dal punto di vista del controllo della ricchezza non avrebbe potuto che rimetterci chi era più ricco.


Si può argomentare che una migliore gestione del fenomeno sarebbe stata (o tuttora sarebbe) possibile, evitando o limitando, per esempio, quello che si chiama il dumping sociale, attraverso regole precise; ma certamente sarebbe stato illusorio (e tuttora lo sarebbe) immaginare di poterlo (pacificamente) contrastare: piazzando qualche scoglio puoi riparare le tue spiagge dalle onde ma non puoi evitare che la marea le raggiunga.


Si potrebbe ancora aggiungere che la globalizzazione, se ha raggiunto impressionati risultati in alcuni settori, per esempio, la finanza (oggi i paesi occidentali fanno disciplinatamente la fila per far comprare il loro debito dai fondi sovrani cinesi), lascia ancora per un po’ al mondo occidentale il soft-power di una certa primazia culturale e tecnologica; ma anche qui, non illudiamoci: l’India, per esempio, sta progredendo a ritmi travolgenti ed offre già ai mercati occidentali ingegneri di grande valore a costi infinitamente inferiori a quelli appunto dei nostri mercati interni.


E’ il destino, io credo, del nostro mondo occidentale che è giunto oramai al tramonto forse definitivo di molti di suoi privilegi, tramonto al quale non giova pensare di opporsi ma che occorre gestire in questa sua fase transitoria, magari “prendendo coscienza di quell’anima antropologica ed etica che, dal profondo, sospinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale”(ancora Caritas in Veritate, 42).


Dunque, alla domanda di Nesi (Storia della mia gente, ultimo capitolo) “Non c’è nessuno….che debba chiederci scusa per averci condannato a essere la prima generazione da secoli che andrà a star peggio di quella dei nostri genitori?”, la risposta è facile: no, non c’è nessuno, per lo meno a livello globale ( posso avere idee diverse sulla situazione specificamente italiana dove alla marea della globalizzazione abbiamo aggiunto l’inerzia e l’irresponsabilità politica della nostra generazione; ma questo è un altro discorso e forse lo abbiamo iniziato, proprio in questo blog).


19 luglio 2011





venerdì 15 luglio 2011

Stupi-diario

Stupi-diario del 15 7 11



Nella concitazione di questi giorni, mentre nubi dense e minacciose si addensano sulle nostre teste incoscienti , lo stupere di questa nostra rubrichetta avrebbe trovato, se solo ne avessimo avuto voglia, molte ragioni per intrattenerci. Sarebbe bastato fare un salto indietro di pochi giorni, per leggere stupefacenti quanto autorevoli proclami a suon di “ora abbassiamo le tasse” con i quali si tentava di esorcizzare i risultati di amministrative e referendum: mi sono tornati in mente – me ne rendo conto: forse un po’ cupamente – alcuni passaggi di quello straordinario libro di Joseph Roth che è La cripta dei cappuccini: “la scettica leggerezza, la malinconica presunzione, la colpevole ignavia, l’arrogante dissipazione, tutti sintomi della rovina, di cui ancora non intuivamo l’approssimarsi. Sopra i bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo, la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute”.


Ma, come accennavo, non ne ho avuto voglia; il Corriere della sera di oggi, però, mi ha fornito un nuovo spunto di stupore meno tragico, forse solo tragi-comico. Si tratta del pensoso articolo di un etologo illustre (Danilo Mainardi) che narra della generale commozione per Ariel, un leoncino paralizzato a tutti e quattro gli arti, attorno al quale, via Internet e Facebook, si è scatenata una battaglia per raccogliere “i fondi necessari per poterlo in qualche modo tenere in vita e fors’anche curare”: conclude, l’ottimo etologo: “A suo modo è un leone domestico (è o non è entrato nella domus, cioè nella casa dell’uomo?) e poi è un leone che, importantissimo, ha avuto in dono un nome proprio. Ciò lo ha fatto “persona” e poi, con la notorietà regalatagli dalla Rete, “personaggio”. Perché questo è ciò che conta nel mondo moderno e non è vero solo per i leoni ma anche, purtroppo, per gli esseri umani…….Perciò, anche se è un po’ un errore accanirsi terapeuticamente per tenere in vita un povero leone comunque condannato, forse può servire per la causa di quegli altri, che un nome proprio mai ce l’avranno”.


Commento: tutto giusto, in fondo il leoncino era entrato nella domus e ha un nome proprio, accanirsi terapeuticamente può servire per la causa di quegli altri! E poi, soprattutto, è un personaggio!

giovedì 7 luglio 2011

Stupi-diario

Stupi-diario del 7 7 11



Mai come oggi (fino ad oggi) il senso di questo stupi-diario si colora di stupefazione; oggi non può esserci nemmeno il lontano sospetto che lo strano nome di questa rubrichetta possa alludere alla stupidità!


I protagonisti, infatti, dell’odierno nostro stupere sono persone dall’intelligenza brillante, per uno di questi, che anzi diverse volte abbiamo, credo meritatamente, lodato, direi particolarmente brillante.


Ma lo stupore del fuori onda che ha oggi fatto il giro dei video, quello dei commenti di Tremonti alla conferenza stampa di Brunetta, è veramente stupore!


Per chi non l’ha visto: mentre il Signor Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, on.le professor dottor Renato Brunetta si agitava per diffondere rassicuranti (quanto inutili) messaggi su quella parte della famosa Manovra che riguarda i pubblici dipendenti, un altro signor Ministro, anzi, un super-Ministro, come si ama dire, quello dell’Economia, on.le professor avvocato Giulio Tremonti si faceva – ingenuamente? – sorprendere a commentare con suoi (direbbero gli inglesi) supportive  collaboratori (il signor Ragioniere Generale dello Stato ed il signor Capo di Gabinetto del Ministero dell’Economia) la stupidità e la vanità del suo illustre collega di governo, con parole chiare ed esplicite, ben al di là di quanto lasciasse intendere il semplice body language. E poi non contento, coinvolgeva nelle sue valutazioni un altro signor Ministro (quello del Lavoro e delle Politiche Sociali) on.le dottor Maurizio Sacconi, che lasciava chiaramente intendere di condividere le valutazioni del signor Ministro dell’Economia. Poi le inevitabili scuse e gli abbracci …..fraterni, ovviamente.


Commento: dove stiamo arrivando? non lo so, ma certamente non siamo sulla buona strada! Per carità, sappiamo tutti come la sommarietà e la brutalità del linguaggio cui ci siamo abituati molto spesso fa premio sulla complessità di certamente più articolati giudizi; sappiamo tutti che ormai siamo avvezzi ai giudizi lapidari e spietati dei quali un certo lessico molto romano-politichese abbonda; e non ci scandalizziamo più di tanto se qualche scivolone nel banale accade anche a persone colte e intellettualmente raffinate. Ma, per la miseria!, perché in occasioni pubbliche come una conferenza stampa affiorino, con dura evidenza, giudizi e valutazioni così sprezzanti (sia pure al netto di quanto appena detto sulla corrività del linguaggio e della naturale antipatia che cerca di suscitare intorno a sé il ministro Brunetta), veramente vuol dire che il grado di reciproca ostilità ed inimicizia, anche all’interno di una compagine che ogni pochi minuti si proclama “coesa”, è arrivato a livelli allarmanti! O, almeno, e se si vuole, stupefacenti!


Mi domando se, oltre ad auspicare chiari segnali di taglio dei costi della politica (ritornello banalizzato dall’uso inane), non potremmo anche sperare in chiari segnali di uno stile della politica che renda il “potere”meno banale?


Un altro dato stupefacente in questo caldo 7 luglio: l’on.le Scilipoti ha 54 anni, buona parte dei quali, suppongo passati in Italia, anche perché in Italia ha avuto un suo cursus honorum politico abbastanza intenso: come ha fatto allora a fare 22.000 visite nelle favelas brasiliane, come ha dichiarato oggi alla presentazione di un suo libro? L’antico amore per i numeri mi porta a fare questo conto: se avesse fatto queste visite con cadenza quotidiana, quand’anche avesse cominciato da neonato e non avesse mai mancato una visita quotidiana, sarebbe arrivato a poco meno di “sole” 20.000 visite (365 giorni X 54 anni = 19.710). Avrà mandato qualcuno!


Ora, supponiamo che abbia dimorato in Brasile per 10 anni continuativi (3650 giorni), dei quali c’è traccia nella sua biografia: in questo caso ne avrebbe visitate 6 al giorno (22.000: 3650= 6). Visite rapide, nevvero, in un decennio tanto intenso?

mercoledì 6 luglio 2011

Yesterday

Un nuovo racconto
(di Felice Celato)


1.


Dopo una notte lievemente agitata da funebri sogni, Andrea, madido di uno strano sudore, aprì gli occhi riluttante alla prima luce del giorno che scivolava dolcemente fra le imposte scostate della camera bianca, insieme alla brezza fresca che dal mare risaliva verso la bassa collina non lontana dalla costa.


Con affaticata lentezza mise a fuoco l’ambiente e riprese coscienza di sé: la lunga convalescenza e le cure non ancora del tutto finite gli davano, di solito, soprattutto al risveglio, un senso doloroso di spossatezza e un desiderio di prolungare all’infinito lo stato di incoscienza che il sonno, aiutato dai farmaci, porta con sé.


Eppure, quello doveva essere un risveglio diverso da quelli che aveva vissuto negli ultimi due mesi, nel clima asettico della clinica nella quale aveva affrontato quello che i medici gli avevano detto dover essere un “lento cammino” verso la guarigione; “completa”, aggiungevano sempre, non senza una qualche esitazione; l’operazione era stata pesante, il male serio, la reazione vitale non proprio vigorosa; la lunga convalescenza nella clinica specializzata, accompagnata dalle cure appropriate, si era resa necessaria, anche tenuto conto del fatto che Andrea era proprio solo. Ora però era “guarito”, le cure erano state via via alleggerite, si era “ripreso”, poteva lasciare la clinica e tornare alla sua “vita normale”: tutti i valori fisiologici erano tornati alla normalità, “compatibilmente con quello che aveva passato”.


“Finalmente il gran giorno è arrivato e domani può uscire!” gli aveva detto, la sera prima, con artificiosa allegria il medico che lo aveva seguito. “Magari cominci con una vacanza, per distrarsi un po’ dalla sua malattia, sulla quale è stato così a lungo concentrato, e per provare a dimenticarla lentamente; vada da qualche parte, non so…al mare, in Sardegna o ai Carabi; può fare tutto, con le dovute prudenze, s’intende, e fra qualche mese, ci rivedremo per qualche controllo; non dimentichi però di seguire le lievi cure che le lascio ancora da fare; in fondo lei è uscito da una ben grave malattia verso una nuova vita! Mi chiami pure se ha bisogno di consigli o se ha problemi e, soprattutto, pensi solo a stare bene! La vita le può ancora offrire molti piaceri.”


Molto gentile, pensò Andrea, guardando verso la finestra dalla quale il giugno inoltrato irrompeva vitale verso il suo letto, anche attraverso la serranda abbassata: certo, pensò sorridendo mestamente, lo scenario che aveva delineato il dottore faceva a pugni col sogno che aveva fatto quella notte, la terza non “aiutata” dai “blandi” sonniferi che negli ultimi due mesi gli erano stati somministrati,sia pure in dosi via via calanti: aveva sognato un breve corteo funebre che, muovendo dalla clinica, scendeva mesto fra i pini del viale, verso la città; un corteo fatto di poche persone, quasi tutte vestite di bianco, coi volti dei medici e delle infermiere che lo avevano assistito; solo due alte figure più vicine al carro funebre erano vestite di nero, ma il loro volto non si scorgeva; nel carro funebre, serrato in una bara di vetro, Andrea si era visto sereno nel volto cereo, immobile, eppure scosso dai lievi sussulti che la strada sconnessa imponeva al corteo.


Come ad uno di questi sussulti, un po’ più forte degli altri, Andrea si era risvegliato, aveva girato gli occhi lungo le pareti della camera bianca, tenuemente illuminata da una lampada azzurrina, e dopo poco si era riassopito, niente affatto agitato dal sogno, anzi stranamente desiderando di riprenderlo da dove si era interrotto.


E come in una seconda puntata del sogno, aveva ripreso l’onirico percorso del funerale: una chiesa quasi vuota, il breve sermone imbarazzato di un prete che nulla sapeva di lui, l’uscita della bara dalla chiesa, l’ultimo viaggio nel carro funebre, la conversazione scherzosa degli autisti durante il lungo tragitto, il calo della bara nel buio di una tomba, e poi l’improvviso risveglio agitato, nel chiarore della stanza bianca della clinica a mezza costa, non lontana dal mare.


Con grande fatica, Andrea scese dal letto e si avvicinò alla finestra; fece scorrere lentamente la serranda e, abbagliato dalla luce ormai chiarissima, respirò profondamente l’aria marina e mise a fuoco la distesa luccicante del mare, un centinaio di metri più in basso e solo qualche chilometro lontano dalla collina.


“La vita le può ancora offrire molti piaceri” aveva detto il medico ma Andrea faceva ancora fatica a crederlo.


La lunga solitudine di precoce vedovo, la malattia gravissima, la sua debole volontà di resistergli, la pesante operazione chirurgica, la convalescenza prolungata, dovevano far parte ormai del suo passato, glielo aveva predicato anche lo psicologo che lo aveva assistito nell’ultimo mese; eppure, il resto dei suoi giorni per molti giorni gli era apparso nient’altro che un non desiderato prolungamento della fatica di vivere, una transizione di incerta durata ma di sicura, insensata solitudine: sì, il mare, il sole, i Caraibi, forse, le letture, la calma di un’esistenza non affannata da stringenti bisogni; ma per arrivare dove? Per approdare a quale porto? Con quali altre tempeste da affrontare? E poi, con la coscienza di essere salpato da quale approdo, di essersi messo per mare per quale tipo di viaggio?


Il mare, dabbasso, già solcato da qualche vela di mattutini appassionati, sembrava rispondergli che il piacere di aprire una vela al vento non richiede la fatica di tracciare la rotta e che per un po’ si può navigare per il solo piacere di scivolare sull’acqua, guardando la costa con occhi sempre più lontani.


“Già, ma la sera?” pensò Andrea con tristezza, “la sera, quando ci si è saziati di sole e di vento e occorre tornare verso la riva che ormai si fa scura? Che cosa ci induce a tornare, che cosa ci chiama, se non la triste paura del mare non più illuminato dal sole? E’ per paura, per solitudine, che torniamo alla riva ansiosa? Per cercarci che cosa?”


Andrea si scosse e cercò di fare appello a tutte le sue depresse energie vitali; si rese conto che, in realtà, non aveva pianificato alcunché per questo suo “ritorno alla vita” e che occorreva farlo in gran fretta.


Per prima cosa, pensò, doveva tornare a casa; poi avrebbe fatto un viaggio, da solo, ovviamente, magari guidando la sua grande e comoda vettura come gli era sempre piaciuto fare, anche senza una meta precisa o verso una meta che avrebbe deciso non appena arrivato a casa.


Si rendeva conto che, in realtà, con questa apparente risoluzione non aveva ancora fatto alcuna scelta sul suo meno immediato futuro e che tutt’al più sapeva che cosa avrebbe fatto in quello stesso giorno, ma tanto, per ora, gli bastava per affrettarsi verso l’uscita dal tunnel di quell’ultimo anno angoscioso e, con insospettata energia, cominciò a preparare il suo addio alla convalescenza.


2.


In realtà il ritorno a casa di Andrea si rivelò più faticoso del previsto: il lungo viaggio in treno, la spossatezza dei movimenti nella confusione del mondo circostante, l’instancato, ciclico ritorno ai cupi pensieri, la tristezza della casa solitaria, le piccole incombenze del riappropriamento delle stanze lo affaticarono più di quanto aveva immaginato; sicché a sera piombò, nel suo letto, in un sonno profondo e del tutto privo di sogni. In fondo, pensò nell’addormentarsi, quelle piccole cure l’avevano distratto dalle proprie inquietudini…forse la vita, quella vita materiale che per lungo tempo gli era apparsa come sospesa, è solo un’utile distrazione della coscienza.


Al risveglio si rese conto che lo aspettava la necessità di una decisione e delle conseguenti, ulteriori piccole faccende che l’organizzazione di un viaggio comunque richiede: denaro, carte di credito, passaporto, controllo dello stato dell’automobile da molto tempo ferma, preparazione delle valigie. Per quanto noiose queste incombenze gli consentirono, per tutta la sua prima giornata da ex-convalescente, di posporre la più faticosa delle scelte, quella che avrebbe necessariamente richiamato la più angosciosa delle domande sul senso della sua vita futura: il viaggio, sì, ma per dove? Quale meta aveva o poteva avere un senso nella sua condizione di solitudine, di spaesamento e di affanno esistenziale e ridare un senso alla sua stessa “guarigione”?


Andrea frugò a lungo nella propria memoria, nelle carte di casa, nei progetti abbandonati prima della malattia, nelle poche riflessioni che aveva fatto durante la convalescenza.


Ogni possibile meta gli pareva insensata e comunque estremamente faticosa; riandò ai pensieri delle vele spiegate al vento senza rotta, agli approdi ignoti, ai viaggi senza meta; un viaggio senza meta, pensò, richiede un senso del viaggiare: ha senso viaggiare fra le vite degli altri, nei luoghi degli affanni di molti attraversati da un viaggiatore senza affanni, che proprio da questa sua propria condizione trae godimento? Ripensò ad un suo lontano viaggio in Brasile, durante il quale si era interrogato sulla moralità delle fotografie che scattava in una favela. Proprio quella gli appariva la più intollerabile contraddizione del viaggio: la fatica del vivere di molti trasformata nel diletto di un singolo; un diletto pensoso, si era detto, ma pur sempre un diletto, in sé stesso forse profondamente ingiusto.


L’unica cosa che alla fine gli parve sensata era quella di tornare al porto da cui aveva salpato, una specie di viaggio che trovava il suo senso nel ritorno, un viaggio verso le radici alla ricerca, forse, del motivo per cui si erano spiegate le vele, delle ragioni, se mai ce ne fossero, del viaggio di andata. Gli tornò in mente, forse senza ragione, un’immagine dell’infanzia, quando la nonna travasava l’olio da una pesante damigiana in piccoli fiaschi: l’olio girava nell’imbuto, un giro, due giri, tre giri, poi sempre più veloce verso il fondo, quasi risucchiato dal buio del fiasco dove andava a riposarsi di nuovo, nell’attesa di esser consumato per sempre.


Fra i pochi esercizi di igiene mentale che aveva appreso nella sua convalescenza, c’era quello di non soffermarsi mai troppo a lungo nei pensieri più lugubri che dal fondo dell’animo tentavano di prendere il sopravvento sulla vita: e così fece, risolvendosi a partire per un viaggio all’indietro, dalla presente stanca maturità verso l’infanzia che pure era stata felice e carica di energia, alla ricerca della vitalità che, tanto indietro nel tempo, dall’anima di quei luoghi si era sprigionata, spingendo il tronco lontano dalla radice affondata nella terra.


Fu così che Andrea, nel terzo giorno della sua “nuova vita”, si mise in viaggio.


3.


L’uscita dalla città risultò più rapida di quanto Andrea avesse immaginato: forse, pensò Andrea, le scuole erano già finite ed il traffico mattutino, come ogni anno, si stava già facendo meno denso, o forse l’atteggiamento riposato che aveva deciso di assumere gli aveva fatto sentire di meno l’impazienza di districarsi nella confusione della città.


Imboccata l’autostrada, cominciò a salire lentamente sull’Appennino, verso l’altro mare dal quale era partito tanti anni prima per la sua avventura cittadina. I suoi pensieri scorrevano lenti fra le montagne, ariosi di giugno come solo qualche giorno prima non avrebbe creduto potessero più essere i pensieri di un uomo solo e da poco uscito da un male profondo che lo aveva portato sull’orlo della morte. La guida gli dava la piacevole sensazione di sempre, l’aria fluiva fresca dai finestrini, il disco di Ray Charles suonava nel lettore di cd, Andrea si trovò a canticchiare fra sé e sé (Yesterday, all my troubles seemed so far away…), quasi sorpreso da quel dimentico piacere del presente che sembrava entrargli nelle vene.


Finalmente, il mare gli si parò dinnanzi con tutta la sua luce e, volgendo a Nord, Andrea cominciò a costeggiarlo, a mezza collina sull’autostrada che portava ai luoghi della sua infanzia.


Andrea scelse di entrare a San Benedetto dal lungomare a sud della piccola città, che tante volte aveva percorso in bicicletta: man mano che si avvicinava alla città, i luoghi gli sembravano, ad un tempo, familiari e sconosciuti, familiari nella struttura fisica, per quanto trasformata dal tempo, sconosciuti per una sorta di dimensione spirituale che non sentiva più sua.


Giunto al centro della piccola città, Andrea parcheggiò la macchina e cominciò il suo inquieto pellegrinaggio: la scuola, la chiesa, la via della casa dei suoi genitori, dove era nato. Tutto gli appariva uguale e diverso, le strade, l’aria, la gente. Si fermò a mangiare qualcosa in un piccolo ristorante sul corso, con pochi tavoli all’aperto: con fatica da convalescente consumò un piccolo pasto di pesce, lentamente, guardando con attenzione e curiosità la gente che scorreva lungo la via: nessun volto noto, solo sprazzi di conversazione nel pesante dialetto locale, captati al volo come suoni di un’infanzia lontana, estraniato dalla vita che scorreva attorno a lui ignorandolo.


Finito di mangiare, si avviò lentamente verso il cuore della città, via via che camminava scorrendo di tanto in tanto su qualche portone i cognomi sui campanelli, tutti familiari nel suono nessuno veramente noto.


Sentendosi ancora in forze, decise di raggiungere lentamente il cimitero, in alto poco fuori la città, nel quale erano sepolti i genitori ed i nonni.


Non senza una qualche incipiente fatica, vi giunse nel pieno del caldo pomeridiano, quando la luce di giugno appiattisce le ombre anche degli alberi più alti. Tergendosi il lieve sudore, Andrea sostò un po’ all’ingresso del cimitero solitario e silenzioso, per riprendere fiato dalla lunga passeggiata prima di quell’ultimo tuffo nel proprio passato che aveva pianificato più lento e meno ansioso di quanto in realtà lo stava imponendo a sé stesso.


Si avviò fra i viali, con qualche difficoltà a rintracciare il luogo della piccola tomba di famiglia; finalmente la scorse, da lontano, notando che, in contrasto con la quiete di tutto il cimitero, c’era, attorno alla tomba, la traccia di una qualche attività non ancora ultimata: una lapide rimossa, appoggiata al muro come in attesa di una sistemazione tuttora in sospeso.


Con vaga inquietudine, si avvicinò lentamente: tutto sembrava al suo posto, le lapidi di suoi genitori, appena sotto quelle dei suoi nonni paterni. Più sotto un loculo senza lapide sembrava da poco murato, come se qualcuno vi fosse stato seppellito di recente.


L’inquietudine di Andrea si fece più pressante, quasi angosciosa: nulla si muoveva nel cimitero silenzioso e quasi deserto; solo in lontananza, in fondo al viale, due alte figure vestite di nero sembravano avvicinarsi lentamente, parlando fra loro, col volto quasi nascosto dalla distanza.


Andrea si volse alla lapide appoggiata verso il muro, la scostò leggermente e vi scorse un’iscrizione: uno strano sudore lo avvolse del suo umido calore mentre leggeva “Andrea M*******, nato il 5.1.1949, morto il 24.6.2006”.


Andrea sentì un fremito profondo: in un attimo il cielo gli apparve di una luce splendente, quasi abbagliante, ogni ombra era scomparsa come per una luce diffusa con forza da ogni angolo del campo visivo: solo le due alte figure vestite di nero spiccavano lungo il viale, ormai più vicine a lui, col volto cancellato dalla luce invadente, una recava curiosamente in mano un grosso imbuto, di quelli che una volta si usavano per travasare l’olio….


Da un’auto che passava ai bordi del cimitero, uno stereo assordante nel quieto pomeriggio estivo suonava una canzone di Ray Charles:….”There’s a shadow hanging over me. Oh yesterday came suddenly…