mercoledì 6 luglio 2011

Yesterday

Un nuovo racconto
(di Felice Celato)


1.


Dopo una notte lievemente agitata da funebri sogni, Andrea, madido di uno strano sudore, aprì gli occhi riluttante alla prima luce del giorno che scivolava dolcemente fra le imposte scostate della camera bianca, insieme alla brezza fresca che dal mare risaliva verso la bassa collina non lontana dalla costa.


Con affaticata lentezza mise a fuoco l’ambiente e riprese coscienza di sé: la lunga convalescenza e le cure non ancora del tutto finite gli davano, di solito, soprattutto al risveglio, un senso doloroso di spossatezza e un desiderio di prolungare all’infinito lo stato di incoscienza che il sonno, aiutato dai farmaci, porta con sé.


Eppure, quello doveva essere un risveglio diverso da quelli che aveva vissuto negli ultimi due mesi, nel clima asettico della clinica nella quale aveva affrontato quello che i medici gli avevano detto dover essere un “lento cammino” verso la guarigione; “completa”, aggiungevano sempre, non senza una qualche esitazione; l’operazione era stata pesante, il male serio, la reazione vitale non proprio vigorosa; la lunga convalescenza nella clinica specializzata, accompagnata dalle cure appropriate, si era resa necessaria, anche tenuto conto del fatto che Andrea era proprio solo. Ora però era “guarito”, le cure erano state via via alleggerite, si era “ripreso”, poteva lasciare la clinica e tornare alla sua “vita normale”: tutti i valori fisiologici erano tornati alla normalità, “compatibilmente con quello che aveva passato”.


“Finalmente il gran giorno è arrivato e domani può uscire!” gli aveva detto, la sera prima, con artificiosa allegria il medico che lo aveva seguito. “Magari cominci con una vacanza, per distrarsi un po’ dalla sua malattia, sulla quale è stato così a lungo concentrato, e per provare a dimenticarla lentamente; vada da qualche parte, non so…al mare, in Sardegna o ai Carabi; può fare tutto, con le dovute prudenze, s’intende, e fra qualche mese, ci rivedremo per qualche controllo; non dimentichi però di seguire le lievi cure che le lascio ancora da fare; in fondo lei è uscito da una ben grave malattia verso una nuova vita! Mi chiami pure se ha bisogno di consigli o se ha problemi e, soprattutto, pensi solo a stare bene! La vita le può ancora offrire molti piaceri.”


Molto gentile, pensò Andrea, guardando verso la finestra dalla quale il giugno inoltrato irrompeva vitale verso il suo letto, anche attraverso la serranda abbassata: certo, pensò sorridendo mestamente, lo scenario che aveva delineato il dottore faceva a pugni col sogno che aveva fatto quella notte, la terza non “aiutata” dai “blandi” sonniferi che negli ultimi due mesi gli erano stati somministrati,sia pure in dosi via via calanti: aveva sognato un breve corteo funebre che, muovendo dalla clinica, scendeva mesto fra i pini del viale, verso la città; un corteo fatto di poche persone, quasi tutte vestite di bianco, coi volti dei medici e delle infermiere che lo avevano assistito; solo due alte figure più vicine al carro funebre erano vestite di nero, ma il loro volto non si scorgeva; nel carro funebre, serrato in una bara di vetro, Andrea si era visto sereno nel volto cereo, immobile, eppure scosso dai lievi sussulti che la strada sconnessa imponeva al corteo.


Come ad uno di questi sussulti, un po’ più forte degli altri, Andrea si era risvegliato, aveva girato gli occhi lungo le pareti della camera bianca, tenuemente illuminata da una lampada azzurrina, e dopo poco si era riassopito, niente affatto agitato dal sogno, anzi stranamente desiderando di riprenderlo da dove si era interrotto.


E come in una seconda puntata del sogno, aveva ripreso l’onirico percorso del funerale: una chiesa quasi vuota, il breve sermone imbarazzato di un prete che nulla sapeva di lui, l’uscita della bara dalla chiesa, l’ultimo viaggio nel carro funebre, la conversazione scherzosa degli autisti durante il lungo tragitto, il calo della bara nel buio di una tomba, e poi l’improvviso risveglio agitato, nel chiarore della stanza bianca della clinica a mezza costa, non lontana dal mare.


Con grande fatica, Andrea scese dal letto e si avvicinò alla finestra; fece scorrere lentamente la serranda e, abbagliato dalla luce ormai chiarissima, respirò profondamente l’aria marina e mise a fuoco la distesa luccicante del mare, un centinaio di metri più in basso e solo qualche chilometro lontano dalla collina.


“La vita le può ancora offrire molti piaceri” aveva detto il medico ma Andrea faceva ancora fatica a crederlo.


La lunga solitudine di precoce vedovo, la malattia gravissima, la sua debole volontà di resistergli, la pesante operazione chirurgica, la convalescenza prolungata, dovevano far parte ormai del suo passato, glielo aveva predicato anche lo psicologo che lo aveva assistito nell’ultimo mese; eppure, il resto dei suoi giorni per molti giorni gli era apparso nient’altro che un non desiderato prolungamento della fatica di vivere, una transizione di incerta durata ma di sicura, insensata solitudine: sì, il mare, il sole, i Caraibi, forse, le letture, la calma di un’esistenza non affannata da stringenti bisogni; ma per arrivare dove? Per approdare a quale porto? Con quali altre tempeste da affrontare? E poi, con la coscienza di essere salpato da quale approdo, di essersi messo per mare per quale tipo di viaggio?


Il mare, dabbasso, già solcato da qualche vela di mattutini appassionati, sembrava rispondergli che il piacere di aprire una vela al vento non richiede la fatica di tracciare la rotta e che per un po’ si può navigare per il solo piacere di scivolare sull’acqua, guardando la costa con occhi sempre più lontani.


“Già, ma la sera?” pensò Andrea con tristezza, “la sera, quando ci si è saziati di sole e di vento e occorre tornare verso la riva che ormai si fa scura? Che cosa ci induce a tornare, che cosa ci chiama, se non la triste paura del mare non più illuminato dal sole? E’ per paura, per solitudine, che torniamo alla riva ansiosa? Per cercarci che cosa?”


Andrea si scosse e cercò di fare appello a tutte le sue depresse energie vitali; si rese conto che, in realtà, non aveva pianificato alcunché per questo suo “ritorno alla vita” e che occorreva farlo in gran fretta.


Per prima cosa, pensò, doveva tornare a casa; poi avrebbe fatto un viaggio, da solo, ovviamente, magari guidando la sua grande e comoda vettura come gli era sempre piaciuto fare, anche senza una meta precisa o verso una meta che avrebbe deciso non appena arrivato a casa.


Si rendeva conto che, in realtà, con questa apparente risoluzione non aveva ancora fatto alcuna scelta sul suo meno immediato futuro e che tutt’al più sapeva che cosa avrebbe fatto in quello stesso giorno, ma tanto, per ora, gli bastava per affrettarsi verso l’uscita dal tunnel di quell’ultimo anno angoscioso e, con insospettata energia, cominciò a preparare il suo addio alla convalescenza.


2.


In realtà il ritorno a casa di Andrea si rivelò più faticoso del previsto: il lungo viaggio in treno, la spossatezza dei movimenti nella confusione del mondo circostante, l’instancato, ciclico ritorno ai cupi pensieri, la tristezza della casa solitaria, le piccole incombenze del riappropriamento delle stanze lo affaticarono più di quanto aveva immaginato; sicché a sera piombò, nel suo letto, in un sonno profondo e del tutto privo di sogni. In fondo, pensò nell’addormentarsi, quelle piccole cure l’avevano distratto dalle proprie inquietudini…forse la vita, quella vita materiale che per lungo tempo gli era apparsa come sospesa, è solo un’utile distrazione della coscienza.


Al risveglio si rese conto che lo aspettava la necessità di una decisione e delle conseguenti, ulteriori piccole faccende che l’organizzazione di un viaggio comunque richiede: denaro, carte di credito, passaporto, controllo dello stato dell’automobile da molto tempo ferma, preparazione delle valigie. Per quanto noiose queste incombenze gli consentirono, per tutta la sua prima giornata da ex-convalescente, di posporre la più faticosa delle scelte, quella che avrebbe necessariamente richiamato la più angosciosa delle domande sul senso della sua vita futura: il viaggio, sì, ma per dove? Quale meta aveva o poteva avere un senso nella sua condizione di solitudine, di spaesamento e di affanno esistenziale e ridare un senso alla sua stessa “guarigione”?


Andrea frugò a lungo nella propria memoria, nelle carte di casa, nei progetti abbandonati prima della malattia, nelle poche riflessioni che aveva fatto durante la convalescenza.


Ogni possibile meta gli pareva insensata e comunque estremamente faticosa; riandò ai pensieri delle vele spiegate al vento senza rotta, agli approdi ignoti, ai viaggi senza meta; un viaggio senza meta, pensò, richiede un senso del viaggiare: ha senso viaggiare fra le vite degli altri, nei luoghi degli affanni di molti attraversati da un viaggiatore senza affanni, che proprio da questa sua propria condizione trae godimento? Ripensò ad un suo lontano viaggio in Brasile, durante il quale si era interrogato sulla moralità delle fotografie che scattava in una favela. Proprio quella gli appariva la più intollerabile contraddizione del viaggio: la fatica del vivere di molti trasformata nel diletto di un singolo; un diletto pensoso, si era detto, ma pur sempre un diletto, in sé stesso forse profondamente ingiusto.


L’unica cosa che alla fine gli parve sensata era quella di tornare al porto da cui aveva salpato, una specie di viaggio che trovava il suo senso nel ritorno, un viaggio verso le radici alla ricerca, forse, del motivo per cui si erano spiegate le vele, delle ragioni, se mai ce ne fossero, del viaggio di andata. Gli tornò in mente, forse senza ragione, un’immagine dell’infanzia, quando la nonna travasava l’olio da una pesante damigiana in piccoli fiaschi: l’olio girava nell’imbuto, un giro, due giri, tre giri, poi sempre più veloce verso il fondo, quasi risucchiato dal buio del fiasco dove andava a riposarsi di nuovo, nell’attesa di esser consumato per sempre.


Fra i pochi esercizi di igiene mentale che aveva appreso nella sua convalescenza, c’era quello di non soffermarsi mai troppo a lungo nei pensieri più lugubri che dal fondo dell’animo tentavano di prendere il sopravvento sulla vita: e così fece, risolvendosi a partire per un viaggio all’indietro, dalla presente stanca maturità verso l’infanzia che pure era stata felice e carica di energia, alla ricerca della vitalità che, tanto indietro nel tempo, dall’anima di quei luoghi si era sprigionata, spingendo il tronco lontano dalla radice affondata nella terra.


Fu così che Andrea, nel terzo giorno della sua “nuova vita”, si mise in viaggio.


3.


L’uscita dalla città risultò più rapida di quanto Andrea avesse immaginato: forse, pensò Andrea, le scuole erano già finite ed il traffico mattutino, come ogni anno, si stava già facendo meno denso, o forse l’atteggiamento riposato che aveva deciso di assumere gli aveva fatto sentire di meno l’impazienza di districarsi nella confusione della città.


Imboccata l’autostrada, cominciò a salire lentamente sull’Appennino, verso l’altro mare dal quale era partito tanti anni prima per la sua avventura cittadina. I suoi pensieri scorrevano lenti fra le montagne, ariosi di giugno come solo qualche giorno prima non avrebbe creduto potessero più essere i pensieri di un uomo solo e da poco uscito da un male profondo che lo aveva portato sull’orlo della morte. La guida gli dava la piacevole sensazione di sempre, l’aria fluiva fresca dai finestrini, il disco di Ray Charles suonava nel lettore di cd, Andrea si trovò a canticchiare fra sé e sé (Yesterday, all my troubles seemed so far away…), quasi sorpreso da quel dimentico piacere del presente che sembrava entrargli nelle vene.


Finalmente, il mare gli si parò dinnanzi con tutta la sua luce e, volgendo a Nord, Andrea cominciò a costeggiarlo, a mezza collina sull’autostrada che portava ai luoghi della sua infanzia.


Andrea scelse di entrare a San Benedetto dal lungomare a sud della piccola città, che tante volte aveva percorso in bicicletta: man mano che si avvicinava alla città, i luoghi gli sembravano, ad un tempo, familiari e sconosciuti, familiari nella struttura fisica, per quanto trasformata dal tempo, sconosciuti per una sorta di dimensione spirituale che non sentiva più sua.


Giunto al centro della piccola città, Andrea parcheggiò la macchina e cominciò il suo inquieto pellegrinaggio: la scuola, la chiesa, la via della casa dei suoi genitori, dove era nato. Tutto gli appariva uguale e diverso, le strade, l’aria, la gente. Si fermò a mangiare qualcosa in un piccolo ristorante sul corso, con pochi tavoli all’aperto: con fatica da convalescente consumò un piccolo pasto di pesce, lentamente, guardando con attenzione e curiosità la gente che scorreva lungo la via: nessun volto noto, solo sprazzi di conversazione nel pesante dialetto locale, captati al volo come suoni di un’infanzia lontana, estraniato dalla vita che scorreva attorno a lui ignorandolo.


Finito di mangiare, si avviò lentamente verso il cuore della città, via via che camminava scorrendo di tanto in tanto su qualche portone i cognomi sui campanelli, tutti familiari nel suono nessuno veramente noto.


Sentendosi ancora in forze, decise di raggiungere lentamente il cimitero, in alto poco fuori la città, nel quale erano sepolti i genitori ed i nonni.


Non senza una qualche incipiente fatica, vi giunse nel pieno del caldo pomeridiano, quando la luce di giugno appiattisce le ombre anche degli alberi più alti. Tergendosi il lieve sudore, Andrea sostò un po’ all’ingresso del cimitero solitario e silenzioso, per riprendere fiato dalla lunga passeggiata prima di quell’ultimo tuffo nel proprio passato che aveva pianificato più lento e meno ansioso di quanto in realtà lo stava imponendo a sé stesso.


Si avviò fra i viali, con qualche difficoltà a rintracciare il luogo della piccola tomba di famiglia; finalmente la scorse, da lontano, notando che, in contrasto con la quiete di tutto il cimitero, c’era, attorno alla tomba, la traccia di una qualche attività non ancora ultimata: una lapide rimossa, appoggiata al muro come in attesa di una sistemazione tuttora in sospeso.


Con vaga inquietudine, si avvicinò lentamente: tutto sembrava al suo posto, le lapidi di suoi genitori, appena sotto quelle dei suoi nonni paterni. Più sotto un loculo senza lapide sembrava da poco murato, come se qualcuno vi fosse stato seppellito di recente.


L’inquietudine di Andrea si fece più pressante, quasi angosciosa: nulla si muoveva nel cimitero silenzioso e quasi deserto; solo in lontananza, in fondo al viale, due alte figure vestite di nero sembravano avvicinarsi lentamente, parlando fra loro, col volto quasi nascosto dalla distanza.


Andrea si volse alla lapide appoggiata verso il muro, la scostò leggermente e vi scorse un’iscrizione: uno strano sudore lo avvolse del suo umido calore mentre leggeva “Andrea M*******, nato il 5.1.1949, morto il 24.6.2006”.


Andrea sentì un fremito profondo: in un attimo il cielo gli apparve di una luce splendente, quasi abbagliante, ogni ombra era scomparsa come per una luce diffusa con forza da ogni angolo del campo visivo: solo le due alte figure vestite di nero spiccavano lungo il viale, ormai più vicine a lui, col volto cancellato dalla luce invadente, una recava curiosamente in mano un grosso imbuto, di quelli che una volta si usavano per travasare l’olio….


Da un’auto che passava ai bordi del cimitero, uno stereo assordante nel quieto pomeriggio estivo suonava una canzone di Ray Charles:….”There’s a shadow hanging over me. Oh yesterday came suddenly…

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