In morte di Antonio Tabucchi
(di Felice Celato)
Come ogni appassionato lettore di romanzi d’autore,
ho anch’io in mente la mia personalissima scheda della dozzina di libri che
considero “i libri della mia vita”, i libri cioè che ho letto e magari riletto
più volte ed ai quali attribuisco il significato particolare della “traccia”,
la traccia delle mie riflessioni e delle mie vie alla comprensione del mondo anche
attraverso gli occhi indagatori di altri, che magari hanno saputo fare arte narrativa
della loro esperienza dei complessi tessuti dell’esistenza.
Certo, ognuno di noi, specie quando gli anni
cominciano ad essere non pochi, ha anzitutto accumulato una serie di dirette esperienze
dell’umanità che, insostituibilmente, gli vengono dal proprio vissuto personale, dalle molte persone
che ha incontrato, amato o non amato, apprezzato o (inevitabilmente e magari
ingenerosamente) disprezzato; ed a questo vissuto deve gran parte del suo
rapporto con gli altri.
Nel mio caso, grazie a Dio, è stato un rapporto
felice, perché di persone dalla profonda impronta umana ne ho conosciute, direi,
molte (che, quando ho potuto, ho anche cercato di “trattenere” nel novero delle
mie amicizie), certamente tante di più di quante ho preferito dimenticare. Però
la lettura di buoni romanzi, quelli ai quali possa appunto applicarsi la
definizione che di essi dà Milan Kundera, “strumenti di esplorazione
dell’esistenza” ( la citazione non è precisa, ma il senso è questo), mi ha
aiutato a costruire una ulteriore via alla conoscenza del mondo e delle vicende umane, magari
attraverso storie paradigmatiche, e come tali disincarnate, ma non astratte né
prive di profonde risonanze nei pensieri e nei sentimenti di ciascuno di noi.
Con questi libri ho conservato un rapporto
particolare di memoria ed affetto che, nel tempo, mi ha portato a riletture, quasi
sempre foriere di nuove e più profonde intuizioni che, spesso, si legano anche
a ricorrenti fasi della mia vita interiore.
Ebbene, fra questi libri ha un posto speciale un
romanzo breve dello scrittore che è morto in questi giorni a Lisbona, Antonio
Tabucchi, autore di molte belle opere dai toni affascinanti, alcune anche
editorialmente molto fortunate (Sostiene
Pereira, prima fra tutte), ma soprattutto, per me, l'autore di Requiem.
Requiem è la storia di un sogno, o meglio, di un incontro
fantastico sospeso fra sogno e ricordi, fra l’autore ed il misterioso fantasma
di quello straordinario letterato del ‘900, un po’ poeta ed un po’ filosofo,
che fu il portoghese Fernando Pessoa, di cui Antonio Tabucchi è stato un grande
studioso e traduttore (anzi, anche Requiem, nell’edizione originale, è scritto
in portoghese, in omaggio, scrive l’autore, alla Lisbona della sua gioventù ed
alla sua gente).
L’ho riletto molte volte, Requiem, che considero un romanzo adatto alla maturità del lettore,
a quella fase della sua età quando i ricordi e i rimpianti cominciano a dissolvere, in atmosfere oniriche e
metafisiche, la realtà vissuta e le suggestioni più delicate delle nostre
esperienze.
Se potessi trasmettere un’idea del libro a quei pochi
fra i miei amici che hanno resistito ai miei pressanti inviti alla lettura di Requiem, richiamerei le atmosfere di alcuni
film di Fellini, più di tutti di Amarcord
ma, per certi aspetti anche de La dolce
vita, del quale, peraltro, Requiem
non ha la venatura etica e quasi religiosa.
In occasione della scomparsa di Tabucchi, scrittore
europeo, mi piace ricordare quest’opera dal titolo quanto mai adatto ad un
pensiero post-mortem.
Roma, 26 marzo 2012