sabato 30 novembre 2019

Una favola per adulti

Il figlio di Noè
(di Felice Celato)
Che stiamo vivendo tempi cupi, almeno a me, non pare dubbio: scemenze e fandonie si contendono l’ampio spazio vuoto nei nostri cervelli, la nostra civitas, ripiegata su sé stessa, come la giovane schizofrenica dell’ultimo post, si costringe a vivere quella falsa verità che, forse, è l’espressione dei suoi desideri, incontrollati e confusi ma rancorosi e pugnaci, nel coro assente della sua ex classe dirigente.
Bene; si fa per dire, naturalmente.
In questi tempi cupi, dicevo, anche gli adulti possono aver bisogno, per rifiatare, di favole nuove od antiche (quelle che circolano sono stupide e spesso noiose!); se non proprio quelle con fate, maghi e mele stregate, almeno – questo sì! – quelle che raccontano di vite buone che attraversano il tempo, anche nelle sue fasi più buie, seminando, come il Pollicino di Perrault, briciole di umanità, per ritrovare la strada di una terrena speranza che sopravviva fra le macerie di quanto gli uomini credono di “costruire” quando – in mille modi – depongono la ragione e si abbandonano al dramma del suo sonno.   
Questo, credo, è lo spirito giusto per leggere l’ultimo romanzo di Eric Emmanuel Schmitt, il grande autore e drammaturgo francese (da me molto amato e qui tante volte citato e segnalato ai lettori in cerca di buone letture, come Il Vangelo secondo Pilato, La vendetta del perdono, Il Visitatore, La giostra del piacere, La parte dell’altro, La notte di fuoco, etc). 
Il figlio di Noè (editore e/o, 2018) è il suo ultimo piccolo romanzo (appena 150 pagine), ambientato durante l’occupazione nazista del Belgio, e (credo liberamente) ispirato alla storia di padre Joseph André di Namur (alla sua memoria è infatti dedicato), proclamato Giusto fra le Nazioni per aver salvato, a rischio della propria vita, molti bambini ebrei durante, appunto, quel tragico periodo. 
L’avventurosa storia del piccolo Joseph Bernstein e del suo straordinario salvatore e maestro di vita (padre Pons, nella narrazione) non la accenno nemmeno per grandi linee, per non sciupare il piacere della lettura a coloro che vorranno leggere il romanzo; per aiutare ad arrivare alla fine, dirò solo che è molto commovente e – per certi versi – sa di favola per adulti, col suo regolare happy end ma anche col suo carico di temi che travalicano la storia stessa e restano nella memoria. Del resto, la narrazione di Schmitt è – come sempre – limpida e tesa (come quella di ogni vero narratore) ma animata – come sempre – da una passione per i grandi temi della nostra umanità (e della religione, in particolare), che attraversano la nostra vita rendendoci degni di essa e della nostra intelligenza.
Come si sarà capito, raccomando vivamente la lettura di questo piccolo libro, lettura che io ho fatto, con grande soddisfazione, nell’ultimo giorno di pioggia di questo piovoso novembre; oggi, infatti, c’è il sole.
Roma 30 novembre 2019.

Errata corrige: Il figlio di Noè non è, come sopra ho scritto, "l'ultimo romanzo" di E.E.S.; infatti - come ho scoperto oggi - nel 2019 l'autore ha scritto Felix e la fonte dell'invisibile (che ho appena comprato). Anche questo, come quello, fa parte del "Ciclo dell'invisibile", una serie di racconti.... che affrontano la ricerca del significato ultimo delle cose. Ogni volta il protagonista deve confrontarsi con i momenti cruciali dell'esistenza - lutto, abbandono, malattia, guerra - e trova la forza di andare avanti nell'incontro con una persona che è anche un incontro con una spiritualità (così,  per restare ai due romanzi in discorso, l'animismo in Felix e la fonte dell'invisibile e l'ebraismo in Il figlio di Noè)
Roma, 1° dicembre 2019

giovedì 21 novembre 2019

Stupi-diario socio-psichiatrico / 2

Quos Deus perdere vult...
( di Felice Celato)
Questa cupa sentenza di epoca moderna, tanto poco fondata teologicamente (Dio toglie prima il senno a chi Egli vuol mandare in rovina), mi veniva in mente sfogliando con disgusto i giornali di oggi: come non bastassero le vicende ILVA ed Alitalia (nelle quali si riassume tutta la devastante incapacità di governo del nostro pencolante paese), si è aggiunta la recentissima crisi psicodinamica innescata dalla questione della riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), con la conseguente pletora di dichiarazioni più o meno avventate, quanto peraltro formalmente “autorevoli” e pericolose.
Del resto, diceva l’Amleto di Shakespeare, a voler definire la pazzia, che cos’è  se non l’essere né più né meno che pazzi? E così mi sono avventurato (complice la pioggia) in una ricerca, fra le principali sindromi psichiatriche, di quella che più mi pare si attagli ad una lettura del presente, applicando in chiave socio-politica le descrizioni cliniche di patologie, in origine, naturalmente individuali.
Ancora una volta, mi è stato di guida il piccolo manuale di Psichiatria e Psicopatologia del professor Gaspare Vella che già avevo usato, più di quattro anni fa (cfr. Stupi-diario socio-psichiatrico, un post del 20 marzo 2015), per esplorare quelli che - allora - mi parevano sintomi psichiatrici perfettamente “adattabili” ai percorsi “mentali” della nostra società (l’ecolalia, la fatuità, la palilalia, la verbigerazione, etc.).
Oggi invece sono andato a rileggermi il racconto (citato dal prof. Vella) dell’esperienza autistica di una giovane schizofrenica: “A volte il mio pensiero vaga qua e là senza soffermarsi su un argomento preciso e costante. Pur avvertendo il suono di una voce che mi interpella, non riesco a “riflessionare” il pensiero ed a rispondere adeguatamente; ciò avviene dopo, come in ritardo. Io vorrei “riflettere” sempre subito, su quello che mi dicono e su quello che faccio, ma ciò non mi riesce…. A forza di isolarmi dal mondo e di rinchiudermi in me stessa, mi allontano tanto dalla realtà che forse i desideri di certi momenti della mia vita assumono per me il valore di essa; mi sento completamente immersa in questa nuova realtà, pur avvertendovi un senso indefinibile di sogno…Ho dei pensieri interni, passivi, a cui a volte faccio seguire l’azione, a volte invece sono astratti, senza azione; è come se fermassi la logica del pensiero stesso. Poi ci sono i pensieri esterni che sono aggressivi, perché vengono dalla volontà altrui, cui devo associarmi o che devo rifiutare… Più tardi ancora, alcuni miei pensieri affluiscono dal subcosciente e mi impongono una falsa verità, come ad esempio di essere diventata madre; sono così costretta a vivere quella verità che, forse, è l’espressione dei miei desideri”.
Di fronte alla drammaticità di queste confessioni, c’è poco da scherzare; l’umanità ferita in quello che ha di più prezioso (la propria psiche) non può che suscitare profonda compassione.
Se mi sono permesso di estrapolarne una lettura socio-politica (provate a leggerle in chiave politica anziché in chiave psichiatrica, immaginando che sia l’Italia a parlare) è solo perché anche il mio paese mi suscita un po' di compassione, di diversa natura, s’intende; ma non per questo meno triste.
Roma 21 novembre 2019





lunedì 18 novembre 2019

Rimorsi di un vecchio liceale

Antonio Rosmini
(di Felice Celato)
Nei miei (non molti) rimorsi di lontano liceale c’è quello di non aver letto un testo monografico di Antonio Rosmini che, in terza liceo classico, affiancava il manuale di storia della filosofia. In realtà, in quell’anno, la nostra amata docente aveva dovuto cedere il posto (per non ricordo quale motivo) ad una anziana, pigra supplente, forse impreparata per una terza liceo, con la quale era pure difficile dedicarsi all’attento studio del manuale sul quale, si sapeva, si sarebbe stati interrogati all’esame di maturità. E dunque, in qualche modo, ci preparammo all’esame concentrandoci sul manuale (e non andò poi male!).
Dunque, oggi, nella ricorrenza della beatificazione di Antonio Rosmini, dichiarata da Benedetto XVI il 18 novembre 2007, mi sono procurato un paio di testi del filosofo trentino, fondatore della Congregazione Religiosa dell’Istituto della Carità (detta appunto dei Padri Rosminiani), icona del liberalismo cattolico, grande amico del Manzoni (che lo definì una delle sei o sette intelligenze che più onorano l’umanità), pensatore amatissimo da Giovanni XXIII, da Paolo VI e da Giovanni Paolo II. Come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel 2001 Joseph Ratzinger si adoperò per rimuovere gli effetti di un infelice Decreto dottrinale del Sant’Uffizio che, nel 1887, aveva condannato certi aspetti del pensiero del Rosmini (la vicenda è nota ai cultori della materia come Questione Rosminiana).
Così oggi mi sono immerso nella lettura di uno dei due testi, un breve Saggio sul comunismo e sul socialismo (poco più di una cinquantina di pagine) esposto direttamente dall’autore presso l’Accademia dei Risorgenti di Osimo nel 1847. La prosa è certamente ottocentesca e l’oratoria travolgente; ma la durissima polemica di Rosmini si concentra su utopisti sociali quali Robert Owen e Charles Fourier, forse oggi un po' dimenticati (certamente da me); e, più brevemente, su Thomas Hobbes.
Non ne avrei fatto dunque oggetto di uno dei miei consigli per la lettura, se non fosse che, nelle brevi Opinioni sull’Autore che precedono il saggio nell’edizione IBL (e-book), ho trovato una citazione di un dotto vescovo che ebbi a conoscere molti anni fa (Mons. Clemente Riva); citazione che – ne capiranno subito la ragione i miei lettori – mi ha entusiasmato ed aumentato il rimorso per l’omessa lettura al liceo. Scriveva infatti Mons. Riva: La concezione rosminiana dello Stato è la più radicale critica della statolatria!
Con questo (insuperabile) stimolo, la celebrazione della ricorrenza e la soddisfazione del rimorso mi impongono almeno una citazione dal volumetto di cui dicevo: tutti i beni si riducono alla libertà; private l’uomo della libertà: egli è privo di tutti i beni suoi propri: fate che gli uomini non possano in una data società far più nulla di quel che vogliono, e quella società è una prigione: ella è inutile, dannosa: non è più società; perocché ogni società si raccoglie unicamente affine di accrescere la libertà de’ soci, affine che le loro facoltà abbiano un campo maggiore, dove liberamente ed utilmente esercitarsi….Nè può recare alcuna meraviglia che l’individuo non sia più nulla, quando il governo è tutto…..Ma nei nuovi sistemi, dove non è più nulla lo individuo, il governo è tutto, dove l’individuo non ha più a pensare a sé né alla famiglia, ma unicamente ad eseguire materialmente gli ordini di un governo, che vuole solo pensar per tutti, dove manca ogni proprietà individuale, dove è tolta ogni libera disposizione dei beni di fortuna, dove le stirpi non hanno più successione né unità, i figliuoli non son più legati coi padri né i padri coi figliuoli e la catena dei tempi disciolta lascia sparpagliati e isolati tutti i suoi anelli; che ragione, che fomite, possono avere d’accendersi affetti e passioni? Ogni naturale loro pascolo è del tutto sottratto e l’attività umana priva di stimoli deve necessariamente spegnersi in un mortale letargo.
Riconosco che la statolatria qui presa di mira è una forma…lievemente più grave di quella che vedo tanto diffusa da noi; ma la malattia è della stessa specie.
Roma, 18 novembre 2019




giovedì 14 novembre 2019

I sicomori

….alberi indispensabili
(di Felice Celato)
Da una suggestiva memoria del p. De Bertolis (a Roma, Chiesa del Gesù, tutte le domeniche alle 10, estate ed inverno, con qualsiasi tempo), ha preso le mosse, qualche settimana fa, una riflessione sul sicomoro come una specie di archetipo del luogo da dove si intravvede il vero che passa.
Il sicomoro è un albero della famiglia delle Moracee (diffusa in Africa e Medio Oriente) che cresce fino all’altezza di 20 metri, e raggiunge i 6 metri di larghezza, con una chioma ampia e tondeggiante (fonte: Wikipedia); esso è citato (fonte Eulogos Intra-text) sette volte nell’Antico Testamento e una volta nel Nuovo Testamento (in Luca, 19, 1-10); e deve la sua “notorietà” archetipale proprio al commovente episodio narrato nel Vangelo di Luca a proposito della “conversione del pubblicano Zaccheo” che, a Gerico, cercava di vedere Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là.
[ Forse, come diceva il p. De Bertolis, ognuno nella propria vita spirituale ha un suo sicomoro, un punto più alto della propria esistenza, magari raggiunto con dolore, da dove può intravedere il Cristo che passa in mezzo a noi, per esserne a sua volta misteriosamente riconosciuto e chiamato (“Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”); e di questo, qui, tacciamo, perché, appunto, ognuno ha il suo sicomoro e forse l’ha già scalato o lo sta scalando.]
Ma, per venire a qualcosa di meno intimo, del sicomoro (anzi di interi filari di sicomori), secondo me, abbiamo bisogno anche nella nostra vita di cittadini, in questi tempi di fòlle – reali o mediatiche – che ci impediscono la visione del vero che passa: abbiamo bisogno di vedere come fossimo in disparte rispetto alla confusione che attorno a noi ci rende difficile il farlo. E dal sicomoro, a prescindere dalla nostra statura fisica, si vede meglio che in mezzo alla fòlla, quand’anche materialmente si stia sul divano sfogliando un giornale o guardando la televisione che – della fòlla di Gerico (o di quella di Gerusalemme!) – sono i moderni replicanti; si tratta di capire quali possono essere i nostri sicomori, a loro volta i moderni replicanti dell’albero di Zaccheo.
Qui la scelta si fa ardua, perché persino la scelta del punto da cui guardare  risente di personali paradigmi, che funzionano come le lenti dell’ottico Dippold (ricordate l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master? Che cosa vedete adesso? Globi di rosso, giallo e porpora. E adesso?... Cavalieri in armi, belle donne, visi gentili….Provate questa. Un campo di grano – una città. E adesso?...etc. etc.). Estremizzando: non mancano fra i miei amici quelli che sicuramente direbbero che l’autentico “balcone” sulla realtà sta proprio in mezzo alla gente, lì sta – paradossalmente – il vero sicomoro! Io stesso, d’altra parte, non manco del mio astratto (ed opposto) paradigma: dal sicomoro voglio scorgere le effettive misure della realtà, a prescindere da ogni transitoria distorsione percettiva; e dunque il sicomoro che vado cercando è un luogo rialzato e saldo dal quale scavalcare con gli occhi il muro della fòlla. Solo da lì, mi sento sicuro che il bicchiere d’acqua che disseta continui ad apparirmi – nell’identità della sostanza – profondamente diverso dall’ondata d’acqua che travolge.
Del resto, se quel poco di filosofia che ho studiato non mi inganna, la questione è antica e già Platone contrapponeva l’episteme (la conoscenza) alla doxa (l’opinione) [ e, dunque, certo questo non è il luogo (né chi scrive l’uomo giusto) per sciogliere “definitivamente” il nodo]. Ma di nuovo c’è che, oggi, l’opinione è oggetto di una continua e profonda manipolazione (mediatica, politica e politico-mediatica) che altera, ingigantisce o rimpicciolisce le percezioni e le trasforma in argumentum politico, rendendo indistinguibile quello che è autentico da quello che è indotto; e la scelta del sicomoro si fa sempre più decisiva.
Quale che sia la scelta del vostro sicomoro, è bene, secondo me, che ciascuno ne abbia uno, ma con coscienza e passione del guardare in disparte, quand’anche scegliesse di trovarlo in mezzo alla gente. La questione civile del nostro paese (in questi tempi così rumorosi) mi pare stia tutta nel numero dei sicomori lungo la via (qualunque ne sia la natura) e nel numero delle persone disposte alla piccola fatica del salirvi ogni giorno per vedere.
Roma 14 novembre 2019

sabato 9 novembre 2019

Letture e ri-letture

“Restringere lo stato”
(di Felice Celato) 
La presentazione (all’Istituto don Sturzo, in Roma) di un libro molto interessante (Noi e lo stato – Siamo ancora sudditi?, a cura di Serena Sileoni, IBL libri, 2019, con contributi, fra gli altri, di Carlo Cottarelli, Nicola Rossi, Giovanni Fiandaca, Giuliano Cazzola, Giampaolo Galli) mi ha indotto a ritornare su un tema che mi appassiona, complici un breve tratto di strada fatto con un giovane studente all’uscita dalla presentazione e il breve scambio di idee col curioso giovanotto. Dico subito che “l’evento” ha, in fondo, tradito lo spirito del libro, perché gran parte del tempo ad esso dedicato è stato “monopolizzato” dalla straordinaria eloquenza – o loquacità? – di un giovane politico, interessato, però, più alla “propaganda” di quanto da lui operato che alla discussione sul testo; che, comunque – bisogna dargliene atto perché la cosa è rara per un politico nostrano – ha dimostrato di aver letto. 
Ma non è della presentazione che mi va di parlare oggi, quanto, piuttosto, di una rilettura che il pomeriggio all’Istituto Don Sturzo e una fugace domanda del giovane studente mi hanno suggerito. Si tratta (anticipo la soluzione  del …giallo) di un piccolo volumetto scritto da Pellegrino Capaldo qualche tempo fa (Pensieri sull’Italia – L’importanza della politica, Salerno editore, 2016, già segnalato su questo blog oltre tre anni fa, cfr. post del 12 maggio 2016) e che mi pare ancora attualissimo, anzi, urgente in questi tempi confusi e del tutto privi di progetti politici; e, per certi versi, un’utile integrazione al libro (questo, corposo) presentato appunto l’altro giorno.
La connessione fra i due libri sta tutta nel filone che amo definire anti-statolatrico, che mi pare tanto lontano dall’andazzo presente, caratterizzato – fra l’altro – da pervasive tentazioni statalizzatrici e ….parmigianiste (il termine – questo tutto mio, e ne chiedo scusa ai produttori dell’amato formaggio – indica la tendenza ad arroccare il paese nell’ingenuo vanto di tradizioni e saperi e sapori nazional-popolari, come canone ultimo del nostro idolatrato specialismo, apparentemente patriottico, in realtà vagamente …fesso).
Certo Serena Sileoni la mette giù dura: per ridurre le ipotesi di questo abuso [di sovranità statale nei confronti del cittadino] non ci resta che limitare non il sovrano, ma le sue funzioni… e necessariamente chiedere allo stato di occuparsi di meno cose, per consentirgli di fare bene il poco che deve fare. Ma – ed è questo il punto di connessione cui accennavo – anche Capaldo, che sviluppa un discorso più direttamente focalizzato sulla invocata trasformazione della politica (trasformazione, non depotenziamento, dunque!), non manca di chiarezza: s’impone, a mio parere, una vera e propria destatalizzazione della nostra società, limitatamente – s’intende – alla sola attività di produzione e distribuzione dei servizi, lasciando che siano i cittadini a organizzarsi nell’ambito di linee generali tracciate dallo stato. [Riordiniamo il nostro welfare, è – per intenderci – il titolo del capitolo!]
Insomma, integrale o limitato, un restringimento dello stato sembra essere l’istanza su cui facilmente convergo.
Già, ma qual è il poco che lo stato deve fare e come la destatalizzazione va limitata alla sola attività di produzione e distribuzione dei servizi?
Se dovessi trovare da solo una risposta a questi due interrogativi, direi: difesa, ordine pubblico, giustizia, politica estera, educazione come servizio universale, protezione dei più deboli, disciplina dei mercati, promozione della capacità auto-organizzativa dei cittadini e tassazione correlata a queste finalità, sono le non poche cose che lo stato deve fare e bene; e forse qualcos’altro, poco e con misura; per esempio non deve statalizzare imprese, non deve farsi produttore di beni industriali, non deve inventarsi fasulle strategicità settoriali, etc. Potrebbe però, per esempio, anche farsi promotore e garante del corretto finanziamento dell’ingente sforzo infrastrutturale al quale la terza rivoluzione industriale ci chiama con urgenza (alludo, per esempio, all’ internet of things). Tutte cose da pensare e valutare con rigore di confini (e con serietà di intenti).
Tornando all’”evento” e al suo successivo, occasionale commento, il giovane studente lungo Via delle Coppelle mi diceva con curiosità perplessa: “leggerò il libro ma è certo che mi lascia perplesso l’ampiezza del progetto di restringere lo stato. C’è, nella nostra società, sufficiente cultura politica per impostare una rivoluzione così radicale?” Guardi – è stata la mia istintiva risposta – che restringere lo stato è pura manutenzione della democrazia; se non la si manutiene promuovendo la responsabilità dei cittadini, la democrazia deperisce, si ammalora, e il Leviatano diventa una bestia pericolosa. E poi – visto che c’ero – a memoria ho elargito il mio consiglio per la lettura: si vada a leggere un piccolo libro di qualche anno fa e si convincerà che è possibile farlo con serietà e determinazione, anche se – come Capaldo - non si è sfrenati liberisti.
Roma, 9 novembre 2019

sabato 2 novembre 2019

Una graffiante lettura

La società signorile di massa
(di Felice Celato)
Complici il meteo poco rassicurante e le deprimenti prestazioni golfistiche autunnali, mi sono (letteralmente) rifugiato nella lettura di un libro che raccomando all’attenzione dei miei followers (termine civettuolo per dire coloro che pazientemente scorrono questi esercizi di tediofobia). L’autore, qui più volte citato, è Luca Ricolfi, sociologo torinese, editorialista di vari giornali, genericamente ascritto alla cosiddetta sinistra ma soprattutto – mi pare – chiaro pensatore post-ideologico; il titolo: La società signorile di massa (La nave di Teseo, 2019).
Provo a trasformare in pillole la tesi di Ricolfi, che muove da dati, direi, noti (perlomeno a chi segue le più accreditate analisi sociologiche) per arrivare ad una sintesi apparentemente épatant (forse, cioè, destinata ad épater les bourgeois che, in fondo, ne costituiscono l’argomento): l’Italia  è diventata una società signorile di massa, cioè una società dove coesistono queste tre condizioni che integrano la definizione e che, contemporaneamente, si verificano solo da noi: (1) il numero dei cittadini italiani che non lavorano, al netto di quelli classificabili come poveri e degli stranieri residenti, supera largamente quelli che lavorano. Attenzione: il dato riferito agli italiani che non lavorano considera non solo i disoccupati, ma – più comprensivamente –  gli inoccupati, cioè quelli che per condizione di vita o per scelta, o perché pensionati, o coniugi di occupati, o figli a carico in attesa di “scelte di vita”, o beneficiari di anche modeste rendite, etc, possono scegliere di non lavorare; (2) non ostante ciò, il consumo medio supera il quadruplo di quello individuato come livello di sussistenza (12.000 € l’anno per famiglia di due persone). Lo società Italiana è perciò in una condizione signorile dove l’accesso a consumi opulenti da parte di cittadini che non lavorano diventa di massa; (3) il sistema economico ha cessato di crescere (scrive Ricolfi: nel mondo della crescita zero,…, è matematico che i progressi di ego siano gli arretramenti di alter e che i successi di alter siano i fallimenti di ego; con tutte le conseguenze socio-psicologiche che ne derivano per i suoi cittadini).
I pilastri su cui si regge questa società signorile di massa sono essenzialmente tre: (a) l’enorme ricchezza, reale e finanziaria che – nel giro di circa mezzo secolo – è stata accumulata dalle generazioni dei nonni e dei genitori; (b) l’abbassamento degli standard dell’istruzione che alimenta la disoccupazione volontaria dei giovin signori con l’illusione della acquisizione di competenze  che, all’apparir del vero, si rivelano inadeguate rispetto all’offerta di lavoro (di qui i famosi giovani choosy di Forneriana memoria o il record Italiano dei giovani NEET, Neither in Employment nor in Education or Training); (c) la formazione… di un’infrastruttura paraschiavistica che fa funzionare la società e le consente di assumere la caratteristica (di sapore antico) di società signorile, basata spesso sull’illegalità e sullo sfruttamento dei nuovi schiavi (stagionali, persone di servizio, dipendenti in nero, etc).
Tralascio – per brevità di sintesi – le molte considerazioni interessanti con cui Ricolfi arricchisce di analisi e di  argomentazioni (magari a mio parere non sempre condivisibili)  le scheletro del suo ragionamento; e vengo alle conclusioni dell’autore che, mi pare, portano l’acqua al mulino che su queste pagine fa da tempo girare le pale: se ci  convincessimo che quel che abbiamo ci basta e accettassimo tutte le anomalie culturali, psicologiche ed esistenziali con cui ci siamo abituati a convivere, potremmo – una volta che la crescita si è arrestata – almeno conservare il benessere che abbiamo raggiunto?
La risposta di Ricolfi è – ovviamente – netta: No. Sia per ragioni di natura finanziaria (che non sto qui a richiamare per le tante volte che ne abbiamo parlato, a proposito di debito pubblico) che per ragioni di produttività, che sono di natura industriale ma hanno effetti finanziari esplosivi (se non si esporta perché i nostri prodotti non sono competitivi, come si pagano le importazioni di cui abbiamo incomprimibile bisogno?).
Le conclusioni sul libro: molto interessante nella tesi e negli argomenti (ovviamente spesso non nuovi), scritto con esemplare chiarezza, anche piacevole alla lettura, si raccomanda a chi (molto intelligentemente) ama essere pro-vocato.
Roma 2 novembre 2019 (dedicato ai nostri cari morti).