“Restringere lo stato”
(di Felice Celato)
La presentazione (all’Istituto don Sturzo, in Roma) di un libro molto interessante (Noi e lo stato – Siamo ancora sudditi?, a cura di Serena Sileoni, IBL libri, 2019, con contributi, fra gli altri, di Carlo Cottarelli, Nicola Rossi, Giovanni Fiandaca, Giuliano Cazzola, Giampaolo Galli) mi ha indotto a ritornare su un tema che mi appassiona, complici un breve tratto di strada fatto con un giovane studente all’uscita dalla presentazione e il breve scambio di idee col curioso giovanotto. Dico subito che “l’evento” ha, in fondo, tradito lo spirito del libro, perché gran parte del tempo ad esso dedicato è stato “monopolizzato” dalla straordinaria eloquenza – o loquacità? – di un giovane politico, interessato, però, più alla “propaganda” di quanto da lui operato che alla discussione sul testo; che, comunque – bisogna dargliene atto perché la cosa è rara per un politico nostrano – ha dimostrato di aver letto.
Ma non è della presentazione che mi va di parlare oggi, quanto, piuttosto, di una rilettura che il pomeriggio all’Istituto Don Sturzo e una fugace domanda del giovane studente mi hanno suggerito. Si tratta (anticipo la soluzione del …giallo) di un piccolo volumetto scritto da Pellegrino Capaldo qualche tempo fa (Pensieri sull’Italia – L’importanza della politica, Salerno editore, 2016, già segnalato su questo blog oltre tre anni fa, cfr. post del 12 maggio 2016) e che mi pare ancora attualissimo, anzi, urgente in questi tempi confusi e del tutto privi di progetti politici; e, per certi versi, un’utile integrazione al libro (questo, corposo) presentato appunto l’altro giorno.
La connessione fra i due libri sta tutta nel filone che amo definire anti-statolatrico, che mi pare tanto lontano dall’andazzo presente, caratterizzato – fra l’altro – da pervasive tentazioni statalizzatrici e ….parmigianiste (il termine – questo tutto mio, e ne chiedo scusa ai produttori dell’amato formaggio – indica la tendenza ad arroccare il paese nell’ingenuo vanto di tradizioni e saperi e sapori nazional-popolari, come canone ultimo del nostro idolatrato specialismo, apparentemente patriottico, in realtà vagamente …fesso).
Certo Serena Sileoni la mette giù dura: per ridurre le ipotesi di questo abuso [di sovranità statale nei confronti del cittadino] non ci resta che limitare non il sovrano, ma le sue funzioni… e necessariamente chiedere allo stato di occuparsi di meno cose, per consentirgli di fare bene il poco che deve fare. Ma – ed è questo il punto di connessione cui accennavo – anche Capaldo, che sviluppa un discorso più direttamente focalizzato sulla invocata trasformazione della politica (trasformazione, non depotenziamento, dunque!), non manca di chiarezza: s’impone, a mio parere, una vera e propria destatalizzazione della nostra società, limitatamente – s’intende – alla sola attività di produzione e distribuzione dei servizi, lasciando che siano i cittadini a organizzarsi nell’ambito di linee generali tracciate dallo stato. [Riordiniamo il nostro welfare, è – per intenderci – il titolo del capitolo!]
Insomma, integrale o limitato, un restringimento dello stato sembra essere l’istanza su cui facilmente convergo.
Già, ma qual è il poco che lo stato deve fare e come la destatalizzazione va limitata alla sola attività di produzione e distribuzione dei servizi?
Se dovessi trovare da solo una risposta a questi due interrogativi, direi: difesa, ordine pubblico, giustizia, politica estera, educazione come servizio universale, protezione dei più deboli, disciplina dei mercati, promozione della capacità auto-organizzativa dei cittadini e tassazione correlata a queste finalità, sono le non poche cose che lo stato deve fare e bene; e forse qualcos’altro, poco e con misura; per esempio non deve statalizzare imprese, non deve farsi produttore di beni industriali, non deve inventarsi fasulle strategicità settoriali, etc. Potrebbe però, per esempio, anche farsi promotore e garante del corretto finanziamento dell’ingente sforzo infrastrutturale al quale la terza rivoluzione industriale ci chiama con urgenza (alludo, per esempio, all’ internet of things). Tutte cose da pensare e valutare con rigore di confini (e con serietà di intenti).
Tornando all’”evento” e al suo successivo, occasionale commento, il giovane studente lungo Via delle Coppelle mi diceva con curiosità perplessa: “leggerò il libro ma è certo che mi lascia perplesso l’ampiezza del progetto di restringere lo stato. C’è, nella nostra società, sufficiente cultura politica per impostare una rivoluzione così radicale?” Guardi – è stata la mia istintiva risposta – che restringere lo stato è pura manutenzione della democrazia; se non la si manutiene promuovendo la responsabilità dei cittadini, la democrazia deperisce, si ammalora, e il Leviatano diventa una bestia pericolosa. E poi – visto che c’ero – a memoria ho elargito il mio consiglio per la lettura: si vada a leggere un piccolo libro di qualche anno fa e si convincerà che è possibile farlo con serietà e determinazione, anche se – come Capaldo - non si è sfrenati liberisti.
Roma, 9 novembre 2019
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