domenica 9 giugno 2019

Pentecoste 2019

Pausa di riflessione
(di Felice Celato)
Si vede che ogni cinque primavere deve accadere; mi accade, infatti, di desiderare di sospendere (o quanto meno di diradare) per un po' queste conversazioni asincrone, come mi accadde, per qualche mese, cinque anni fa. Poi, forse, passa, perché mi piace scrivere (anche per la mia stessa memoria di quel che mi viene via via di pensare) e mi consola avere lettori così gradevoli come quelli che mi corrispondono coi loro amicali commenti e con le loro sempre affettuose polemiche; come passò appunto – dopo qualche settimana – cinque anni fa; perché, in fondo, con loro è troppo bello conversare, anche in questa forma solo formalmente pubblica.
Non è che manchino gli argomenti sui quali sfogare l’amarezza per quel che mi pare di vedere dattorno; non è che siano cessate le ansie per la deriva della nostra comunità; né sono cessate letture, numeri interessanti e camminate urbane per parlare d’altro. E’ proprio che mi mancano parole che non mi suonino, anch’esse come quelle contro le quali spesso mi scaglio, consunte: io stesso devo averle usate troppe volte, sia pure senza la presunzione di esser utile a qualcuno, oltre che, come dicevo, a me stesso.
L’Italia – diceva l’altro giorno Massimo Franco al seminario del Censis – si sta (stancamente) consumando di un suo male antico: l’amore per le scorciatoie verso la soluzione dei suoi problemi, siano esse (oggi) il pecorino di stato, il soccorso ferroviario all’Alitalia, i mini-bot per scongiurare il maxi-bott, quota 100 per promuovere l’avvicendamento generazionale al lavoro, i navigator, l’ansia feroce di trovare dei capri espiatorii, la sostituzione della realtà con le percezioni, il dibattito politico surreale, etc. etc. etc.. 
Per un po' mi metto zitto anch’io (non foss’altro per non ripetermi).
Oggi, mentre alla messa di Pentecoste recitavamo l’Inno allo Spirito Santo, mi è – chissà perché – tornato in mente un episodio di cui avevo letto tanti anni fa, quando studiavo la storia della nostra Costituzione: narrano, le cronache di quel tempo creativo (che sono andato a ricercare), che Benedetto Croce, il grande filosofo laico e liberale, tenne l’11 marzo del 1947 uno dei suoi pochi discorsi all’Assemblea Costituente, durante uno dei passaggi più difficili della discussione; e sorprende, oggi come sorprese allora, la conclusione del suo discorso, fra gli applausi scroscianti dell’Assemblea tutta: 
“Ciascuno di noi si ritiri nel profondo della sua coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso. Io vorrei chiudere questo mio discorso, con licenza degli amici democristiani dei quali non intendo usurpare le parti, raccogliendo tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime: Veni, Creator Spiritus, / Mentes tuorum visita; / accende lumen sensibus; / Infunde amorem cordibus! Soprattutto a questi: ai cuori.”
Altri tempi, altri uomini, altra Italia, altre parole; ma un’esigenza quanto mai ricorrente: Creator Spiritus, mentes tuorum visita, accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus; attingendo ad un altro di questi storici inni della Chiesa allo Spirito Santo, aggiungerei: lava quod est sordidum, riga quod est aridum, sana quod est saucium, flecte quod est rigidum… rege quod est devium.
Poiché io credo nello Spirito Santo, credo che tutto ciò sia possibile, per vie sconosciute e misteriose, ben al di là dei nostri meriti, per quel sovrabbondare della grazia che è riservato ad ogni uomo; e che, in fondo, per tanto tempo è stato riservato anche a noi come comunità. Siamo un piccolo grumo dell’umanità e, forse, anche di noi si può dire “Non hanno più vino”, come degli sposi di Cana; ma c’erano, là, sei anfore di pietra….(Gv. 2, 1-11)
Roma 9 giugno 2019


domenica 2 giugno 2019

2 giugno 2019

L’angoscia delle parole
(di Felice Celato)
Nella giornata che noi cattolici abbiamo dedicato all’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, si celebrava, quest’anno, anche la Festa della Repubblica, in sostanza la ricorrenza del referendum (1946) che allontanò dall’Italia la putrefatta monarchia complice del fascismo ed elesse l’Assemblea Costituente; questa formò la Costituzione entrata poi in vigore il 1° gennaio del 1948.
Si potrebbe fondatamente notare che, per quanto effettivamente epocale per la nostra collettività, l’evento civile che si è celebrato oggi è incomparabilmente meno significativo della memoria del definitivo fondersi della natura dell’uomo con la natura di Dio, che apre all’uomo la possibilità di essere per sempre (Benedetto XVI); ma questa notazione susciterebbe lo sdegno ghibellino di molti (…noi guelfo-clericali siamo ormai una sparuta minoranza) e – in questi tempi di sdegni più o meno civili – non mi pare il caso di provocare i miei lettori (anche se sospetto che in maggioranza non siano proprio ghibellini). 
E allora dedichiamoci alla ricerca di qualche cosa che valga la pena di meditare dal mero punto di vista civile; ricerca temutamente faticosa e difficile, dati tempi, ma, invece, non del tutto infruttuosa: basterebbe leggere con attenzione lo scabro ed asciutto discorso di ieri del Presidente della Repubblica (sentire un Presidente esprimere auspici e concetti così elementari che dovrebbero esser interiorizzati da ogni uomo e donna, in una democrazia,  sottintende una diagnosi molto dura e finora ignorata, scrive Marzio Breda sul Corriere di oggi) e le Considerazioni finali del Governatore all’Assemblea della Banca d’Italia (che, come ogni anno, si è tenuta il 31 maggio); e di spunti da meditare se ne troverebbero a iosa, anche lasciando da parte (in questa sede) le analisi spietatamente lucide con le quali Ignazio Visco fa piazza pulita delle tante (e pericolose) fesserie che vengono quotidianamente spacciate per pensiero economico “libero da ogni soggezione europeistica”. Per quanto diversi per natura, occasione e cultura di chi li pronunciava, i due discorsi sembrano infatti pervasi da una comune… angoscia (che, per la verità, molto modestamente, è anche la mia): l’angoscia delle parole.
Altre volte qui abbiamo provato a spiegare quest’angoscia così legata al verboso presente; e l’abbiamo fatto citando Calimani (le parole generano le opinioni e le opinioni danno forma ai sentimenti; i sentimenti diventano fatti), Orwell (se il pensiero corrompe il linguaggio, anche il linguaggio può corrompere il pensiero), il linguista Antonelli (l’imputato non è la lingua….ma il collasso di valori che nella lingua si trasmette) e persino Nanni Moretti con suo famoso chi parla male, pensa male e vive male. Ma Visco attinge ad una citazione fulminante che, mi pare, fotografi meglio di ogni altra, nel presente, l’angoscia delle parolenell’oscurità le parole pesano il doppio (credo Elias Canetti). E che cosa c’è di più oscuro del nostro presente civile se il Presidente della Repubblica si sente costretto a ribadire che le democrazie non sono compatibili con chi alimenta conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate fra identità, con chi fomenta scontri con la continua ricerca di un nemico?
I lettori di migliore memoria (e, data la presunta età media della maggioranza di essi, potrebbero esser rari) ricorderanno che in passato avevamo più volte fatto ricorso alla… invocazione di un’ecologia della convivenza, basandola anzitutto sull’igiene del linguaggio, sulla “sanità” delle sue fonti e sulla misura nelle dosi di polemica quotidiana. Sono passati diversi anni e mai – rileggendole – le nostre note mi sono sembrate più inutili.
L’angoscia di un presente nel quale si sono perduti i significati, la coscienza delle conseguenze e le misure della parole, cresce. 
Nel giorno dell’Ascensione mi pare più forte la nostalgia della nostra altissima vocazione (Gaudium et spes, 22) cui alludeva Benedetto XVI.
Roma 2 giugno 2019