giovedì 30 aprile 2015

Primo maggio

Un modo di guardare alla festa
(di Felice Celato)
Sono certo che domani saremo tutti in festa! Tutti siamo o siamo stati, nel bene o nel male, lavoratori; ed è giusto che, per un giorno, tutti assieme, festeggiamo questo status e i suoi intensi significati nella vita nostra e nella nostra famiglia, naturale ed umana.
Se ripenso alla mia storia personale e familiare, rivedo le fatiche e le ansie – talora anche le (provvisorie) soddisfazioni – della condizione lavorativa, da ultimo quella dei miei figli, mia e di mia moglie e, più indietro, fin dove arriva la mia memoria di affetti ed immagini carissime e ben vivide, dei nostri genitori, dei miei nonni e, certamente più evanescenti, dei miei bisnonni e, vagamente, dei miei trisavoli. Tutti lavoratori, uno anche duramente (molto duramente) provato dal lavoro, fino alla morte per causa di esso.
Per questo, la festa di San Giuseppe Lavoratore per certi versi mi pare anche, anzi soprattutto, la festa della famiglia personale ed umana, e della sua storia nel mondo, celebrata nel nome del santo che fece da padre a Gesù e che Gli fece anche da maestro nell’arte sua, quella umile di falegname; una figura che fece del silenzio la sua dimensione, dell’obbedienza la sua missione, che visse la legge come vangelo, cercando la via dell’unità tra diritto ed amore (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli 2012).
Bene: dunque, domani, mi auguro che tutti passiamo, anche brevemente, in Chiesa per festeggiare questo giorno, anche riandando con la memoria e con la speranza alla dimensione esistenziale del lavoro, che assorbe tanta parte delle nostre energie e che – speriamo con tutto il cuore – possa assicurare ai nostri figli e nipoti un futuro fortunato come, in fondo, lo è stato il nostro passato. Un ricordo speciale poi (e una preghiera per chi può), spero tutti dedicheremo ai tanti che hanno intristito di morte i nostri mari mentre inseguivano un sogno di pace e di lavoro che ridesse un senso alla loro vita squassata dalla violenza.
Roma, 30 aprile 2015

P.S.
Mi giunge voce – spero vera – che alcuni “capi dei lavoratori”, in questo santo giorno di San Giuseppe Lavoratore, sono soliti organizzare (anzi: mi si dice che lo facessero già prima che si dedicasse a San Giuseppe Lavoratore questo primo di maggio) alcune festose riunioni, per celebrare tutti insieme, credo anche con qualche lieto canto, la santità del lavoro e ringraziare il Signore per chi il lavoro ce l’ha e pregarLo per quelli che, dolorosamente, non ce l’hanno e lo cercano con l’angoscia di chi si sente – ed è – deprivato di una dimensione che, in qualche modo, adorna la dignità che gli appartiene di natura, come uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, posto nel mondo  ut operaretur terram de qua sumptus [erat].
Non so se l’informazione è esatta, spero di sì; comunque, se è esatta, certamente domani i telegiornali ne faranno….. almeno un breve cenno.


sabato 25 aprile 2015

Stupi-diarium imbecillitatis

Chi parla male, pensa male
(di Felice Celato)
Man a mano che, con lo stabilirsi della primavera, mi ritornano le energie, mi ritorna la poco pia voglia di distribuire patenti di imbecillità, anzi, latinamente di imbecillitas ( imbecillitas = debolezza intellettuale o morale).
Data la materia, lo faccio, non ostanti le apparenze, con umiltà perché il tema tragico lo richiede e perché non sono un esperto di problemi dell'immigrazione; ma, per bacco!, se ne legge tanta di imbecillitas che non mi tengo più.
È stato imbecillis (anzi, neutro: imbecille, anche in latino) aver presentato i problemi di Mare Nostrum come problemi di costo. A parte il fatto che non si è mai chiarito se si trattasse di costo pieno o di costo marginale (fatto tutt'altro che meramente tecnico!), abbiamo così messo le premesse per l'esito della trattativa europea sull'argomento: dicevamo che ci costava troppo? Bene ora l'Europa ci mette suoi soldi! E basta, però.
È imbecille piagnucolare di abbandono dell’ Italia da parte dell’ Europa (l’Italia si fa carico di 1,1 rifugiati ogni 1000 abitanti, ben sotto la media Europea, M. Ambrosini, professore di Sociologia delle migrazioni, Univ. di Milano, lavoce.info, 21 4 2015), doppiamente imbecille se chi lo fa è chi invoca, d’altra parte, la riconquista della sovranità monetaria (di cui, notoriamente, in passato abbiamo fatto così buon uso!)
È imbecille far credere che esista un'opzione militare con fantomatici bombardamenti di barconi: come immaginare che si possa fermare una marea mettendo gli occhiali alla luna. A parte le difficoltà politiche di avere, trattandosi di atto di guerra, l'autorizzazione ONU (alla quale credono solo alcuni colpevoli ingenui), non vedrei, fra l’altro, come si possa sceverare fra barche destinate al turpe trasporto di umani o barche destinate alla pesca.
È imbecille seguitare a non porsi il problema nella sua radicalità: l'Europa deve affrontare il problema per quello che è, un problema umanitario di portata globale e forse epocale, che richiede una saggezza umana e una visione del mondo che travalica – temo – le attuali “riserve” di umanità ed intelligenza dei fenomeni.
È imbecille (e irresponsabile) diffondere sentimenti xenofobi, anzi costruendo su di essi effimeri programmi elettoralistici, sapendo che il problema non lo risolvono le barriere.
È imbecille utilizzare le parole (tanto più se a vanvera) per esorcizzare il problema. Un esempio, fra i tanti possibili? L’equazione scafisti=schiavisti può essere un concetto adeguato all’entità dello sdegno ma non alla natura dei fatti. Lo scafista non esercita, infatti, nessun diritto di proprietà sul trasportato, che, seppure costretto, tuttavia accetta di essere trasportato in quelle condizioni e con quei rischi, anzi, addirittura paga per sottoporsi ad essi: coactus, tamen voluit, dice un antico principio giuridico sulla violenza c.d. psichica, ancorché tragicamente costretto dalle proprie condizioni di vita, tuttavia ha voluto  (e pagato per) quel viaggio.
Lo scafista sarà, anzi è, un fetente, un approfittatore spietato, un violento anche sanguinario; ma non è uno schiavista, perché (art. 600 del CP) non si appropria (cioè non esercita ….poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà) di una persona per costringerla a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, ma, in cambio di un turpe pagamento, lo trasporta in un viaggio del quale tutti ormai conoscono i rischi e, alla fine di esso, lo riconsegna – se sopravvive alla durezza del viaggio – in piena, ancorché dura, libertà.
E’ molto rischioso fare queste distinzioni, che sanno di specioso, di fronte ad eventi tanto tragici, che rivelano sentimenti bestiali e sconvolgono le persone solo normali; ma questa mania, tipicamente italiana, di esagerare nell’uso delle parole, sforzandole a significare altro rispetto a quello che si potrebbe dire, mi è diventato insopportabile. “Chi parla male pensa male” diceva qualcuno (che non ricordo).
Bene; finito lo sfogo – che mi distrae dalla caccia alle imbecillitates che corrono sulla coeva questione dei droni – torno a domandarmi: ma non c’è proprio nessuno, fra i tanti distributori di imbecillitates, che semplicemente senta sulla sua pelle di uomo la tragica eco della domanda di Caino: “sono forse io il custode di mio fratello?
Roma 25 aprile 2015, 70° anniversario della Liberazione


lunedì 20 aprile 2015

Letture

Media e domande
(di Felice Celato)
Ho letto con grande interesse il libro di p. Francesco Occhetta Le tre soglie del giornalismo – Servizio pubblico, deontologia, professione (UCSI Editore), un libro ricco di chiare ed acute osservazioni esposte anche con un garbo straordinario, anche dove la materia (le pecche piccole e grandi dell’offerta di informazione) avrebbe suggerito (certamente a me) qualche rudezza.
Alla fine della lettura, mi è rimasto però un timore che da tanto tempo mi rende ostile all’ imperante costume mediatico e, tanto per cambiare, incline ad un certo pessimismo.
Il timore è quello che, nell’incrocio fra domanda ed offerta di informazione,  si sia – ormai irrimediabilmente? – determinato un fenomeno simile a quello che nel XVI secolo Thomas Gresham descriveva a proposito della circolazione delle monete; divenne nota come la legge di Gresham quella che il vecchio cambiavalute inglese descriveva con l’enunciato “la moneta cattiva scaccia quella buona”, alludendo al fatto che,  a parità di valore nominale, le monete di minor valore intrinseco (eravamo in pieno “bimetallismo”) tendono a sostituire sul mercato quelle di maggior valore, perché – ovviamente – queste tenderanno ad essere tesoreggiate. Fuori della metafora monetaria, mi pare cioè che ormai l’offerta di junk information (per intenderci: quella che p. Occhetta descrive così bene, per esempio, “riesumando” il famoso caso Tortora o parlando di deontologia dei giornalisti o alludendo alla relazione fra giornalismo e politica) abbia trovato ( o suscitato?) una domanda così robusta di essa da rendere assai problematica una soddisfacente marcia indietro, quasi come se ci fossimo tutti mitridizzati ai veleni del modo di “informare” fino al punto, anzi, di non riuscire più a fare a meno di una quotidiana dose di veleni.
Nascono così e così prendono campo sistematiche distruzioni di persone magari solo mediaticamente antipatiche, metri di giudizio grossolani e semplificatori, banalità camuffate da esigenze di moralità, artificiose confusioni fra fatti ed interpretazioni faziose, solonismi di incompetenti e catonismi di scostumati; e da ciò – ne abbiamo discusso qui altre volte – muovono le reazioni, gli opinionismi sgangherati che popolano, sulle edizioni on –line dei giornali, gli spazi dei deplorevoli commenti del pubblico-lettore (o telespettatore), spesso animati da un umore becero e distruttivo al limite dell’accettabile.
Fin qui ci si potrebbe fermare alla dolente constatazione del pietoso stato della nostra informazione (che pure – va detto – per fortuna conosce ancora, anche in Italia, qualche lodevole eccezione) e, più in generale, della nostra cultura diffusa o, addirittura, del nostro mutato profilo antropologico. Sarebbe già di per sé una sconfitta del nostro tempo, dal quale, per la ricchezza dei mezzi che il progresso pone a nostra disposizione, avremmo potuto aspettarci cose migliori; ma purtroppo non basta perché, come ricorda p. Occhetta, citando Tocqueville, “la democrazia è il potere di un popolo informato”; e la qualità dell’informazione si riflette inevitabilmente nella qualità della nostra democrazia. In fondo i variegati populismi dei nostri tempi, non solo in Italia ma forse più qui che altrove, sono anche il frutto del corto-circuito (credo di aver già usato questo termine proprio su questo argomento) che si determina nella sequenza fatti, loro narrazione, percezione degli stessi e formazione dell’opinione politica e, quindi, del consenso; sicché, alla fine, è proprio quest’ultimo a risultare “inquinato” dalla qualità dell’input informativo, che diventa distorsivamente formativo.
Se non ho esagerato nel porre queste relazioni – ma non credo – resta l’inquietante interrogativo di cui sopra: come fare marcia indietro? E soprattutto: è ancora possibile fare marcia indietro? Quali energie etiche e culturali possiamo attivare con tutta l’urgenza del caso? O dobbiamo ancora sperare/temere che sia solo il duro impatto con la realtà ad aprirci finalmente gli occhi e la mente?

Roma, 20 aprile 2015

martedì 14 aprile 2015

Stupi-diario dei tesorucci

Tesorucci e tesoretti
(di Felice Celato)
Se dovessi (con naturale auto-indulgenza) definire il mio atteggiamento normale verso la vita dovrei dire che di solito è ironico e anche, sempre di solito, disposto a cercare buone ragioni per restare tale.
Sicché non so rassegnarmi ad una certa saturnina inclinazione all’irritazione che da qualche tempo, come i lettori di questo blog avranno notato, mi pervade: bizzosità senile? depressione primaverile? Boh?! Vedremo, vedremo se l’estate….. e, naturalmente, la taumaturgica Expo, avranno gli effetti almeno umorali che spero.
Intanto però eccomi a confessarvi l’orticaria del giorno.
Dunque, digrignando i denti davanti allo sciupio di intelligenza (if any) e buon senso (if any) che ci consegnano le deplorevoli discussioni - fra i tanti “tesorucci” della nostra politica -  sul cosiddetto "tesoretto", eccomi a farvi un esempio semplificato delle ragioni del contendere: supponiamo che una piccola impresa a conduzione familiare (chessò, l’esercizio di un bed & breakfast) preveda di incassare quest’anno 78.000 euro (badate che i pochi numeri che seguono, ancorché evidentemente inventati e sommari, non sono del tutto casuali, come si può vedere sotto, in nota); ma che sappia di doverne spendere, per l’esercizio dell’anno, almeno 82.000, con una perdita (o un disavanzo) prevista di 4.000 euro.
La nostra famigliola imprenditrice avrebbe o no ragione di preoccuparsi e di restare preoccupata e tesa per tutto l’anno? Sì o no?
Bene: ora però, passata Pasqua, il capofamiglia pensa che, un po’ per il bel tempo, un po’ per l’Anno Santo, forse le cose potrebbero andare lievemente meglio e che, quindi, con un po’ di ottimismo, si potrebbero rivedere appunto in meglio le attese della stagione: invece di 78.000 euro, può ora sperare di incassarne diciamo 78.200! Ferme restando, però, le spese a 82.000 euro.
Ora ditemi voi che siete di umore meno malmesso del mio: sarebbe non dico saggio ma almeno semplicemente sensato se il nostro piccolo imprenditore si ponesse, frettoloso, il problema di come spendere i 200 euro in più che ora prevede (o forse solo spera) di incassare?
Mah! Venendo al nostro “tesoretto”, mi viene solo da dire, rubando le parole a uno scrittore irlandese di qualche tempo fa,  this is the country, un paese dove ci si contende persino ciò che solo si spera.
Roma 14 aprile 2015


Nota: per i pignoli, un sommario ragguaglio numerico, sulla base del DEF: PIL previsto nel 2015, diciamo 1640 €mildi; entrate previste dello Stato 47,9% del PIL, cioè 785 €mildi; uscite previste dello Stato (compresi interessi) 50,5% del PIL, cioè 827 €mildi; disavanzo previsto dello Stato 2,6%, cioè 42 €mildi. Valore del cosiddetto “tesoretto” 0,1% del PIL cioè 1,6 €mildi. Salvo errore e/o omissione.

sabato 11 aprile 2015

Esiste un'età dell'anima?

Ambrosia, e impiccarli
(di Felice Celato)
Noi cattolici crediamo che l'anima sia immortale; dunque l'anima non dovrebbe avere un'età, perché l'età, in fondo, non è che un countdown verso la morte.
Ma, magari forzando un poco il concetto di anima come principio spirituale nell’uomo (separata dal corpo, ma nell’unicità della natura umana, come dice il Catechismo, punto 365); magari intendendolo in un senso più vicino alla mente  (direi alla psiche, se non avessi in mente lo Zoppo della Lotteria che, nel Requiem di Tabucchi, dice “noi siamo roba del sud, non abbiamo niente a che fare con la Mitteleuropa,….noi abbiamo l’anima”), mi sentirei proprio di dire che la mia è, almeno, un'anima anziana, se non addirittura vecchia.
Non posso dire (forse perché non mi piacerebbe dirlo) che è vecchio il mio cervello (che è parte “materiale” di quella natura umana di cui dice la dottrina della Chiesa): in fondo sono sempre stato un appassionato del nuovo, direi anzi un fanatico bambinone innamorato delle novità tecnologiche; sono sempre stato aperto alle nuove idee (quando mi sono apparse idee, però, e non fesserie mascherate da idee); mi esalto della mia confidenza coi numeri e con le relazioni che si instaurano fra questi, quando misurano e pesano le cose; e sono anche rapido di conteggio e di abbastanza efficiente comprendonio, comunque non meno efficiente di come mi sentivo qualche anno fa; no, non posso ( e non voglio) dire di sentirmi vecchio di cervello!
Ma allora che cos'è questo continuo disagio, anzi questo fastidio, che mi pervade quando mi affaccio a leggere o a sentir discutere del presente, quando leggo cronache politiche e non, o quando ne scorro i commenti, se non una stanchezza (senile?) dell'anima (o dell’animo, se vogliamo evitare complicazioni psicologiche o teologiche) che mi fa sentire ogni cosa come futile o paurosamente vuota di contenuti o esclusivamente estroversa ( cioè rivolta al mondo esterno, al messaggio semplificato per sempliciotti, o al convenzionale di facile presa), quasi come se tutto fosse un cibo fumante posto di fronte ad un anoressico o uno stanco déjà vu già bruciato dalla storia? Devo pensare che sia, appunto, l'età dell'anima, qui intesa, dunque, come un impasto di pensieri e di umore, di sentimenti e di stamina (energie vitali).
Altrimenti, se volessi banalizzare questo strano sentimento di stanchezza, potrei dire, più semplicemente, che sono stanco di sentir dire tante fesserie, quante ne popolano, potenti e fascinose, i giorni che ci corrono. Ma la banalizzazione è sempre pericolosa e spesso fuorviante; il fatto è che non riesco a sottrarmi al senso affaticante delle banalità vestite da slogan o alle convenzionalità vestite da verità, all’utilizzo smodato di torsioni dei fatti a supporto di tesi altrimenti insostenibili, all’induzione continua di inganni mediatici, alla confusione dei concetti fatta ideologia.
Un lettore critico di questa mia confessione avrebbe tutto il diritto di chiedermi di esemplificare; ed io non potrei che confessarmi imbarazzato, non però dalla mancanza di esempi ma dalla loro sovrabbondanza; per non risultare irrispettoso, suggerirei solo di leggere,  a mo’ di esempio eloquente, le cronache di questi giorni e i tanti pomposi commenti che le accompagnano; e magari di rileggere le chiacchiere conviviali a casa di Don Rodrigo cui assiste Fra’ Cristoforo quando si reca al castello per perorare la causa di Renzo e Lucia: Chi, passando per una fiera, s'è trovato a goder l'armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l'altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s'immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S'andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com'era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s'udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.
Roma, 11 aprile 2015
PS: che sia tutto un effetto del passaggio della primavera?