martedì 19 aprile 2011

Confini/frontiere

(di Felice Celato)

Le confuse agitazioni di qualche giorno fa al confine fra l’Italia e la Francia hanno fatto riemergere dal fondo della mia memoria di Europeo un concetto,un’idea, un oggetto (o meglio una serie di segni costituenti “l’oggetto frontiera”) che giaceva seppellito sotto una montagna di abitudini ormai acquisite: avevamo perso, almeno in Europa, il concetto di frontiera, di confine. Da tempo ormai per pensare una frontiera dovevo riandare ai valichi fra Israele e i territori Palestinesi; anche il passaggio dei valichi aeroportuali più severi (come,ad esempio, quello Statunitense) non ha più il senso fisico della frontiera, anche se in effetti lo è.

Da questo (non gradito) riemergere è nata una riflessione su un più vasto concetto di confine, in una dimensione non politica ma,direi, esistenziale.

Che cosa sono i confini per le sconfinate possibilità dell’esistenza umana?

Difficile dirlo perché tutti i confini, esclusi, appunto, quelli fisici, segnati da sbarre e guardati dai soldati, sono per loro natura indefinibili, incerti, labili, confusi ed evanescenti come lo sono i confini segnati dalla casualità, dal tempo, dalla storia, dalla cultura, dagli ideali, e in generale tutti quelli segnati dalla vita degli uomini e dalla loro incessante e spesso inane attività definitoria: anche il più radicale dei confini, il più inquietante e decisivo, quello fra la vita e la non vita è sottoposto a continue revisioni e ri-definizioni: quando nasce la vita nell’utero della donna o quando finisce, sul letto di un ospedale? Difficile dirlo o, comunque, difficile dirlo in maniera…definitiva.

L’esistenza dell’uomo è segnata dal continuo valicare e ri-definire confini, dal reiterato intersecarsi di linee di separazione, dal perpetuo confondersi di territori e di tempi, in un’ incessabile rincorsa fra limiti e possibilità.

La letteratura, che tanto spesso mette a fuoco i paradigmi del nostro pensiero, nella sua fondamentale ricerca di limiti e di possibilità dell’esistenza dell’uomo, vive dell’esplorazione di queste immaginarie e provvisorie linee di separazione che sono i nostri presunti confini e, camminando lungo esse, ad esse aggiunge nel tempo significati ed interrogazioni, tali da essere talora scolpiti nella storia della nostra cultura in maniera (magari provvisoriamente) indelebile.

L’elegia forse più alta che la letteratura italiana abbia saputo dedicare al tema del confine ed alla sua ambiguità reca un titolo per sua natura sconfinato: L’infinito: una siepe, lievemente frugata dal vento, segna il confine visivo da tanta parte dell’ultimo orizzonte e, pure, di là da sé, evoca sovrumani silenzi e profondissima quiete, creando la suggestione dell’eterno, delle morte stagioni, della storia e del presente, vivo e rumoroso.

Forse non c’era molto altro da dire sull’ambiguità e l’indefinibilità del confine.

Eppure, altri autori hanno scritto con grande perizia pagine geniali mettendo insieme un curioso intreccio di valicamenti bidirezionali dei confini (apparentemente) più definitivi, quello fra vita e morte e quello fra passato e presente; provo a sintetizzare in poche righe un piccolo gioiello della specie scritto da Tabucchi (in Requiem): dopo un pesante e concretissimo pasto col fantasma di un amico, l’io narrante, vinto dal sonno, sogna il proprio padre, ormai morto da tempo, che, da giovane, domanda al figlio, ormai maturo, notizie sulla propria morte, avvenuta qualche anno prima della onirica narrazione.

Un altro sovrano sorvolatore di confini (anche e soprattutto culturali) è Borges, evocatore senza pari di suggestioni metatemporali, come quelle del bellissimo racconto Utopia di un uomo che è stanco.

Leggiamone insieme un passo dove un uomo, che vive secoli dopo quello del suo interlocutore, descrive il suo post-tempo: “Non parliamo di fatti: ormai non interessano più nessuno. Sono semplici punti di partenza per l’invenzione e il ragionamento. Nelle scuole ci insegnano il dubbio e l’arte del dimenticare. Dimenticare soprattutto quel che è personale e locale. Viviamo nel tempo, che è successione, ma cerchiamo di vivere sub specie aeternitatis. Del passato ci restano alcuni nomi, che il linguaggio tende a perdere. Evitiamo inutili precisioni. Non c’è né cronologia né storia. E neppure le statistiche”.

Tre esempi, come ciascuno avrà notato, profondamente diversi fra loro: il primo intessuto di allusioni e di suggestioni, il secondo costruito come una visione attraverso un cannocchiale rovesciato, il terzo più sfumato, basato sul dissolvimento di ogni ancoraggio alla storia ed ai suoi punti fermi; ma anche fra loro simili nel percepire l’ambiguità dei più naturali dei confini, quelli dello spazio e quelli del tempo.

Ma forse il più grande esploratore di confini della storia della letteratura (o almeno di quella a me nota) è Luigi Pirandello. I suoi romanzi, molte sue novelle e quasi tutte le sue opere teatrali costituiscono un corpus ineguagliabile di storie di valicamenti erratici di confini, fra realtà e finzione, fra verità e menzogna, fra certezza ed incertezza, fra vita e teatro. Certe situazioni immaginate da Pirandello hanno addirittura prefigurato distorte forme di sensibilità e gusto maturate nel tempo in forma sorprendentemente paradossale: si provi a riflettere sulla assoluta novità del tema dei Sei personaggi in cerca d’autore: sei personaggi di un’opera teatrale rivendicano all’autore una loro autonoma vitalità per cui, per così dire, escono dal loro essere personaggi per diventare persone e vivono (nell’opera teatrale!) il loro dramma personale distaccato dalla creazione fantastica del loro autore. Il confine tra vita immaginata e vita vissuta viene travolto. Ora si pensi alla straordinaria (e per molti aspetti intollerabile) diffusione dei cosiddetti reality show: qui, all’inverso di quanto avviene nei Sei personaggi, la vita quotidiana diventa spettacolo al punto che i non attori di queste vicende parlano, si muovono ed agiscono come attori che stessero recitando e come se il soggetto della loro recitazione fosse la loro propria vita.

Anche qui un confine supposto, cercato, trovato e annullato, anche qui il dissolvimento della realtà in una indefinibile ambiguità.

Che dire di più, allora, dei confini? Che sono meri strumenti di classificazione della realtà e, come tali, che non hanno una loro definitoria consistenza se non nella nostra connaturata esigenza di ordinare ciò che è intrinsecamente non ordinabile?

Forse.

Di fronte a ciò, l’ammassarsi di forze di polizia dall’una e dall’altra parte del confine di Ventimiglia ha assunto ai miei occhi una connotazione bizzarra, una grottesca epifania felliniana di un mondo passato privo di un senso attuale, per fortuna durata poche ore.





sabato 16 aprile 2011

Populismo

Una riflessione di due mesi fa



(di Felice Celato)

Astraiamoci dal presente e pensiamo al futuro, alla ricerca di “un lumicino”, incessante ed onorevole miraggio di chi spera disperatamente.

Sappiamo tutti che, alle sue origini, il termine populismo aveva una radice storica nei movimenti di pensiero e di azione politica che caratterizzarono il periodo pre-rivoluzionario russo sul finire del XIX secolo e nei primi decenni del novecento.

Tralasciamo la storia (chi ha curiosità di questo genere, si veda il volume Democrazia e Populismo di John Lucaks, tradotto in Italia nel 2005 per i tipi di Longanesi) e veniamo al corrente. Nel linguaggio politico odierno potremmo definire il populismo come l’atteggiamento di governo democratico che si basa su loop ideologico che, un po’ maliziosamente (ma non troppo), riassumerei così:

1. si parte dall’assunto che “il popolo (sovrano)” sia incolto, ignorante, pigro, rozzo (nel pensiero e nello spirito critico),affamato di semplificazioni facili da memorizzare e desideroso di un approccio giocoso anche alle cose più serie;

2. dunque ci si adopera per conquistarlo propinandogli visioni del presente e del futuro (di solito a breve termine) adeguate alla concezione che si ha dello stesso;

3. per tale via, “il popolo (sovrano)”, lungi dall’essere guidato verso visioni adeguate della complessa realtà in cui viviamo, viene alimentato di messaggi sempre adeguati alla concezione che si ha dello stesso;

4. ne risulta che “il popolo (sovrano)” viene progressivamente diseducato fino a risultare perfettamente allineato con la concezione di cui al punto1;

5. a questo punto “il popolo sovrano” è pronto per essere consultato con sondaggi che ispireranno l’azione della politica.

Quali sono gli strumenti di questa manipolazione? Infiniti (e, ahimè!, di destra come di sinistra)! E quasi tutti esaltati, nella loro efficacia, dalla potenza dei mass media. Facilissimo fare degli esempi:

• Cominciamo dalla propalazione di una Weltanschauung (la visione del mondo) esaltante: noi siamo forti, più furbi degli altri, più intelligenti degli altri (“i nostri ricercatori ci sono invidiati da tutto il mondo”, chissà poi perché? Forse perché siamo una razza superiore! O forse per la straordinaria qualità delle nostre Università?); il nostro Paese è il più bello del mondo (tanto il popolo gira poco!); l’Europa, di cui (per fortuna, dico io!) facciamo parte, è gestita da un cumulo di burocrati che pensano solo a fissare regole assurde e fastidiose (come quella che il debito pubblico non può crescere senza limiti) e ci abbandona nel momento del bisogno; l’Euro ci ha arrecato solo danni rivalutandosi contro il dollaro (quando si deprezzava invece voleva dire che era stato mal pensato!); gli Usa e i nostri alleati in generale ci amano e ci ascoltano con grande devozione.

• Passiamo alla rilettura delle nostre istituzioni: la legge (e la giustizia) è subordinata al popolo, nel senso che il popolo può autorizzarne la violazione caso per caso, quando meglio gli aggradi, perché il popolo è sovrano! La Costituzione è una fastidiosa e pomposa eredità del passato; la Corte Costituzionale un organo che fa e disfa come gli pare, per motivazioni sempre politiche, mettendosi contro le leggi che il popolo sovrano ha voluto; il Parlamento serve solo per ratificare quanto chiede il Governo (le leggi si dibattono a “Porta a porta”o a “Ballarò” e si valutano coi sondaggi); della magistratura, meglio non parlarne per carità di patria. Le tasse sono una ruberia dello Stato (“non si mettono le mani nelle tasche dei cittadini!”).

• Veniamo alla descrizione dell’azione politica: la delinquenza è una conseguenza dell’immigrazione (mafia, n’drangheta, nuova corona unita e camorra, corruzione, etc., forse comprese), e il Governo deve proteggerci con click days e motovedette; il debito pubblico cresce in continuazione (chi ha voglia si veda l’apposito sito www.brunoleoni.it che ne mostra il contatore continuo) ma “i conti sono in ordine”; e poi le famiglie sono poco indebitate! Il federalismo è una necessità e lo vogliamo tutti (anche se ne ignoriamo i conti) perché avvicina la spesa al popolo sovrano.

• Ed infine, soffermiamoci sui costumi, dove la devastazione è, se possibile, più radicale; qui la televisione è sovrana, per conto del popolo (si veda al riguardo l’articolo lucido, come sempre, di Galli della Loggia sul Corriere della sera di domenica 20 febbraio): in TV si discutono beghe familiari e condominiali, tempeste ormonali dell’adolescenza, fedeltà e tradimenti coniugali, perché tutto è una fiction o un reality show, la “trasparenza” un dovere, la riservatezza un vizio, l’impudicizia una virtù, le emozioni uno spettacolo, la sregolazione pulsionale (come dice De Rita) una legittima espressione del popolo; ci si diverte mettendo dei polli umani in batteria (presi dalla “gente comune” o fra “i famosi”) per vedere come si azzuffano o come copulano nello spazio ristretto; se c’è un fatto di sangue, si stimolano proclami di odio e dinieghi di perdono e richieste di giustizia, se c’è un processo deve necessariamente esserci un condannato, perché lo jus puniendi è del popolo sovrano che ha diritto alla sua vendetta comunque; se c’è un assolto già condannato dai criminologi della televisione, vuol dire che non c’è stata giustizia; degli arrestati si dice la nazionalità solo se è straniera, perché solo noi siamo buoni; tutti hanno diritto di dire la loro (anche se non sanno quello che dicono) perché il popolo è sovrano, anche quando dice clamorose (sovrane) sciocchezze.

Così, di capitolo in capitolo, il populismo accompagna il popolo sovrano “ad una disarmante esperienza del peggio”, per modo che “i fattori regressivi vincono sull’antropologia collettiva” (Rapporto Censis 2007), verso “una coazione al vuoto”…”in cui gli individui vengono sempre più lasciati a se stessi, liberi di perseguire ciò che più aggrada loro, senza più il quotidiano controllo di norme di tipo generale o dettate dalle diverse appartenenze a sistemi intermedi” (Censis 2010).

Bene, per così dire: se questo che abbiamo descritto è il quadro, che percorso possiamo immaginare per uscire da questa flatlandia dell’intelligenza? Mah! Nel farci gli auguri per il 2011 avevamo invocato il riarmo mentale suggerito da De Rita (Censis 2010); ma dove prender l’armi?

Al di là degli esercizi di ascesi civile che, pusillus grex, ci siamo prescritti all’inizio degli anni recenti (sorvegliare il nostro linguaggio, combattere gli emozionismi, dirci la verità, combattere i ciarlieri, etc), su un piano più generale credo che il macigno da rimuovere, prima che politico e civile, sia di natura culturale: quale barca ci trarrà indietro dalla flatlandia dell’intelligenza sulla quale ci ha spiaggiato il populismo (di destra e di sinistra)?

Escludo che possa trattarsi di semplice cambio di narratore: anzi, temo molto l’illusione che il cambiamento di favola può generare, perché non si governa con le narrazioni e nemmeno si gestiscono le contingenze (De Rita) proponendo affabulazioni diverse. Purtroppo sono portato a temere che ci voglia uno shock, non so di quale tipo e non so quale temere di più, fra i tanti che potrebbero arrivare.

Nella situazione attuale, secondo me, le armi mentali di cui abbiamo disperato bisogno possiamo trovarle soltanto nell’ Europa migliore (si veda l’intervista del Presidente della Repubblica a Welt am Sonntag di qualche giorno fa), dove sta la nostra storia, dove stava la nostra cultura e dove starà, almeno io spero, il nostro futuro. E ciò, non perché l’Europa sia una specie di paradiso perduto (perché non lo è e ha, anch’essa, molti problemi) ma perché da soli non credo che saremmo in grado di tirarci fuori dal buco nero in cui ci siamo cacciati.

Quando si comporranno gli schieramenti elettorali ( e prima o poi dovrà pure accadere) dovremmo riflettere soprattutto su che cosa ci avvicina di più all’Europa migliore e che cosa ce ne allontana di più (in materia di istruzione, debito pubblico, politica energetica, problema dell’immigrazione, etc). Questo, per me, sarà il cammino dei prossimi mesi; questa l’ottica che entrambi gli schieramenti dovranno adottare se vogliono il bene del Paese.



Roma 27 febbraio 2011

Cominciamo con un racconto

Kyrie eleison
(di Felice Celato)

1
La lunga spiaggia era deserta, gli ombrelloni tutti chiusi, sentinelle ordinate per chilometri a guardia del silenzio della notte, il mare ancora livido nella luce grigia dell’aurora. Francesco (Franco, come lo avevano chiamato per quasi sessant’anni parenti ed  amici), allungato su una sdraio di fronte alla battigia, celebrava così il primo anniversario della sua fuga dal mondo, attendendo l’alba sul mare, scrutando sull’orizzonte l’apparire del sole, quasi incantato dal rumore dolce della risacca e accarezzato dall’aria ancora fresca di quel tardo giugno marino.

2
Da quasi un anno Franco viveva in bilico lungo il confine di una strisciante depressione, finalmente distaccato da tutto quello che era stato il suo mondo affannoso ma ancora  alla ricerca, con debole tenacia, di una ragione per restare attaccato alla vita, forse non breve ma  quieta, che pure gli restava da vivere.
La lunga lotta che per anni aveva condotto, solitario e rinserrato in se stesso, per salvare l’azienda che aveva ereditato dal padre l’aveva spossato, l’aveva forse isolato anche dalla famiglia: la moglie aveva finito per trasferirsi negli Stati Uniti, non lontano  dai tre figli, tutti ormai radicati, in diverse città,  nel Paese nel quale erano andati a studiare e dove avevano trovato lavoro in campi tanto lontani dagli interessi dell’azienda di famiglia.
Proprio quando poteva dire a se stesso di essere riuscito a guidare l’impresa in acque  sicure, Franco aveva improvvisamente alzato le mani, travolto dalla stanchezza e dalla nausea: le banche miopi, i sindacati irresponsabili e dogmatici, i politici avidi solo di inutili passerelle quando la crisi infuriava e quando si avviava a soluzione, ovviamente senza alcun loro merito. Basta! Franco aveva venduto la sua quota di maggioranza al fratello minore, realizzato quanto bastava ad assicurare a se stesso ed ai suoi un’esistenza priva di affanni materiali e si era ritirato in una piccola casa sulla costa adriatica, non troppo isolata ma senz’altro  lontana anche dalla piccola confusione del vecchio paese marchigiano affacciato sul mare.
Ad uno ad uno aveva ridotto all’essenziale tutti i contatti con il resto del mondo: niente televisione anzitutto ( e questo gli era risultato facile), poi, rapidamente, niente più giornali, niente più radio, il telefono cellulare ed il computer  sempre spenti, pochi libri e solo vecchi, pochi contatti con l’esterno (il droghiere, il benzinaio, il fruttivendolo, la lavanderia e poco altro), solo lunghe ore di silenzio, alla ricerca di energie in se stesso, lenta e non affannata ma al tempo stesso  quasi disperata. Se non, forse, una piccola cura di se stesso alla quale si aggrappava con meticolosa volontà, non c’era più nulla d’attorno che gli sembrasse meritevole di attenzione; anche la moglie e i figli li sentiva raramente per informarsi sommariamente della loro vita e per dare sommari ragguagli sulla propria: “sto bene, mi riposo, penso, vi penso, qui è nevicato il giorno di Pasqua, non so quando verrò a trovarvi….sai, bisogna andare a Roma, prendere l’aereo… mi sto riprendendo, ma ancora….sì, forse”. La famiglia, che pure aveva costituito l’unica sua cura oltre a quella dell’azienda paterna, gli era sfuggita  come la sabbia fine che scivola via dal palmo della mano non per volontà propria ma per naturale gravità che si avvale della naturale scorrevolezza della sua struttura. Nessuna obbiezione, nessuna amarezza, tutto è naturale, tutto è scritto che così avvenga, più passano le stagioni e più i rami si allontanano dalla radice. Pazienza, anche se la radice ha un senso solo grazie ai rami, si diceva Franco.
Anche la religione, che per tanti anni aveva  costituito la spina dorsale della sua visione del mondo, si era inaridita negli anni della maturità di Franco: i troppi affanni della vita corrente lo avevano distratto ed ancorato pesantemente alla terra, occupando con prepotenza ogni angolo della sua esistenza, tarpando con violenza ogni pensiero che non fosse rivolto alla pura meccanica della sopravvivenza.
Una volta cessato lo sforzo, Franco si era reso conto che il legame del suo spirito con la fede poteva essersi interrotto definitivamente, quasi come  se lo spirito stesso avesse perso ogni traccia dei passati sentieri e si fosse smarrito nel deserto della vita: le stesse parole con le quali la fede da sempre nutriva i propri concetti o le proprie preghiere verbali gli suonavano vuote, difficili da sostanziare, forse, talora, anche ingannevoli o, comunque, talmente radicate nelle culture dei tempi da rendere inaccessibile la dimensione di ciò che esisterebbe  oltre i tempi ed oltre i tempi guiderebbe l’uomo.
Nulla di ciò che per quasi un’intera vita lo aveva convinto e animato gli sembrava  costituisse ancora una riserva di valori e di speranza. Eppure, quando aveva deciso di “staccare la spina”, come era solito dire di quella che definiva “la fine delle sue agitazioni”, aveva sperato di poter ritrovare i percorsi dell’anima, di poter riallacciare il dialogo interiore che ben si addiceva – così pensava Franco – alla quieta e lenta attesa dell’incontro finale. Aveva anche progettato di “restituire” agli altri, con operoso servizio, ciò che la vita a lui aveva, in fondo, dato con larghezza soprattutto negli anni più giovanili, cultura, salute, assenza di gravi affanni economici.
Di tutto ciò, non gli restava quasi più niente, né i percorsi dell’anima né gli slanci sociali; la fatica e la tensione degli ultimi anni l’avevano prosciugato.
Una sola cosa, di tutto questo mondo interiore, gli era sopravvissuta, una traccia cui spesso si aggrappava nel tentativo di riprendere il cammino interrotto: la capacità di commuoversi di fronte all’urlo di rabbia dell’uomo verso Dio, per una morte incomprensibile o per un dolore “ingiusto” o per una sciagura che sovrasta le forze dell’uomo, facendolo sentire fragile e limitato di fronte alla Forza e all’Onnipotenza. Gli sembrava che in questo urlo ci fosse l’essenza stessa di un’incomprimibile fede in Dio, quasi un sigillo genetico che inevitabilmente fa appello ad un’Alterità onnipotente : il riconoscimento della umana creaturalità, il senso quasi pre-religioso di un Creatore che deve aver amato l’uomo, la pretesa di giustizia o di misericordia della creatura verso questo Creatore che si assume amante della vita. E il silenzio di Dio lo sconvolgeva come il più inquietante dei misteri.
Di più a Franco non restava, né di sé né del proprio passato. Gli sembrava di aver perso ogni capacità di emozione o anche solo di curiosità e, con essa, ogni interesse al futuro; si rendeva conto dell’incalzare di una irreparabile depressione,  che cercava di esorcizzare con la meticolosa cura di sé e col continuo e disperato appello alle radici di quell’ultima emozione, di quell’ urlo inascoltato, di quell’esigenza di eterno cui non riusciva né voleva rinunciare, pur restandone inquieto e  sconvolto.

3
Il sole appena sorto incendiava di luce la superficie del mare. Franco si alzò lentamente dalla sdraio sulla quale aveva passato la notte, si stirò lievemente, si tolse gli occhiali e si avvicinò alla battigia, ancora perso dietro al rumore lieve delle piccole onde che si infrangevano sulla sabbia. Quella notte di ascolto e di attesa gli aveva riportato alla mente il racconto del profeta Elia che aspetta Dio alle pendici del monte Oreb: non il vento impetuoso, né il terremoto, né il fuoco gli portarono la voce del Signore, ma un lieve mormorio, forse di brezza lieve che muove i cespugli, come il rumore della risacca accarezza la spiaggia.
Franco pensò al mare calmo come ad una viva metafora di Dio: inaccessibile, misterioso, silenzioso e insondato nei suoi recessi più profondi, lontani dai pensieri umani come lontani sono dalle rive popolate; eppure così presente sulla riva dell’uomo con l’incessante mormorio della risacca, un perenne dolcissimo memento, un suono flebile come di indistinte parole.
Lentamente Franco cominciò a camminare lungo la riva e ,d’improvviso, gli tornò in mente una poesia canadese, il racconto di un sogno che provò a ricomporre nella mente:
Ho sognato che camminavo in riva al mare con il Signore e rivedevo sullo schermo del cielo tutti i giorni della mia vita passata. E per ogni giorno trascorso apparivano sulla sabbia due orme: le mie e quelle del Signore. Ma in alcuni tratti ho visto un sola orma. Proprio nei giorni più difficili della mia vita. Allora ho detto: “Signore, io ho scelto di vivere con te e tu mi avevi promesso che saresti stato sempre con me. Perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti difficili? E lui mi ha risposto: “Figlio, tu lo sai che ti amo e non ti ho abbandonato mai: i giorni nei quali c’è soltanto un’orma nella sabbia sono proprio quelli in cui ti ho portato in braccio”.

Gli occhi di Franco si inumidivano, mentre guardava lontano verso la profondità del mare, una profondità lontana, silenziosa, che gli faceva paura mentre la comparava al mormorio dell’acqua lievemente spumeggiante sul bordo della battigia.
“Deve bastarci questo quiete sussurro?” si disse Franco, sedendosi esausto sulla spiaggia.
Poi, lentamente, si tolse le scarpe e cominciò ad arrotolarsi il fondo dei pantaloni, mentre le lacrime scendevano sul suo volto contratto.
Si alzò, sempre gli occhi fissi verso il largo; immerse i piedi nell’acqua ancora fredda, poi lentamente cominciò il suo cammino verso il profondo, piangendo e mormorando “Kyrie eleison”.
La marea, salendo lentamente, già lambiva le scarpe di Franco, abbandonate sulla sabbia.