martedì 19 aprile 2011

Confini/frontiere

(di Felice Celato)

Le confuse agitazioni di qualche giorno fa al confine fra l’Italia e la Francia hanno fatto riemergere dal fondo della mia memoria di Europeo un concetto,un’idea, un oggetto (o meglio una serie di segni costituenti “l’oggetto frontiera”) che giaceva seppellito sotto una montagna di abitudini ormai acquisite: avevamo perso, almeno in Europa, il concetto di frontiera, di confine. Da tempo ormai per pensare una frontiera dovevo riandare ai valichi fra Israele e i territori Palestinesi; anche il passaggio dei valichi aeroportuali più severi (come,ad esempio, quello Statunitense) non ha più il senso fisico della frontiera, anche se in effetti lo è.

Da questo (non gradito) riemergere è nata una riflessione su un più vasto concetto di confine, in una dimensione non politica ma,direi, esistenziale.

Che cosa sono i confini per le sconfinate possibilità dell’esistenza umana?

Difficile dirlo perché tutti i confini, esclusi, appunto, quelli fisici, segnati da sbarre e guardati dai soldati, sono per loro natura indefinibili, incerti, labili, confusi ed evanescenti come lo sono i confini segnati dalla casualità, dal tempo, dalla storia, dalla cultura, dagli ideali, e in generale tutti quelli segnati dalla vita degli uomini e dalla loro incessante e spesso inane attività definitoria: anche il più radicale dei confini, il più inquietante e decisivo, quello fra la vita e la non vita è sottoposto a continue revisioni e ri-definizioni: quando nasce la vita nell’utero della donna o quando finisce, sul letto di un ospedale? Difficile dirlo o, comunque, difficile dirlo in maniera…definitiva.

L’esistenza dell’uomo è segnata dal continuo valicare e ri-definire confini, dal reiterato intersecarsi di linee di separazione, dal perpetuo confondersi di territori e di tempi, in un’ incessabile rincorsa fra limiti e possibilità.

La letteratura, che tanto spesso mette a fuoco i paradigmi del nostro pensiero, nella sua fondamentale ricerca di limiti e di possibilità dell’esistenza dell’uomo, vive dell’esplorazione di queste immaginarie e provvisorie linee di separazione che sono i nostri presunti confini e, camminando lungo esse, ad esse aggiunge nel tempo significati ed interrogazioni, tali da essere talora scolpiti nella storia della nostra cultura in maniera (magari provvisoriamente) indelebile.

L’elegia forse più alta che la letteratura italiana abbia saputo dedicare al tema del confine ed alla sua ambiguità reca un titolo per sua natura sconfinato: L’infinito: una siepe, lievemente frugata dal vento, segna il confine visivo da tanta parte dell’ultimo orizzonte e, pure, di là da sé, evoca sovrumani silenzi e profondissima quiete, creando la suggestione dell’eterno, delle morte stagioni, della storia e del presente, vivo e rumoroso.

Forse non c’era molto altro da dire sull’ambiguità e l’indefinibilità del confine.

Eppure, altri autori hanno scritto con grande perizia pagine geniali mettendo insieme un curioso intreccio di valicamenti bidirezionali dei confini (apparentemente) più definitivi, quello fra vita e morte e quello fra passato e presente; provo a sintetizzare in poche righe un piccolo gioiello della specie scritto da Tabucchi (in Requiem): dopo un pesante e concretissimo pasto col fantasma di un amico, l’io narrante, vinto dal sonno, sogna il proprio padre, ormai morto da tempo, che, da giovane, domanda al figlio, ormai maturo, notizie sulla propria morte, avvenuta qualche anno prima della onirica narrazione.

Un altro sovrano sorvolatore di confini (anche e soprattutto culturali) è Borges, evocatore senza pari di suggestioni metatemporali, come quelle del bellissimo racconto Utopia di un uomo che è stanco.

Leggiamone insieme un passo dove un uomo, che vive secoli dopo quello del suo interlocutore, descrive il suo post-tempo: “Non parliamo di fatti: ormai non interessano più nessuno. Sono semplici punti di partenza per l’invenzione e il ragionamento. Nelle scuole ci insegnano il dubbio e l’arte del dimenticare. Dimenticare soprattutto quel che è personale e locale. Viviamo nel tempo, che è successione, ma cerchiamo di vivere sub specie aeternitatis. Del passato ci restano alcuni nomi, che il linguaggio tende a perdere. Evitiamo inutili precisioni. Non c’è né cronologia né storia. E neppure le statistiche”.

Tre esempi, come ciascuno avrà notato, profondamente diversi fra loro: il primo intessuto di allusioni e di suggestioni, il secondo costruito come una visione attraverso un cannocchiale rovesciato, il terzo più sfumato, basato sul dissolvimento di ogni ancoraggio alla storia ed ai suoi punti fermi; ma anche fra loro simili nel percepire l’ambiguità dei più naturali dei confini, quelli dello spazio e quelli del tempo.

Ma forse il più grande esploratore di confini della storia della letteratura (o almeno di quella a me nota) è Luigi Pirandello. I suoi romanzi, molte sue novelle e quasi tutte le sue opere teatrali costituiscono un corpus ineguagliabile di storie di valicamenti erratici di confini, fra realtà e finzione, fra verità e menzogna, fra certezza ed incertezza, fra vita e teatro. Certe situazioni immaginate da Pirandello hanno addirittura prefigurato distorte forme di sensibilità e gusto maturate nel tempo in forma sorprendentemente paradossale: si provi a riflettere sulla assoluta novità del tema dei Sei personaggi in cerca d’autore: sei personaggi di un’opera teatrale rivendicano all’autore una loro autonoma vitalità per cui, per così dire, escono dal loro essere personaggi per diventare persone e vivono (nell’opera teatrale!) il loro dramma personale distaccato dalla creazione fantastica del loro autore. Il confine tra vita immaginata e vita vissuta viene travolto. Ora si pensi alla straordinaria (e per molti aspetti intollerabile) diffusione dei cosiddetti reality show: qui, all’inverso di quanto avviene nei Sei personaggi, la vita quotidiana diventa spettacolo al punto che i non attori di queste vicende parlano, si muovono ed agiscono come attori che stessero recitando e come se il soggetto della loro recitazione fosse la loro propria vita.

Anche qui un confine supposto, cercato, trovato e annullato, anche qui il dissolvimento della realtà in una indefinibile ambiguità.

Che dire di più, allora, dei confini? Che sono meri strumenti di classificazione della realtà e, come tali, che non hanno una loro definitoria consistenza se non nella nostra connaturata esigenza di ordinare ciò che è intrinsecamente non ordinabile?

Forse.

Di fronte a ciò, l’ammassarsi di forze di polizia dall’una e dall’altra parte del confine di Ventimiglia ha assunto ai miei occhi una connotazione bizzarra, una grottesca epifania felliniana di un mondo passato privo di un senso attuale, per fortuna durata poche ore.





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