giovedì 29 settembre 2016

Spigolature / 10

L’Italia delle misure
(di Felice Celato)
1
Confesso che di solito, quando qualcuno, con aria di saperla lunga, mi fa osservare, per sottrarsi alle angustie delle evidenze, che il PIL non misura la felicità, un po’ mi innervosisco: si capisce perfettamente, rispondo di solito, anche il metro misura la statura fisica e non quella umana o morale. Il fatto è che, quando una misura ci lascia insoddisfatti (nel mio caso il peso), ce la prendiamo sempre con lo strumento (nel mio caso la bilancia) che serve per, appunto, prenderla, quella misura .
Ma tant’è! Gli Italiani sono sempre a favore delle (più impalpabili) “misure” qualitative: così possono restare convinti che abbiamo il paese più bello del mondo, il sole più splendente del mondo, la gente più affascinante del mondo, il cibo più buono del mondo; tant’è vero che, regolarmente, tutto il mondo ci invidia queste cose che (sia detto per inciso) abbiamo fatto ben poco per meritare.
Allora, quando, come ogni anno, esce un repertorio di valutazioni qualitative corro a spulciarlo per vedere se queste qualità, misurate con criteri omogenei, giustificano le presunte invidie di tutto il mondo.
Eccoci dunque all’annuale rapporto del World Economic Forum sulla competitività globale (The global competitiveness report 2016-2017) che, però, per gli inguaribili sognatori del bel paese, ha un difetto: non si limita a formulare articolati giudizi di efficacia e di efficienza ma, dei suoi indici, fa poi una classifica, fra i 138 paesi che – quest’anno – costituiscono il suo campione.
Sinteticamente: siamo al 44° posto (su 138) come indice qualitativo sintetico (per intenderci: siamo dietro, oltre che a tutti i paesi coi quali siamo – spesso impropriamente – abituati a confrontarci, anche a Malesia, Korea, Qatar, Estonia, Lituania, Azerbaijan, etc); ma se scendiamo più sotto, agli indici settoriali dettagliati, scopriamo che siamo 103esimi (sempre su 138) per qualità delle istituzioni (addirittura terz’ultimi per peso delle regolamentazioni amministrative e per efficacia della giustizia civile, 98esimi per incidenza sugli affari dei costi correlati al crimine e alla violenza); siamo 98esimi per qualità dell’ambiente macro-economico, 119esimi per efficienza del mercato del lavoro, 122esimi per sviluppo dei mercati finanziari. Anche dove siamo piazzati meglio (salute e istruzione, infrastrutture e articolazione del mondo degli affari) siamo ben al disotto del peso “relativo” della nostra economia e sicuramente delle nostre pretese, aspettative, speranze, illusioni.
Vabbè! This is the country! Basta averlo chiaro.
2
Cito dal Corriere della sera di oggi (compleanno di Berlusconi e di Bersani, una volta erano feste nazionali): intervista di Lorenzo Salvia al prof. Nicola Rossi, ex senatore del PD, docente di Politica economica e (aggiungo convinto) da sempre mente libera e pensante. Domanda: Anche secondo lei, quindi, il Governo ha alzato il piede dalla spending review?
Risposta: Credo che il problema sia ancora più grande. Tagliare la spesa pubblica non vuol dire fare in modo che lo Stato faccia un po’ meglio quello che ha sempre fatto. Ma decidere che alcune cose non le faccia più!
Chissà che non sia questa di ridurre lo stato (cfr., qui, da ultimo Letture liberali/2 del 4 luglio u.s. e precedenti vari in materia) la strada anche per diminuire il fardello delle nostre debolezze?
Roma  29 settembre 2016


martedì 27 settembre 2016

Stupi-diario stradale

Sempre camminando
(di Felice Celato)
Sarà che ho un estremo bisogno di buonumore, ma stamani credo di aver assistito ad un episodio di strada molto divertente, o almeno che mi ha molto divertito.
Ve lo racconto in breve. Zona Trastevere, un anziano signore, alla guida di una grossa macchina, esce maldestramente a marcia indietro da un parcheggio e provoca una sterzata con frenata da parte di un giovane motociclista, forzato a mettere agilmente i piedi a terra in tutta fretta, sul lato sinistro della moto, per non finire a terra. Da qui, per dirla con Montalbano, la sciarratina, il banale litigio, quali se ne vedono tanti per le strade di Roma (e non solo), con toni verbali rapidamente crescenti e argomentazioni sempre più…personalizzate.
Dunque nulla di strano e nemmeno nulla di divertente; se non che la lite verbale è avvenuta tutta col rispettoso uso del lei, perfino l’usuale rito di…..congedo e chiusura del dibattito, il vaffa di romano-grillina memoria, è diventato un reciproco vadaffa!
Non ci crederete ma ho sentito la necessità di congratularmi col giovane motociclista che – oltre ad avere tutte le ragioni – ha tenuto un comportamento….formalmente irreprensibile. La risposta è stata: beh! anche per strada un po’ di rispetto ci vuole sempre!

Roma 27 settembre 2016

lunedì 26 settembre 2016

Discussioni

La V/verità
(di Felice Celato)
Un amico col quale vale la pena (rectius: col quale fa piacere) discutere mi ha “sfidato” sul tema della verità (forse entrambe, quella con la v minuscola e quella con la V maiuscola) che, come sanno i miei pochi lettori, è uno dei cardini sul quali ruotano la mia weltanschauung, i miei inutili auspici politici e anche – malauguratamente – il mio umore (nel senso che le sue manipolazioni mi irritano – e mi preoccupano – profondamente). Sei sicuro – dice il mio amico – che codesta tua ossessiva fede nella verità non sia essa stessa una forma di fondamentalismo?
In fondo, già Pilato aveva posto il problema della verità in maniera radicale (Che cos’è la verità?) nel momento culminante del suo colloquio con Gesù. E’ vero che Nietzsche (dal quale il mio amico, per suo merito, è culturalmente lontano mille miglia) aveva considerato la questione come una manifestazione del nobile disprezzo di un romano davanti a cui è stato fatto un uso sfacciato della parola “verità”; ma altri – ed io sono, piccolissimo, fra questi – la ritengono invece una domanda molto seria (e tuttora attualissima), ancorché forse venata da romanissimo scetticismo  (J. Ratzinger), o magari addirittura ”genealogica” nel senso, se capisco bene, che contrappone – appunto per genere – la curiosità della conoscenza e il valore del dubbio alla proclamazione della fede (A. Schiavone, Ponzio Pilato, già citato qui).
Allora, come uomini moderni, cosa rispondiamo alla domanda di Pilato? Certo (magari dando soddisfazione al mio amico) possiamo comportarci come Pilato stesso che ha accantonato questa domanda come irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile. Del resto anche oggi, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa (J. Ratzinger, in Gesù di Nazareth, Seconda Parte, LEV, 2011, pgg 214 e sgg) (*).
Eppure senza verità l’uomo non coglie il senso della vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti (sempre Ratzinger, ibidem). Qui, mi pare, ancora non è necessario distinguere fra verità con la v minuscola e verità con la V maiuscola; la verità come difesa dalle manipolazioni e dalle prevaricazioni dei “forti” è, in fondo, quello che – nella mia visione delle cose – può preservare la nostra libertà, la “sanità” delle nostre opinioni e delle nostre valutazioni ma anche "giustificare" le (innegabili) diversità dei nostri credi religiosi.
Si potrà dire che non è sempre facile discernere la verità (siamo ancora in zona v minuscola) nella congerie delle informazioni di cui veniamo bombardati; e questo può essere vero. Anzi, può essere faticoso, appunto, discernere; ma per non lasciare il campo ai più forti, l’esercizio vale sicuramente la pena, anzi forse è un dovere (**).
Però, per noi “paolotti”, la questione della verità non si esaurisce con una v minuscola (e con le piccole battaglie che vale la pena di fare per essa): starei per dire anzi che qui, in zona V maiuscola, una volta che si sia nel recinto dei “paolotti”, l’esercizio è più facile (checché ne pensi il mio amico suggestionato da tanti correnti relativismi). Ed è più facile perché ci è stato detto  chiaramente Chi è la via, la verità e la vita.
Anche a Pilato, del resto, viene detto: colui che ha davanti è venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità (Gv.18,37); il che significa  (Ratzinger, ibidem) mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze….cioè….partendo da Dio, dalla Ragione creatrice, rendere la creazione decifrabile e la sua verità accessibile in modo tale che essa possa costituire la misura e il criterio orientativo nel mondo dell’uomo – che ai grandi e ai potenti si faccia incontro il potere della verità, il diritto comune, il diritto della verità [sottolineatura mia].
Non ho, ovviamente, altro da dire: rimango affezionato all’idea che la verità sia possibile e doverosa. E che la Verità sia bella, anzi straordinariamente affascinante (e per questo forse difficile da esporre nei mutevoli linguaggi); e che – pur riposando essa sulla fede – è pur sempre la Verità, dalla quale discendono (e scusate se è poco!) nientemeno che la nostra speranza e ogni carità.
Roma, 26 settembre 2016

(*) Su questo, il testo di Ratzinger impone una citazione più ampia: È la domanda che pone anche la moderna dot­trina dello Stato: può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? O deve lascia­re la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell'ambito del potere? Vista l'impossibilità di un consenso sulla verità, la politica puntando su di essa non si rende forse strumento di certe tradi­zioni che, in realtà, non sono che forme di conser­vazione del potere? Ma, dall'altra parte, che cosa succede se la ve­rità non conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti – criteri sottratti all'arbitrarietà delle opinioni mute­voli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare la liberazione?

(**)Così, per fare un esempio, se ci si vuole far intendere – come è accaduto in questi giorni – che “l’Europa non vuole” che si mettano in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli (o i nostri nipoti) abbiamo il dovere di pretendere che venga detta la verità (che è – fin troppo evidentemente – tutt’affatto diversa) e di riguardare come altamente pericoloso chi propalasse una tale sciocchezza.




sabato 24 settembre 2016

Olimpica eccentricità di un no

Sciapi e malcontenti
(di Felice Celato)
Vivendo a Roma, in questi giorni non è possibile astenersi dal dire qualcosa sulla decisione del Comune (o meglio: della Sindaca Raggi e del suo entourage) di non volere la candidatura di Roma per le Olimpiadi 2024.
A mio parere la Sindaca ha preso – del resto in coerenza con quello che lei stessa e il suo partito avevano promesso o lasciato capire durante la campagna elettorale, indubbiamente coronata da larghissimo successo –  la decisione giusta, nelle forme e con le motivazioni sbagliate.
Per non guastarsi troppo l’umore non è utile ripercorrere questi errori di forma e di motivazione: basterà dire che nessun “investimento” (ammesso che le Olimpiadi lo siano, vedi oltre) può essere cancellato perché “sennò c’è la corruzione” o perché “dietro ci sono degli interessi di qualcuno”: la corruzione c’è sempre stata, da noi e in tutto il mondo, e gli interessi sono (per fortuna!) la molla di ogni economia (se non ci fossero bisognerebbe inventarli); eppure di “investimenti” nel mondo se ne fanno in continuazione (ormai  in Italia pochi per la verità ma anche da noi se n’è fatti, fra giusti interessi e pessima corruzione).
Mi pare più sensato allineare quelle che – ad avviso di chi scrive – sarebbero state le motivazioni giuste: le classificherei in due categorie, quelle economiche e quelle sociologiche.
Cominciamo dalle prime: pur avendo letto diverse cose  in materia non ho trovato uno studio indipendente che dimostri la convenienza di rendersi organizzatori di Olimpiadi. L’ultimo di questi studi (The Oxford Olympic Study 2016. Cost and cost overrun at the games di Flyvbjerg, Stewart e Budzier, Oxford University, 2016) dopo un’ampia rassegna di dati, conclude: Given the above results, for a city and nation to decide to stage the Olympic Games is to decide to take on one of the most costly and financially most risky type of megaproject that exists, something that many cities and nations have learned to their peril.
Si dirà: ma Torino 2006? E Milano Expo 2015? A parte che quest’ultimo non era un’Olimpiade, basterà osservare che – mirabolanti aspettative a parte  e ambiziosi riutilizzi delle aree tuttora pendenti – nel 2015 (anno dell’Expo) il turismo in Italia è cresciuto largamente al disotto delle medie internazionali non ostante la presunta attrattiva internazionale dell’Expo (ovviamente conteggiata fra i benefici attesi). E che in Piemonte (di cui Torino, se non sbaglio, è la capitale) il PIL ante crisi (periodo 2001-2007, quindi Olimpiade invernale 2006 compresa) cresceva meno (circa il 70%) della media nazionale e dopo la crisi (periodo 2008-2013) è calato di più (circa il -40%) della media nazionale (Olimpiadi sì o no? di Massiani e Ramella in LaVoce.info del 23 settembre 2016, che – va anche detto – riconoscono al progetto Roma 2024 anche alcune attenzioni, che mostrerebbero di aver considerato almeno alcuni gravi problemi di precedenti esperienze internazionali).
Ma veniamo alle motivazioni “sociologiche” che sono assai più amare: a mio giudizio l’Italia è diventata un paese talmente diviso, talmente ostile verso chi realizza, talmente scettico, talmente rissoso e causidico che immaginare la gestione unitaria di un progetto nazionale a lunga scadenza (in fondo da qui al 2024 ci corrono otto anni!) e per di più sottoposto  a grandi rischi di insuccesso (da quelli propri dell’evento e della sua organizzazione, a quelli – imponderabili – di natura geo-politica, sempre rilevanti nel mondo d’oggi)  è oltremodo audace; almeno ora, fintanto che dura questo mood nazionale, farsi carico di un progetto-Paese così complesso come l’organizzazione di un’Olimpiade sarebbe anzi – secondo me –  un azzardo grave.
Qualcuno potrà obbiettare ritorcendo, su chi è convinto di quanto precede, l’accusa di paralizzante scetticismo, e potrebbe anche avere ragione. Il fatto è che io sono convinto che con questa nostra società sciapa e malcontenta (Censis, 2013), indistinta e sfuggente (Censis, 2014), persino propensa a non voler crescere (Censis 2015), con questa mediocre classe dirigente (di governo e di opposizione), con questo animo infiacchito e malmostoso, non si va da nessuna parte (né ad Olimpia, né – più decisivamente – nell’ Europa che sarà).
Passerà? Certo che passerà, in qualche modo passerà: e poi le palingenesi sono sempre possibili. Magari – come dice Joseph Nye Jr. per gli USA (Fine del secolo Americano? Il mulino, 2016) sarà proprio l’immigrazione a rigenerarci. Ma prima di avventurarsi in one of the most costly and financially most risky type of megaproject that exists meglio vederne i sintomi, di questa palingenesi; che ora personalmente non vedo nemmeno in lontananza.
Roma 24 settembre 2016


giovedì 22 settembre 2016

Stupi-diario zoologico

Un insolito tragitto
(di Felice Celato)
Confesso che non ero più abituato a intense giornate di lavoro (12 ore ciascuna, per di più in inglese) come quelle che ho vissuto in questa prima parte della settimana; perciò che stamane mi sia svegliato stanco non mi sorprende più di tanto. Né mi sorprende – l’ho accennato altre volte – il…torcimento di budella che ogni giorno, e quindi anche stamane, mi suscitano le rassegne stampa mattutine: oggi la colazione era a base di Olimpiadi, fertility day e referendum, tutti temi sui quali le argomentazioni dei nostri politici ciarlieri sono capaci di mettere a repentaglio le mie convinzioni più radicate, per indurmi a pensare che sia meglio fare il contrario di quello che dicono, anche quando – al riparo dalle loro argomentazioni – sarebbe bene, per pura  causalità, fare come dicono.
Insomma, mi sono svegliato proprio male.
Per auto-consolarmi mi sono regalato una lunga passeggiata attraverso Villa Borghese per andare in ufficio; non avrei mai supposto che, alla venerabile età di quasi 68 anni, mi venisse voglia di passare dallo zoo (l’ultima volta che ci ero entrato è coi miei figli ancora piccoli, dunque quasi una quarantina di anni fa). E siccome alla mia età qualcosa bisogna pur concedersi, sono entrato, senza palloncino però (anche perché ora è vietato), pagando – 13 euro –  il biglietto da anziano; la cassiera si è incuriosita del fatto che il primo cliente della mattina  entrasse in giacca e con la borsa da lavoro; le ho spiegato che volevo vedere gli animali dal vero dopo averne sentiti tanti vociare alla radio, e ha riso soddisfatta).
Bene. Dopo tanti e nobili precedenti letterari, non mi cimenterò in esercizi di zoomorfismo della politica italiana….però – non so perché – alcuni animali mi sono rimasti impressi: anzitutto una specie di grosso tacchino, libero di circolare nei viali con un’aria un po’ pomposa, e  dallo sguardo inconfondibilmente gallinaceo ma dal portamento fiero ed arrogante e dal goglottìo (così si chiama il verso del tacchino) altisonante e ininterrotto; due grossi pappagalli che...facevano opposizione da un ramo della voliera, farfugliando ad altissima voce nel loro linguaggio comprensibile (forse) solo a loro stessi; dei lemuri  freneticamente operosi per non fare nulla, del resto come le scimmiette; dei licaoni un po’ fetenti (ho letto che è una loro caratteristica!) dallo sguardo inutilmente fiero (in fondo stanno allo zoo come le più miti gazzelle!); una foca sfiatata che si agitava come se ci fossero mille telecamere a riprenderla; un grosso kulan, un asino asiatico, biondo ed elegante, direi conscio della propria fotogenicità.
Il mio percorso si faceva sempre più ricco di immagini e di (inevitabili) sovrapposizioni analogiche; stavo per entrare nel rettilario quando una telefonata mi ha ricondotto alla realtà, mentre stavo difronte ad un guanaco, una specie di lama, che ruminava pigramente guardandomi incuriosito: così ho dovuto aprire il tablet per spostare un appuntamento, col telefono fra spalla e guancia. Non ci crederete: mi è sembrato che il guanaco mi sorridesse. E accompagnato dal suo sguardo ironico, ho ripreso la strada dell’ufficio.

Roma 22 settembre 2016