giovedì 15 settembre 2016

Referendum e dintorni

Verità, post-verità e ipocrisie
(di Felice Celato)
Devo dire che - al di  là delle equilibrate reazioni formali e forse rituali del nostro Presidente della Repubblica - mi sorprende enormemente il falso clamore mediatico che si tenta di suscitare attorno alle giuste ed esplicite dichiarazioni dell'ambasciatore americano a Roma sul nostro referendum, come pure attorno alle annunciate valutazioni negative di società di rating e di grandi banche d'affari, tuttora opinion leaders dei mercati finanziari (dai quali l'Italia certamente dipende, dato il volume del suo debito).
Come al solito, mi pare, sfugge, alle tante, nostrane vestali dell’indipendenza democratica, proprio l'ermeneutica del mondo moderno (e la cosa non mi sorprende data la dimensione valligiana dei molti loro orizzonti).
Partiamo dalla sostanza: l'Italia è (ancora e ancora per poco) una delle più forti economie del mondo (diciamo una delle prime 10); ciò non ostante, l'Italia è nota dovunque per il suo accelerato declino economico,  per la pesantezza  della sua situazione finanziaria  e per la stanchezza della sua società; per la sua posizione nell'Euro, l'Italia può essere la pietra focaia di una crisi finanziaria dagli effetti devastanti; l'Italia costituisce per la sua posizione geografica un punto nodale dell'attuale crisi del Mediterraneo.
Andiamo ora all'incrocio, per sua natura ambiguo, fra verità e post-verità: a torto o a ragione, si è fatto percepire agli Italiani ed al mondo (che in fondo legge anche i nostri giornali) che i nostri problemi dipendano dal nostro sistema politico, dalle modalità attraverso le quali si articola in attività di governo e legislative, piuttosto che dalla nostra stanchezza ed arretratezza culturale (che persino rifiutiamo di considerare). In questo quadro, a torto o a ragione, si è fatto credere a tutto il mondo che l'Italia abbia "svoltato" verso la contemporanea soluzione di tutti i suoi problemi e che questa soluzione dipenda non da attivati rivolgimenti profondi della società e della sua cultura ma da mutamenti di forma  della sua espressione politica; e questi mutamenti (collettivamente indicati come "riforme", a prescindere dalla loro pertinenza coi problemi veri e più urgenti) sono tutti insieme simbolizzati da una riforma costituzionale lungamente delibata e quindi approvata e ri-approvata dal Parlamento ed ora sottoposta a referendum popolare; una riforma che in sé vuole coagulare l'essenza tutta di questo "presunto" movimento riformatore/ trasformatore/ palingenetico. Per di più, si è fatto percepire (ancorché talora ipocritamente e, secondo me, inutilmente negandolo), che un eventuale esito negativo porrebbe fine al movimento riformatore/ trasformatore/ palingenetico incarnato dall'attuale giovane e vigoroso governo; e consegnerebbe, di nuovo l'Italia, nelle mani di chi, presuntamente, l'ha rovinata o di chi, rozzamente, si candida a sostituirla sulla base di una proclamata purezza antropologica (spiego gli avverbi: presuntamente perché, in verità, l'Italia l'hanno rovinata gli Italiani prima ancora dei loro politici; rozzamente perché rozzi ne sono gli argomenti ed i toni).
Bene: in questo concerto di verità e di post-verità, ci si meraviglia che qualcuno si preoccupi, anche su scala internazionale? E che lo dica, magari irritualmente? Noi non abbiamo discettato per mesi attorno a Brexit e non Brexit, non ne hanno parlato le nostre autorità o quelle europee e addirittura il presidente degli USA? Ne hanno forse tenuto conto gli elettori inglesi? Non abbiamo per mesi suggerito alla Grecia questa o quell'altra soluzione ai loro problemi (nell'assunto - stavolta fondato - di conoscerli in quanto simili ai nostri)? Non ci sgoliamo, quotidianamente e a tutti i livelli, ad ammonire la Turchia sulla sua politica dell'ordine pubblico e della giustizia? Non ci siamo tutti trovati (devo dire: giustamente) a tifare contro Trump? Persino il Papa lo ha scomunicato (nel senso che lo ha dichiarato estraneo alla comunità dei cristiani, non solo da quella dei cattolici)! Forse, se alziamo la voce strappandoci, sdegnati, le vesti di saggi cittadini che non ne vogliono nemmeno sapere del parere degli altri, le agenzie di rating e i mercati finanziari cambieranno le loro valutazioni?
Ma dove viviamo? O, meglio, dove crediamo di vivere?

Roma 15 settembre 2016

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