Verità,
post-verità e ipocrisie
(di Felice Celato)
Devo dire che - al di
là delle equilibrate reazioni formali e forse rituali del nostro
Presidente della Repubblica - mi sorprende enormemente il falso clamore
mediatico che si tenta di suscitare attorno alle giuste ed esplicite
dichiarazioni dell'ambasciatore americano a Roma sul nostro referendum, come pure attorno alle
annunciate valutazioni negative di società di rating e di grandi banche d'affari, tuttora opinion leaders dei mercati finanziari (dai quali l'Italia
certamente dipende, dato il volume del suo debito).
Come al solito, mi pare, sfugge, alle tante, nostrane
vestali dell’indipendenza democratica, proprio l'ermeneutica del mondo moderno
(e la cosa non mi sorprende data la dimensione valligiana dei molti loro
orizzonti).
Partiamo dalla sostanza: l'Italia è (ancora e ancora per
poco) una delle più forti economie del mondo (diciamo una delle prime 10); ciò
non ostante, l'Italia è nota dovunque per il suo accelerato declino
economico, per la pesantezza della sua situazione finanziaria e per la stanchezza della sua società; per la
sua posizione nell'Euro, l'Italia può essere la pietra focaia di una crisi
finanziaria dagli effetti devastanti; l'Italia costituisce per la sua posizione
geografica un punto nodale dell'attuale crisi del Mediterraneo.
Andiamo ora all'incrocio, per sua natura ambiguo, fra
verità e post-verità: a torto o a
ragione, si è fatto percepire agli Italiani ed al mondo (che in fondo legge
anche i nostri giornali) che i nostri problemi dipendano dal nostro sistema
politico, dalle modalità attraverso le quali si articola in attività di governo
e legislative, piuttosto che dalla nostra stanchezza ed arretratezza culturale
(che persino rifiutiamo di considerare). In questo quadro, a torto o a ragione,
si è fatto credere a tutto il mondo che l'Italia abbia "svoltato"
verso la contemporanea soluzione di tutti i suoi problemi e che questa soluzione
dipenda non da attivati rivolgimenti profondi della società e della sua cultura
ma da mutamenti di forma della sua
espressione politica; e questi mutamenti (collettivamente indicati come
"riforme", a prescindere dalla loro pertinenza coi problemi veri e
più urgenti) sono tutti insieme simbolizzati da una riforma costituzionale
lungamente delibata e quindi approvata e ri-approvata dal Parlamento ed ora
sottoposta a referendum popolare; una
riforma che in sé vuole coagulare l'essenza tutta di questo
"presunto" movimento riformatore/ trasformatore/ palingenetico. Per
di più, si è fatto percepire (ancorché talora ipocritamente e, secondo me,
inutilmente negandolo), che un eventuale esito negativo porrebbe fine al
movimento riformatore/ trasformatore/ palingenetico incarnato dall'attuale
giovane e vigoroso governo; e consegnerebbe, di nuovo l'Italia, nelle mani di
chi, presuntamente, l'ha rovinata o
di chi, rozzamente, si candida a sostituirla
sulla base di una proclamata purezza antropologica (spiego gli avverbi: presuntamente perché, in verità,
l'Italia l'hanno rovinata gli Italiani prima ancora dei loro politici; rozzamente perché rozzi ne sono gli
argomenti ed i toni).
Bene: in questo concerto di verità e di post-verità, ci si meraviglia che
qualcuno si preoccupi, anche su scala internazionale? E che lo dica, magari
irritualmente? Noi non abbiamo discettato per mesi attorno a Brexit e non
Brexit, non ne hanno parlato le nostre autorità o quelle europee e addirittura
il presidente degli USA? Ne hanno forse tenuto conto gli elettori inglesi? Non
abbiamo per mesi suggerito alla Grecia questa o quell'altra soluzione ai loro
problemi (nell'assunto - stavolta fondato - di conoscerli in quanto simili ai
nostri)? Non ci sgoliamo, quotidianamente e a tutti i livelli, ad ammonire la
Turchia sulla sua politica dell'ordine pubblico e della giustizia? Non ci siamo
tutti trovati (devo dire: giustamente) a tifare contro Trump? Persino il Papa
lo ha scomunicato (nel senso che lo ha dichiarato estraneo alla comunità dei
cristiani, non solo da quella dei cattolici)! Forse, se alziamo la voce strappandoci,
sdegnati, le vesti di saggi cittadini che non ne vogliono nemmeno sapere del
parere degli altri, le agenzie di rating e
i mercati finanziari cambieranno le loro valutazioni?
Ma dove viviamo? O, meglio, dove crediamo di vivere?
Roma
15 settembre 2016
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