sabato 24 settembre 2016

Olimpica eccentricità di un no

Sciapi e malcontenti
(di Felice Celato)
Vivendo a Roma, in questi giorni non è possibile astenersi dal dire qualcosa sulla decisione del Comune (o meglio: della Sindaca Raggi e del suo entourage) di non volere la candidatura di Roma per le Olimpiadi 2024.
A mio parere la Sindaca ha preso – del resto in coerenza con quello che lei stessa e il suo partito avevano promesso o lasciato capire durante la campagna elettorale, indubbiamente coronata da larghissimo successo –  la decisione giusta, nelle forme e con le motivazioni sbagliate.
Per non guastarsi troppo l’umore non è utile ripercorrere questi errori di forma e di motivazione: basterà dire che nessun “investimento” (ammesso che le Olimpiadi lo siano, vedi oltre) può essere cancellato perché “sennò c’è la corruzione” o perché “dietro ci sono degli interessi di qualcuno”: la corruzione c’è sempre stata, da noi e in tutto il mondo, e gli interessi sono (per fortuna!) la molla di ogni economia (se non ci fossero bisognerebbe inventarli); eppure di “investimenti” nel mondo se ne fanno in continuazione (ormai  in Italia pochi per la verità ma anche da noi se n’è fatti, fra giusti interessi e pessima corruzione).
Mi pare più sensato allineare quelle che – ad avviso di chi scrive – sarebbero state le motivazioni giuste: le classificherei in due categorie, quelle economiche e quelle sociologiche.
Cominciamo dalle prime: pur avendo letto diverse cose  in materia non ho trovato uno studio indipendente che dimostri la convenienza di rendersi organizzatori di Olimpiadi. L’ultimo di questi studi (The Oxford Olympic Study 2016. Cost and cost overrun at the games di Flyvbjerg, Stewart e Budzier, Oxford University, 2016) dopo un’ampia rassegna di dati, conclude: Given the above results, for a city and nation to decide to stage the Olympic Games is to decide to take on one of the most costly and financially most risky type of megaproject that exists, something that many cities and nations have learned to their peril.
Si dirà: ma Torino 2006? E Milano Expo 2015? A parte che quest’ultimo non era un’Olimpiade, basterà osservare che – mirabolanti aspettative a parte  e ambiziosi riutilizzi delle aree tuttora pendenti – nel 2015 (anno dell’Expo) il turismo in Italia è cresciuto largamente al disotto delle medie internazionali non ostante la presunta attrattiva internazionale dell’Expo (ovviamente conteggiata fra i benefici attesi). E che in Piemonte (di cui Torino, se non sbaglio, è la capitale) il PIL ante crisi (periodo 2001-2007, quindi Olimpiade invernale 2006 compresa) cresceva meno (circa il 70%) della media nazionale e dopo la crisi (periodo 2008-2013) è calato di più (circa il -40%) della media nazionale (Olimpiadi sì o no? di Massiani e Ramella in LaVoce.info del 23 settembre 2016, che – va anche detto – riconoscono al progetto Roma 2024 anche alcune attenzioni, che mostrerebbero di aver considerato almeno alcuni gravi problemi di precedenti esperienze internazionali).
Ma veniamo alle motivazioni “sociologiche” che sono assai più amare: a mio giudizio l’Italia è diventata un paese talmente diviso, talmente ostile verso chi realizza, talmente scettico, talmente rissoso e causidico che immaginare la gestione unitaria di un progetto nazionale a lunga scadenza (in fondo da qui al 2024 ci corrono otto anni!) e per di più sottoposto  a grandi rischi di insuccesso (da quelli propri dell’evento e della sua organizzazione, a quelli – imponderabili – di natura geo-politica, sempre rilevanti nel mondo d’oggi)  è oltremodo audace; almeno ora, fintanto che dura questo mood nazionale, farsi carico di un progetto-Paese così complesso come l’organizzazione di un’Olimpiade sarebbe anzi – secondo me –  un azzardo grave.
Qualcuno potrà obbiettare ritorcendo, su chi è convinto di quanto precede, l’accusa di paralizzante scetticismo, e potrebbe anche avere ragione. Il fatto è che io sono convinto che con questa nostra società sciapa e malcontenta (Censis, 2013), indistinta e sfuggente (Censis, 2014), persino propensa a non voler crescere (Censis 2015), con questa mediocre classe dirigente (di governo e di opposizione), con questo animo infiacchito e malmostoso, non si va da nessuna parte (né ad Olimpia, né – più decisivamente – nell’ Europa che sarà).
Passerà? Certo che passerà, in qualche modo passerà: e poi le palingenesi sono sempre possibili. Magari – come dice Joseph Nye Jr. per gli USA (Fine del secolo Americano? Il mulino, 2016) sarà proprio l’immigrazione a rigenerarci. Ma prima di avventurarsi in one of the most costly and financially most risky type of megaproject that exists meglio vederne i sintomi, di questa palingenesi; che ora personalmente non vedo nemmeno in lontananza.
Roma 24 settembre 2016


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