Sciapi e malcontenti
(di Felice Celato)
Vivendo
a Roma, in questi giorni non è possibile astenersi dal dire qualcosa sulla
decisione del Comune (o meglio: della Sindaca Raggi e del suo entourage) di non volere la candidatura
di Roma per le Olimpiadi 2024.
A
mio parere la Sindaca ha preso – del resto in coerenza con quello che lei stessa e il
suo partito avevano promesso o lasciato capire durante la campagna elettorale,
indubbiamente coronata da larghissimo successo – la decisione giusta, nelle forme e con le
motivazioni sbagliate.
Per
non guastarsi troppo l’umore non è utile ripercorrere questi errori di forma e
di motivazione: basterà dire che nessun “investimento” (ammesso che le
Olimpiadi lo siano, vedi oltre) può essere cancellato perché “sennò c’è la
corruzione” o perché “dietro ci sono degli interessi di qualcuno”: la
corruzione c’è sempre stata, da noi e in tutto il mondo, e gli interessi sono (per
fortuna!) la molla di ogni economia (se non ci fossero bisognerebbe inventarli);
eppure di “investimenti” nel mondo se ne fanno in continuazione (ormai in Italia pochi per la verità ma anche da noi
se n’è fatti, fra giusti interessi e pessima corruzione).
Mi
pare più sensato allineare quelle che – ad avviso di chi scrive – sarebbero
state le motivazioni giuste: le classificherei in due categorie, quelle
economiche e quelle sociologiche.
Cominciamo
dalle prime: pur avendo letto diverse cose in materia non ho trovato uno studio
indipendente che dimostri la convenienza di rendersi organizzatori di Olimpiadi.
L’ultimo di questi studi (The Oxford Olympic Study 2016. Cost and cost
overrun at the games di Flyvbjerg, Stewart e Budzier, Oxford University,
2016) dopo un’ampia rassegna di dati, conclude: Given the above results, for a city and nation to decide to stage the
Olympic Games is to decide to take on one of the most costly and financially most risky
type of megaproject that exists, something that
many cities and nations have learned to their peril.
Si dirà: ma Torino 2006? E
Milano Expo 2015? A parte che quest’ultimo non era un’Olimpiade, basterà
osservare che – mirabolanti aspettative a parte
e ambiziosi riutilizzi delle aree tuttora pendenti – nel 2015 (anno
dell’Expo) il turismo in Italia è cresciuto largamente al disotto delle medie
internazionali non ostante la presunta attrattiva internazionale dell’Expo
(ovviamente conteggiata fra i benefici attesi). E che in Piemonte (di cui
Torino, se non sbaglio, è la capitale) il PIL ante crisi (periodo 2001-2007,
quindi Olimpiade invernale 2006 compresa) cresceva meno (circa il 70%) della
media nazionale e dopo la crisi (periodo 2008-2013) è calato di più (circa il
-40%) della media nazionale (Olimpiadi sì
o no? di Massiani e Ramella in LaVoce.info
del 23 settembre 2016, che – va anche detto – riconoscono al progetto Roma 2024 anche alcune attenzioni, che
mostrerebbero di aver considerato almeno alcuni gravi problemi di precedenti
esperienze internazionali).
Ma veniamo alle motivazioni
“sociologiche” che sono assai più amare: a mio giudizio l’Italia è diventata un
paese talmente diviso, talmente ostile verso chi realizza, talmente scettico,
talmente rissoso e causidico che immaginare la gestione unitaria di un progetto
nazionale a lunga scadenza (in fondo da qui al 2024 ci corrono otto anni!) e
per di più sottoposto a grandi rischi di
insuccesso (da quelli propri dell’evento e della sua organizzazione, a quelli –
imponderabili – di natura geo-politica, sempre rilevanti nel mondo d’oggi) è oltremodo audace; almeno ora, fintanto che
dura questo mood nazionale, farsi
carico di un progetto-Paese così complesso come l’organizzazione di
un’Olimpiade sarebbe anzi – secondo me – un azzardo grave.
Qualcuno potrà obbiettare
ritorcendo, su chi è convinto di quanto precede, l’accusa di paralizzante
scetticismo, e potrebbe anche avere ragione. Il fatto è che io sono convinto
che con questa nostra società sciapa e
malcontenta (Censis, 2013), indistinta
e sfuggente (Censis, 2014), persino propensa
a non voler crescere (Censis 2015), con questa mediocre classe dirigente
(di governo e di opposizione), con questo animo infiacchito e malmostoso, non si
va da nessuna parte (né ad Olimpia, né – più decisivamente – nell’ Europa che
sarà).
Passerà? Certo che passerà, in
qualche modo passerà: e poi le palingenesi sono sempre possibili. Magari – come dice
Joseph Nye Jr. per gli USA (Fine del
secolo Americano? Il mulino, 2016) sarà proprio l’immigrazione a
rigenerarci. Ma prima di avventurarsi in one of the most costly and financially most risky type
of megaproject that exists meglio vederne i sintomi, di questa palingenesi; che ora
personalmente non vedo nemmeno in lontananza.
Roma 24 settembre 2016
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