venerdì 31 agosto 2018

Defendit numerus / 23

Global Innovation Index
(di Felice Celato)
In questi tempi di furori labiali e di torpori mentali, vale la pena forse di… distrarci con la nostra rubrichetta più noiosa che, attraverso qualche numero, ci vorrebbe difendere dalle errate percezioni e dalle ingenue autopercezioni cui, come sappiamo, indulgiamo spesso e volentieri.
Stavolta è il turno di un indice piuttosto complesso (il Global Innovation Index, GII) che, da una decina d’anni, viene annualmente elaborato da INSEAD e da WIPO (l’agenzia ONU per la World Intellectual Property), in collaborazione con  altre prestigiose organizzazioni scientifiche ed istituzionali internazionali. [Nell’ Advisory Board ho visto che c’è anche la Direttrice Generale del CERN, l’Italiana Fabiola Gianotti.]
Si tratta di un indice sintetico pensato per “misurare” la capacità dei principali paesi in cui è articolato il nostro mondo (126 paesi nell’edizione 2018, che coprono il 91% degli umani e il 96% del GDP mondiale) di generare ed utilizzare l’innovazione necessaria per sostenere il complessivo sviluppo umano del nostro tempo; innovazione, quindi, non solo tecnologica (in buona parte collegata con l’accresciuto consumo di energia della comunità umana) ma anche culturale, istituzionale e organizzativa.
Come è facile immaginare, si tratta di un indice estremante complesso, articolato in oltre 100 diverse “metriche” raggruppate in 7 “ottiche”: le istituzioni, il capitale umano, le dotazioni infrastrutturali, il grado di evoluzione dei mercati, l’articolazione produttiva, le conoscenze e le tecnologie, la creatività.
Nel ranking complessivo sintetico, l’Italia occupa 31° posto (l’anno scorso il 29°), per intenderci dopo Svizzera, Olanda, Svezia, UK, USA, Finlandia, Danimarca, Germania, Irlanda, Israele, Giappone, Francia, Cina, Canada, Spagna etc, ma anche dopo Estonia, Belgio, Malta,  Rep Ceca, Cipro e Slovenia; e, in 5 delle  7 “ottiche” sopra elencate, occupa posti più o meno coerenti con quel posizionamento complessivo; un po' meglio, invece, per dotazioni infrastrutturali (18° posto) e un po' peggio per evoluzione dei mercati (44°posto). Nelle singole “metriche” spiccano per negatività del nostro posizionamento l’ambiente politico (46° posto), la legalità ovvero la rule of law (53°), la facilità di avviare un’attività (56°), la spesa per educazione (76°), la formazione di capitale (108°), la capacità di accesso al credito (88°), gli investimenti (99°), gli investimenti diretti esteri (111°), l’innovazione organizzativa nell’ITC (73°). Poche le eccellenze di rilievo, soprattutto nella sostenibilità ecologica, nelle certificazioni ISO, nel costo della riduzione di personale, nel disegno industriale.
Questo è il quadro super-sintetico; chi vuole può scaricarsi il voluminoso dossier dal sito    https://www.globalinnovationindex.org. Magari, se è meglio disposto di me, ci trova qualche altro motivo di conforto che a me è sfuggito.
Roma 30 agosto 2018


martedì 28 agosto 2018

Sociologia evangelica

Una rilettura laterale
(dI Felice Celato)
Coloro che si sono regolarmente recati a messa nelle ultime settimane hanno ascoltato, in varie pericopi, la lettura sequenziale del capitolo VI del Vangelo secondo Giovanni; una lettura bellissima, naturalmente, e – anche al di là della sua intensa tessitura teologica, densa di riferimenti Vetero-Testamentari – veramente ricca di stimoli.
Non saprei dire il perché (diciamo meglio: non vorrei dire il perché) ma mi ha molto impressionato una (in qualche modo laterale) chiave di lettura, focalizzata sulla mutevole densità della folla che, prima, plaude compatta ai segni e, poi, progressivamente, prende le distanze dai contenuti di quanto annunciato; una sorta di lezione di sociologia evangelica, appunto.
Riassumo per i laici (o per i cosiddetti cattolici non praticanti): passato all’altra riva del mare di Galilea (venendo, probabilmente, da Gerusalemme), Gesù è circondato di folla “perché vedevano i segni [le guarigioni] che faceva sugli infermi”; e per un po' – considerate le condizioni ambientali in cui si svolgeva il Suo incontro con essa – continua a intramezzare la Sua predicazione con segni, cioè con manifestazioni fisiche della potenza di Dio (la moltiplicazione dei pani e dei pesci, il cammino sulle acque). La folla era ovviamente stupita, quasi incantata  da questo Rabbi (Maestro) che valeva proprio la pena di seguire (Questo è davvero il Profeta, colui che viene nel mondo, Gv, 6,14). Ma pian piano, quando i segni (i significanti, non a caso) si spengono e la predicazione di Gesù si concentra sui significati (Io sono il pane disceso dal cielo), la folla scompare, Gesù resta solo coi suoi discepoli e poi, ancora più solo, coi Dodici a Lui più vicini; e, in una delle espressioni più intense della Sua umanità, rivolge ad essi la fatale domanda: Volete andarvene anche voi? (Gv, 6, 67) 
[In questi giorni mi pare di sentirla rivolta a ciascuno di noi, questa domanda, da un Volto triste che ci guarda deluso; ma lasciamo perdere, questi clericali sentimenti assai difficili da comunicare]
Fin qui il capitolo VI di Giovanni. Eccoci dunque al crogiuolo (di cui abbiamo qui parlato più volte; a proposito di ben altro, naturalmente, e con diverse parole) in cui palpitano significanti e significati; al punto, cioè, dove i due concetti della semiotica moderna si fondono in un’unica moneta come ne costituissero le due facce, o (come sempre più spesso mi pare accadere ai dì nostri) drammaticamente si separano: la folla evangelica segue i segni più clamorosi, affascinata dalla manifestazione di potenza che contengono; si separa però dal più difficile significato (Questa parola è dura, chi può ascoltarla? Gv, 6,60).
Questo, come dicevo, la folla evangelica. Non solo essa però. Credo di aver più volte citato, qui, lo stupore che mi suscita, ogni volta che la rivedo in qualche filmato d’epoca, la scena di piazza Venezia gremita di folla il 10 giugno 1940: i segni della pretesa potenza – la folla oceanica, le parole vigorose, la virile risolutezza, l’ostentata lungimiranza – si fondono col tragico significato dell’annuncio (la guerra). Qui la fusione riesce, il crogiuolo funziona, la folla sembra contenta di andare a morire. La fusione riesce, per un po'. Mussolini non è Gesù, ovviamente e checché per un po' ne abbiano pensato i suoi; non ha interesse alcuno a spegnere il lampo accecante del segno per abituare l’occhio a vedere il significato. Ci penseranno il tempo e la storia. Così il popolo Italiano, come sappiamo, prese parte alla Seconda Guerra Mondiale, alla quale, del resto, aveva plaudito entusiasta.
Dicevo poc’anzi che questa chiave di rilettura del capitolo VI di Giovanni mi suona come una lezione di sociologia evangelica; che, ovviamente, trascende anche la drammatica memoria di un passato nemmeno tanto remoto. Resta – almeno così a me pare – il senso perenne di quella lezione: i significanti, i segni (quelli di sempre, non dico quelli mirabili ricevuti attorno al mare di Galilea; anche quelli, cioè, solo fatti di parole o di forme usati, per esempio, dalla politica, qualsiasi essi siano, dal consenso oceanico alla vigoria degli enunciati, dalla evidenza del percepito alla cogenza del preteso sentimento comune, dalla accattivante semplificazione del complesso ai coraggiosi guanti di sfida lanciati al buon senso) i significanti, dicevo, sono più facili da commerciare, fanno presa più rapida dei significati; i quali ultimi, poi, alla fine, richiedono di essere compresi, digeriti, direi, non solo ascoltati e fatti propri come tali; riconducono alla realtà e, spesso, esigono scelte radicali, magari ineludibili; perché spesso (ahinoi!), col linguaggio della logica, A è diverso da B, il bianco non è nero. E ai significati, spesso, occorre rispondere sì, sì, no, no (per dirla ancora  linguaggio evangelico). 
Roma 28 agosto 2018


sabato 25 agosto 2018

Previsioni del tempo

Fine dell’estate?
(di Felice Celato)
Abbiamo bisogno della pioggia che è attesa per questo ultimo scampolo d’agosto, dell’acqua che laverà le strade e disperderà le polveri vaganti, dei tuoni che sovrasteranno ogni rumore, dei lampi che squarceranno le fitte nubi che ci nascondono il cielo, del vento che porterà via l’aria stagnante della nostra accaldata convivenza.
Il terribile agosto del 2018 resterà a lungo nella memoria di tutti, per le tragedie che hanno colpito i flussi della nostra umanità in movimento e per i lutti, ma anche per le rabbie, per le contese aspre sul nostro coabitare nel mondo, per le parole difficili da rincorrere, come fossero trascinate da un fiume impetuoso.
Più del solito, in questo periodo di pausa ho avuto modo di seguire le cronache angosciose (di Genova, del Pollino, di Catania)  e le espressioni che le hanno tradotte in opinioni e sentimenti; e non ha fatto bene al senso della mia appartenenza a questa comunità in cui pure sono nato e vissuto e della quale condivido la antica cultura e la lingua; anzi mi è restato lo sgomento di sentirci e vederci così discordi e dissonanti: sembriamo diventati incapaci di parlarci senza rancori, senza rivolgerci l’un l’altro i sensi di una profonda avversione, senza comunicarci altro che disprezzo e disprezzo di quanto ci fa uomini e cittadini dell’Europa.
Ancora una volta le parole mi sono parse come i vènti contrari alla navigazione sfuggiti da un otre imprudentemente dischiuso; ma, le parole, non essendo vènti, non si limitano, come quelli Omerici, a scatenare una subitanea orribile procella; esse si depositano nei nostri animi, vi fermentano e vi ribollono, danno vita a concetti e i concetti – l’abbiamo più volte citata questa sequenza pensata per spiegare qualcosa dell’odio antisemita – danno vita ai sentimenti e, questi, ai fatti.
Ecco, le parole resteranno, anche senza meritarlo; da esse trarremo i concetti che ci servono per giudicare e i sentimenti che ci servono per formarci l’idea del futuro che desideriamo. Speriamo di fermarci prima che si materializzino i fatti che ne seguirebbero inesorabili.
Allora, ben venga questo breve anticipo di autunno che ci hanno annunciato i meteorologi, ben venga un forte temporale che ponga fine ai calori più accesi del tempo. Abbiamo bisogno di un autunno che rinfreschi le menti e medichi le scottature dei raggi solari, per evitare che la stagione e il temporale divengano la metafora di qualcos’altro.
Roma, 25 agosto 2018 (san Luigi IX, sovrano illuminato e cristiano fervente)





domenica 19 agosto 2018

Sidestream

Parole
(di Felice Celato)
Seppelliti i morti, non è certo seppellito il dolore di chi ha perso congiunti nella terribile e incomprensibile tragedia Genovese. Esso è destinato, naturalmente, a sopravvivere a lungo nei recessi di animi che resteranno per sempre segnati dalle lacerazioni di perdite “innaturali”, come lo sono, sempre, tutte quelle che ci strappano d’improvviso affetti naturalmente destinati a sopravviverci (penso sempre ai genitori che, nel tempo del morire, si vedono sorpassati dai figli) o ad accompagnarci nel cammino della vita (penso a figli, mogli o mariti che vedono scomparire d’improvviso il sostegno affettivo e magari anche materiale delle loro vite). Requiescant in pace coloro che se ne sono andati e pace trovino, con l’aiuto di Dio, coloro che restano nel dolore.
Si disseppelliscono invece, sempre con rabbia, anche i remoti riflessi del nostro modo di guardare al mondo; e, con essi, i borborigmi di polemiche violente, fuori tempo, fuori luogo, spesso fuori senso. Non è assolutamente il caso di entrare, qui, in alcuna di esse, quand’anche si disponesse di qualche conoscenza specifica nelle materie che accendono i furori.
Allora, assolutamente fuori mainstream (e per questo ci siamo titolati sidestream), mi pare utile fornire ai miei (per fortuna) pochi lettori uno strumento di comprensione che ai più – e specie ai più rumorosi – sembra mancare: vediamo in parole semplici (e quindi con tutte le approssimazioni che spesso la semplificazione richiede) che cos’è un concessionario dello Stato, in particolare un concessionario di opera pubblica.
Per non allontanarci troppo dalle nozioni facilmente attingibili su un comune dizionario (stavolta, eccezionalmente, usiamo la Enciclopedia Treccani) vediamo come viene delineata, fra le altre, la nozione (concessione amministrativa) che qui interessa: La concessione è l’atto amministrativo con cui la pubblica amministrazione consente al concessionario l’uso di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili da parte dei privati e riservate ai pubblici poteri. Si distinguono, come tipi principali: la concessione di bene pubblico; la concessione di servizio pubblico; la concessione di opera pubblica[…..] La concessione di opera pubblica attribuisce il diritto di costruire e di gestire opere quali strade o autostrade. In taluni casi si ha una concessione mista, come nel caso della concessione aeroportuale, che consente l’uso di un bene demaniale (il cosiddetto sedime aeroportuale), la costruzione dell’aeroporto e la gestione dei servizi e delle altre attività aeroportuali.
La sua funzione economico-finanziaria può meglio essere compresa riflettendo sul termine internazionale, che la descrive con l’acronimo B.O.T. (Build, Own and Transfer, cioè Costruisci a tue spese, Possiedi, ovvero gestisci, e, poi,  quando il periodo della concessione finisce, Trasferisci gratuitamente al concedente l’opera che hai realizzato a tue spese). L’istituto della concessione ha conosciuto in Italia una particolare fortuna nei decenni passati attraverso diverse concessioni di servizio (per esempio per la realizzazione – alcuni decenni fa – di opere diffuse sul territorio come gli uffici postali o le caserme dei Carabinieri o i tribunali) e anche attraverso concessioni di opere pubbliche (B.O.T.) quali, per esempio attualissimo, le autostrade.
In sostanza lo strumento serviva non solo a disporre di risorse tecniche altamente specializzate e focalizzate sull’opera da realizzare (tipicamente un’infrastruttura) ma anche ad interporre, fra lo Stato ed essa opera, il veicolo della concessionaria la quale, sotto il continuo controllo dello stato-concedente, per fare il suo mestiere, si indebitava in luogo dello stato (quindi senza gravare sullo stock di debito pubblico), potendo disporre per un certo numero di anni – come fonte di rimborso – dei pedaggi che gravano sull’utente e non sul contribuente (come avviene, per esempio, per le strade comuni dove ciascuno ha “pagato” per ogni strada come contribuente pur, magari,  essendo utente di solo alcune di esse). Talora il prefissato numero di anni di gestione veniva, in corso di concessione, esteso a fronte della realizzazione di altre opere non previste nell’originario programma della concessione (ma, così, finanziate con lo stesso meccanismo). 
Il veicolo del concessionario (come si vede, ad un tempo, veicolo tecnico e finanziario) poteva essere una società ad hoc sotto il controllo azionario indiretto dello Stato (le famose autostrade dell’’IRI, controllate prima dall’IRI poi dalla finanziaria Italstat), ovvero una società totalmente privata, magari quotata in borsa, come avvenne per la società Autostrade quando lo Stato decise – a seguito del c.d. accordo Andreatta / van Miert del 1993 – di avviare un denso programma di privatizzazioni per ridurre lo stock di debito degli ex Enti di gestione (IRI, ENI, Efim). 
La speranza di questa breve nota è solo quella di offrire un piccolo strumento di comprensione in mezzo al grande rumore.
Orbetello 19 agosto 2018

NB: Ai lettori tenaci torno a segnalare un bel libro di qualche anno fa sulla storia dell’Autostrada del sole: La strada dritta, di Francesco Pinto, edito da Mondadori, segnalato qui il 2 settembre 2011 (7 anni fa, quando lo spread era a 330 b.p), nel contesto di un post intitolato Olimpiadi 2020.







mercoledì 15 agosto 2018

Turbate divagazioni

In quaranta e più anni di esperienze nei mondi delle infrastrutture e dei trasporti, non ricordo – 11 settembre del 2001 a parte – un evento così semplicemente tragico e, allo stesso tempo, così difficile da inquadrare come quello del crollo del viadotto sul Polcevera. E’ presto, troppo caldi sono il dolore e lo stupore per quanto è potuto accadere, per tentare (se del caso) di rifletterci sopra ordinatamente e, quindi, per aggiungere qualsiasi considerazione (diversa dalla partecipazione al lutto nazionale) alle troppe che affluiscono sui media, non sempre illuminate dalla ragione né  basate sulla piena conoscenza dei fatti e dei loro presupposti genetici.
Le divagazioni che seguono erano già pronte ieri, prima che giungesse la tragica notizia di Genova, così carica di lutti e foriera di enormi problemi, nuovi ed antichi; le “pubblico” oggi, ovviamente senza alcun riferimento, nemmeno lontano, agli eventi e ai commenti che li hanno (forse prematuramente) accompagnati.
Orbetello,15 agosto 2018, festa dell’Assunta. 

L’ipocognizione
(di Felice Celato)
Una curiosa coincidenza di letture, di riflessioni e di occasioni mi ha portato a divagare su un concetto che la moderna antropologia comprende sotto il nome di ipocognizione (Kaidi Wu e David Dunning: Unknown unknowns : the problem of hypocognition, in Scientific American, 9 agosto 2018), intesa come mancanza di adeguate rappresentazioni (cognitive o linguistiche) di un concetto o di un’esperienza emotiva, tale da “ingannare” la nostra vera consapevolezza di ciò che vorremmo dire. [L’apparente opposto concettuale di ipocognizione è l’ipercognizione, cioè l’applicazione di nozioni concettuali al di fuori della loro effettiva rilevanza; che, in fondo, produce, però, gli stessi effetti di disallineamento fra significati e significanti.]
Notava, per esempio, Benedetto XVI (cfr. Spe salvi, ma anche Introduzione al cristianesimo) come la nostra permeazione nel concetto di tempo ci possa deviare da un’adeguata intuizione  della vita eterna, magari inducendoci ad immaginare il definitivo abbraccio con la Divinità come un susseguirsi di giorni e di notti beati, quasi come se il tempo esistesse nell’Eterno, per di più con gli stessi ritmi del contingente. Del resto, proprio in questi giorni che precedono la festa dell’Assunta, in un modo che mi pare del tutto analogo, l’ipocognizione (o l’ipercognizione) ci porta ad esprimere la pienezza della predilezione divina attraverso un concetto (quello di  Assunzione in cielo della Madonna) per sua natura fisico-traslativo (anzi, i teologi si affannano a sottolineare la differenza… dinamica fra Ascensione e Assunzione).
Ma, anche allontanandoci in tutta fretta da temi così complessi e delicati – dove l’ipocognizione, per la verità, non è che una naturale conseguenza dei nostri umanissimi limiti di fronte all’Illimitato – l’ipocognizione di cui parlano Wu e Dunning mi pare diventata la condizione nella quale sentiamo esprimere la maggior parte delle correnti opinioni; tanto più, naturalmente, quanto più gli orizzonti culturali del comunicante sono limitati; e anche quanto più si fa complessa la realtà che dovremmo padroneggiare. Così, notano i due autori sopra citati, ci aggiriamo in terreni sconosciuti come novizi piuttosto che come esperti, compiaciuti di  ciò che sappiamo e dimentichi di ciò che non sappiamo.Del resto, riconoscere l’ipocognizione richiede il sapersi allontanare dalla rassicurante familiarità dei nostri orizzonti culturali per afferrare ciò che ci è sconosciuto o ci sfugge; e immaginate quanto sia difficile per chi si è fatto avvezzo ad esprimere, con vigore ed immediatezza, certezze su tutto e su tutti (è, in fondo, questo il senso di quell’opinionismo istantaneo di cui parlavamo qui giusto 7 anni fa con un post del 25 agosto 2011) o anche solo a recepirle come utile frutto dell’altrui baldanza valutativa. In fondo, temo, ci stiamo tutti abituando a convivere con una rumorosa ipocognizione del mondo complicato in cui viviamo, forse ingenuamente rassicurati dal constatare che almeno, fra noi, c’è qualcuno che nemmeno ne sospetta l’incidenza sulle proprie (sempre vigorose) opinioni. 
Ancora una volta – per non disperare – la coscienza del problema, cioè del limite ipocognitivo delle opinioni che ascoltiamo, può essere la via della salvezza. Una via di salvezza tanto più necessaria quanto più si approssima la decisiva fase delle nostre scelte nel contesto turbatissimo in cui viviamo. 

Orbetello 13 agosto 2018



domenica 12 agosto 2018

Parole

La gratitudine di un clericale
(di Felice Celato)
Una delle tante umane fortune che ho avuto in vita mia, è quella di avere – soprattutto in età matura – amici (pochi ma di grande qualità) coi quali vale la pena di discutere, di condividere passioni, di scambiarsi idee e anche di litigare, con consolidato affetto, attorno a qualche opinione non condivisa. I mezzi moderni, poi, consentono, anche quando si è fisicamente lontani, piacevoli continuazioni – persino tramite WhatsApp! – dei reciproci stimoli a pensare stando vicini. Aggiungete, a questo costante conforto della mia vecchiaia, anche il contingente piacere di una serata attorno ad una tavola sotto il cielo stellato, ed anche il gusto di qualche “bianco” fresco al punto giusto, e avrete un’idea di una delle piacevoli serate che, in questa feria d’agosto, danno un senso al caldo che occorre sopportare di giorno. E dunque, in questo clima ideale per i piaceri dell’amicizia, non mi sono dispiaciuto di sentire apostrofate alcune mie opinioni come “clericali”. Bisogna avere pazienza, mi sono detto; vanno tanto di moda i graffi di una comunicazione superficiale e corriva (dal Vocabolario Treccani: avventata, troppo facilmente disposta, condiscendente) che, talora, anche alle menti più raffinate (nella fattispecie: quelle dei miei amici) una “sbavatura” va consentita.
Ma a freddo, il giorno dopo, mi è capitato di tornare a riflettere sull’ apostrofazione, corrosiva nelle intenzioni ma – di fatto – da me sentita come corroborante: sì, io sono, in larga parte, un clericale! [NB: dal Vocabolario Treccani: clericale aggettivo e sostantivo maschile e femminile…. 1. Aggettivo: di chierico, del clero, ecclesiastico…. 2. Come sostantivo, appartenente allo schieramento dei laici cattolici che, dopo la proclamazione del regno d’Italia e dopo l’occupazione di Roma, affiancarono attivamente la Santa Sede nella politica di protesta contro lo stato italiano, politica che ebbe fine solo nel 1919 con l’autorizzazione data da Benedetto XV ai cattolici di entrare nel Partito Popolare Italiano….Più genericamente, il termine (usato soprattutto in tono polemico dagli avversari, mentre i fautori di questa politica adoperano cattolico o, addirittura, cristiano) indica i sostenitori di una partecipazione determinante del clero e del laicato cattolico alla vita politica e al governo dello stato, con un programma ispirato ai principî e alle esigenze dell’autorità ecclesiastica…..]
Magari un clericale liberale, non tanto propenso alla politica sotto una bandiera così esigente, ma io sono, e voglio restare, per tutto il resto un clericale! E come potrei non esserlo per la tanta gratitudine che devo alla Chiesa, custode della mia Speranza, maestra di Verità e di vita; e anche ai tanti preti, monache e vescovi che ho avuto la fortuna di incontrare ed ai quali devo la parte migliore della mia formazione; come ogni altro essere umano, peccatori anch’essi, s’intende, anch’essi talora appesantiti dal mondo, magari da qualche umanissima ambizione che, nella solitudine di una vita scelta per passione della Vera Compagnia, potrebbe suonare stonata, come del resto suonano stonate tante nostre umani passioni che pure convivono con il nostro stato di semplici fedeli.
Ma – con queste umane cautele sull’impasto di fango di cui tutti (laici o religiosi) siamo fatti – mi piace rivolgere a loro, preti, monache e vescovi, un pensiero di clericalissima gratitudine: essi fanno per noi fedeli laici più assai di quanto noi facciamo per loro, tanto pronti come siamo, a critiche spesso ingenerose modaiole e banali. E non solo per quanto ci insegnano con la parola illuminata dalla fede, ma anche per la loro vita programmaticamente dedicata agli altri, per la loro passione per la Parola e per la carità che ad essa consegue, per qualche preghiera che dedicano silenziosamente ai loro fedeli, per i Sacramenti che ci amministrano, per la loro continua fatica di penetrare l’indifferenza, per il conforto che ci recano quando ne abbiamo bisogno; per il loro aiuto nel cercare il volto del Signore quando a noi appare appannato.
E come si fa, se tutto ciò è vero, se solo si è cattolici o cristiani (come nota il Vocabolario Treccani), a non dirsi anche (un po’) clericali! Ringrazio perciò l’amico che, non ostante un calice di troppo, ha saputo acutamente vedere in me un’opinione clericale.
Roma, 12 agosto 2018





lunedì 6 agosto 2018

Una segnalazione "inquietante"

L’era della post-verità
(di Felice Celato)
Se uno dei miei amici mi dicesse che ha fatto una lettura inquietante, molto probabilmente gli risponderei con sarcasmi sull’uso del termine inquietante (credo, insieme a choc, il più amato dai nostri “bravi” giornalisti) o con ironie sulla sua attitudine ad ancora farsi turbare da qualcosa: e che cosa vuoi che ci turbi ancora, dopo quel che vediamo o leggiamo tutti i giorni, in questi tempi così incomprensibili? 
E tuttavia eccomi, invece, a segnalarvi, a mia volta, una lettura inquietante, senza tema di dovermi sorbire altrui sarcasmi o ironie. Perché, in effetti, ciò che proprio oggi ho terminato di leggere, mi ha veramente inquietato, in un duplice senso: prima di tutto perché mi ha aperto gli occhi su una materia (di cui dirò subito) che mi era nota solo grazie a titoli di articoli per lo più scorsi con perplesso quanto immotivato scetticismo; poi perché quanto Gabriele Cosentino racconta nel suo libro L’era della post-verità (Imprimatur Ed., 2017, disponibile in e-book) mi ha dato la sensazione concreta di una enorme ed incombente nuvola minacciosa della quale, se anche in qualche modo conosciamo le tempeste generate, fatichiamo ancora a stimare le possibili, ulteriori conseguenze.
Sgombriamo subito il campo da equivoci: il libro non è un saggio filosofico sulla post-verità, ancorché, ovviamente, in fondo, delle conseguenze sociologiche di tale post-verità si parli; tant’è che l’autore, per liberarsi subito di ogni impaccio definitorio, esplicitamente adotta la definizione di era della post-verità che forniscono gli Oxford dictionariesun concetto indicante circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti dell’appello alle emozioni e ai pareri personali nel formare l’opinione pubblica
In effetti il libro di cui parliamo ha un taglio tutt’altro che teorico: esso invece delinea, con grande efficacia, una sintesi di quanto emerso (riconosciamolo: con maggiore o minore evidenza) sull’influenza dei social media nella formazione (e deformazione) delle opinioni pubbliche e politiche nel nostro mondo, partendo dalle più significative (e per certi versi più mature) esperienze – quella statunitense e quella inglese a proposito della Brexit –  fino ai confini delle nostre attuali, con scorci (appunto: inquietanti) sulle possibili evoluzioni veramente contemporanee.
Al di là delle vicende raccontate dall’autore (fra tutte, veramente impressionante quella del cosiddetto Pizzagate, un falso scandalo tutto americano, a lungo creduto fondato ma al limite del credibile per una persona di normale buonsenso) il testo mette in evidenza soprattutto due elementi interessanti (e poco rassicuranti). Il primo: la chiara continuità dei fenomeni rispetto alle loro forme genetiche, nelle quali si è cominciata ad annidare la post-verità, dai reality all’info-tainement (la confusione fra informazione e intrattenimento, tipica anche dei cosiddetti talk-show), attraverso tutte le progressive obliterazioni del confine fra realtà e la pura suscitazione di emozioni e di convinzioni deformate, rese potenti dalla comunicazione disintermediata, in particolare dei social; il secondo: la facilità (naturale o convenientemente utilizzata) di tale obliterazione  a trasformarsi in un potente veicolo di culture jamming che, appunto nelle situazioni da questo punto di vista “più mature” della nostra, sembra aver già plasmato scelte politiche clamorose (dall’elezione di Trump fino alla scelta britannica per l’uscita dall’Europa). E che di consimili ne minaccia (o ne promette) altrove, per esempio da noi. Fin qui, con molti dettagli, il libro di Cosentino, del quale consiglio la lettura (del resto anche gradevole).
Su un piano più generale, quali che siano i duraturi effetti di queste straordinarie evoluzioni del nostro mondo de-fattualizzato; siano o non siano fondate le aspettative di trovare un senso (anche solo reattivo o addirittura rivoluzionario) nelle pulsioni che hanno cavalcato la perdita di credibilità delle classi politiche finora dominanti; mi viene comunque mentalmente difficile – prima ancora di temerne gli effetti politici –  accettare questa risoluzione del reale nell’atmosfera vaga del percepito, del suggestivo, del commovente non vero, del discusso irreale, dei fatti alternativi. E francamente mi spaventa che qualche decisione sul futuro possa essere assunta alla luce fatua che sparge lampi plurimi e accecanti per illuminare fatti reali e rischiarare la strada a uomini veri.
Orbetello, 6 agosto 2018.


sabato 4 agosto 2018

Divagazioni oziose / 2

Il test delle nostre aspettative
(di Felice Celato)
Sempre portata dalle cicale, la mente oziosa, quasi sonnecchiante, mi vaga verso fantasticherie altrimenti impensabili (faticherò a riconoscerle come mie, quando il caldo sarà evaporato e le cicale torneranno a tacere): supponiamo – si badi bene: si tratta solo di una costruzione retorica! – che, d’un tratto, insoddisfatto dell’offerta politica corrente (if any), decidessi di dedicare “questa tanto picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente” alla elaborazione di una proposta politica nuova, che mi paia funzionale alla “fatica” di ri-costruire uno stato moderno adatto al contesto in cui viviamo. Poiché per tanti anni ho vissuto di processi decisionali, dovrei senz’altro valutare l’onirica prospettiva, in base al noto canone logico che impone di raffrontare sempre i fini coi mezzi; ovvero, per dirla come si farebbe in una scuola di management americana, sottoporre l’idea al famoso means & purposes test
Chiaro il fine (suggerito dalla cicale): ri-costruire uno stato moderno adatto al contesto in cui viviamo, nell’assunto che, l’attuale, adatto non lo sia più; restano da identificare i mezzi. Non sono un politologo ma fino ad immaginare quali possano essere i mezzi necessari a tanto fine, ci arrivo: i mezzi per tale fine, come in ogni democrazia, sono le volontà dei singoli cittadini, la loro cultura, la loro antropologia, la loro compagine sociologica, i loro animal spirits. [Essi cittadini, beninteso, sono ben più di un mezzo per un fine (dello stato); e, questo, è ben meno di un autonomo fine separato dai mezzi: nella mia visione di liberale, anzi, si dovrebbe dire che lo stato è, esso stesso, il mezzo, per conseguire una sorta di bene comune dei cittadini (concetto peraltro di difficile definizione ed irto di difficoltà… “ideologiche”). Ma qui la questione si farebbe filosofica e le cicale, si sa, non amano la vita difficile; perciò, oggi, per amore della divagazione, prescindiamo dall’inciso.]
Mezzi e fine: facile a dirsi, direbbe ciascuno dei miei lettori; ma assai più difficile – dopo i tanti dubbi che, in queste nostre conversazioni asincrone, da molto tempo avanziamo sul degrado culturale, sociologico e ed antropologico che ci caratterizza – assai più difficile, dicevo, è valutare la “consistenza” dei cittadini in rapporto al fine. E dunque mi è venuto in mente una specie di test, un arzigogolo di molte domande, per idealmente verificare se esista una anche parziale coerenza fra il fine di questo nostro ragionamento (ri-costruire uno stato moderno adatto al contesto in cui viviamo) e la “consistenza” (starei per dire: la qualità) dei cittadini.
Non starò qui a riassumervi le (peraltro poco scaltre) domande che ho immaginato; per farvi capire quel che le cicale hanno suggerito alla mia divagazione, mi basterà  delineare le chiavi in base alle quali si potrà giudicare di questa specie di test di fattibilità; chiavi del resto, sparse in tanti discorsi che ci siamo fatti nel tempo su questo blog.
Dunque: una proposta politica nuova sarà possibile solo a condizione che la (larga) maggioranza degli Italiani:
  • riconosca fermamente che la generazione della ricchezza non dipende dallo stato ma dalle imprese che operano sul suo mercato; e che, perciò, non è lo stato a determinare livelli di occupazione/disoccupazione;
  • se chiamata a scegliere fra le alternative “Allargare lo stato restringendo il mercato” ovvero “Restringere lo stato allargando il mercato”, dichiari esplicitamente di non sentirsi affatto rassicurata dalla prima;
  • cessi senza esitazione di ritenere che la democrazia diretta è, per sua natura, più saggia di quella intermediata e che in fondo “le cose sono sempre più semplici di come appaiono”;
  • affermi senza equivoci di credere che l’Europa è la nostra patria e il Mondo il naturale orizzonte dell’Europa; e che norme e comportamenti dello stato debbano costantemente riflettere tale realtà;
  • come prova della sua apertura al mondo, ripudi finalmente tutti i suoi provincialismi ingenui, complessati e un po' ridicoli che la portano a vedere dappertutto, da noi, “qualcosa che tutto il mondo ci invidia” (sia esso, chessò, il parmigiano, la pizza, la pasta, i cervelli o le spiagge o le città).

Se le condizioni minime esemplificate in questi cinque punti non sussistono; se ci dovessimo convincere, cioè, che in fondo siamo (e vogliamo restare) un popolo di statolatri, valligiani o comunardi, provinciali e semplicisti, che ha paura dell’altro e che continua a ritenersi depositario di meritati, irripetibili tesori; beh, in questo altamente probabile caso, meglio seguire le cicale: seguitiamo a cantare, finché non more il giorno, magari facendoci aiutare dal ritmo monotono delle tante nostre parole che suonano in tà-ttà-tattaratà con cui ci siamo pascolati per anni e che tanto poco credito concreto poi trovano presso di noi.
Orbetello 4 agosto 2018





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