domenica 28 aprile 2019

Ebrei e Cristiani

Un testo esemplare
(di Felice Celato)
Quelli, fra i miei lettori, che conoscono le mie passioni culturali (e non solo culturali) si sarebbero sicuramente stupiti se, appena uscito, non mi fossi procurato il bel libro Ebrei e Cristiani (Ed. San Paolo, 2019) nel quale Elio Guerriero ha pubblicato (e introdotto) il carteggio intercorso fra il Papa Emerito Benedetto XVI e il Rabbino Capo di Vienna Arie Folger sul tema del dialogo fra Ebrei e Cristiani.
Non importa qui ripercorre la breve storia di questo recente carteggio, ancorché per diversi aspetti interessante; e, quanto al contenuto (molto “tecnico”, direi, dal punto di vista teologico e biblico), basterà qui fare un breve cenno ai punti trattati: il primo è quello della cosiddetta teoria della sostituzione, in forza della quale Israele sarebbe stato, appunto, “sostituito” dalla Chiesa (il nuovo Israele) come “portatore” eletto delle promesse di Dio (e quindi nella storia della salvezza); il secondo – sul quale in fondo si appoggia il primo punto – è quello della cosiddetta revoca dell’alleanza, cioè (per dirla con parole giuridiche) della “risoluzione” dell’alleanza, anzi delle alleanze che in tutto l’Antico Testamento sono state enunciate per caratterizzare lo speciale rapporto fra Dio e il popolo eletto; il terzo punto, ancora, è quello della promessa della terra concretamente riservata ai figli di Abramo come popolo storico. 
Su questi tre punti (ovviamente, come si vede, basati su secoli di speculazioni teologico-bibliche, sull’uno e sull’altro versante) Benedetto XVI getta una luce di serena “compressione” delle divergenze: da un lato, considerando separatamente gli elementi in cui si declina l’elezione (il culto, la legge, la morale, la terra promessa, l’annuncio del messia); dall’altro, riportando il concetto di alleanza a quello di testamento, per sua natura atto unilaterale (I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili, Rm 11,29, non ostanti le rotture dell’alleanza o, meglio, non ostanti le colpe dei beneficiari di quel testamento). Per tali vie, quelle divergenze vengono ricondotte ad affinamenti interpretativi che avvicinano fortemente (con piena coscienza delle differenze) i termini più delicati delle quaestiones; più difficile, specie per alcune correnti dell’ebraismo contemporaneo, può risultare la distinzione, che Benedetto XVI ribadisce, fra aspettative storico-teologiche sulla terra promessa e aspettative puramente politiche del popolo ebraico in relazione al moderno stato di Israele. 
Ma c’è anche, infine, un quarto punto (che è ovviamente quello centrale) sul quale, invece, nessun serio accostamento fra le reciproche posizioni può essere tentato e del quale non gioverebbe ad alcuno attenuare la portata: la messianicità di Gesù (ovviamente ab origine negata dagli Ebrei) che direttamente implica anche una rilettura in chiave Cristologica dell’intero Antico Testamento (ovviamente assai impervia per gli ebrei). 
Come dicevo all’inizio, anche da questi sommari cenni estremamente contratti si percepisce la densità e la delicatezza della materie trattate nel testo (di cui raccomando la lettura solo ai lettori veramente interessati alla questione); però c’è un aspetto di fondo – solo apparentemente formale – che mi preme sottolineare e che è riflesso nel titolo di questo post: è vero che fra Ebraismo e Cristianesimo c’è un indissolubile legame di speciale fraternità abramitica (oltreché monoteista, naturalmente) e di larga comunanza di “fonti” (è noto che Bibbia Ebraica e Antico Testamento non sempre condividono la stessa “lettura” di tutti i testi sacri); come pure è vero che le secolari divergenze (anzi: ostilità, più di parte cristiana che di parte ebraica, va detto) sono state dure (e se ne notano ancora le tracce in alcuni passi dei testi del Rabbino Folger). Ma è anche vero che queste diversità possono esser trattate con sapienza, dignità e saldezza nella propria fede, senza stolidi tentativi di obliterare (o di nascondere) le differenze ma con piena disponibilità ad avvicinarsi e, dove possibile, trovare almeno comuni sentimenti, per comprendersi nella diversità e nella comunione del rispetto e del dialogo. Poi, come scrive Benedetto XVI, tenuto conto della natura delle divergenze che sussistono, è giusto pensare che, ad umana previsionequesto dialogo non porterà mai all’unità delle due interpretazioni all’interno della storia corrente, perché, in fondo, questa unità è riservata a Dio alla fine della storia.
Roma 28 aprile 2019



mercoledì 24 aprile 2019

La società divergente

25 aprile
(di Felice Celato)
Giusto un anno fa, avevamo fatto (a noi stessi, s’intende) una Proposta indisponente (vedasi post del 25 aprile 2018): sospendiamole, queste festività civili (per carità, lasciandone la funzione di pilastri dei “sacrosanti” ponti primaverili, l’unica universalmente apprezzata nel Paese!); proviamo a vedere se senza le loro stilizzate retoriche magari rispunta la salutare nostalgia del “chi siamo?”, magari affiancata da quella del “dove andiamo?”. Sospendiamole; facciamo, per un po', una società senza feste civili, senza memorie, senza nerbo civico; teniamoci solo le graditissime scampagnate!
Ci sembrava, allora, che alle festività civili, al 25 aprile, come al 2 giugno e anche al 1° maggio, dovesse essere riservata, almeno pro tempore, una sorte coerente con la sospensione, che stiamo vivendo, del sottostante concetto di civitas: un insieme di cittadini che condividono non solo un territorio ma un diffuso senso di appartenenza civile e valoriale e un comune senso della propria storia e del futuro.
A tutt’oggi ci sembra proprio il caso di confermare quella proposta indisponente, specie se – come leggiamo – il 25 aprile viene vissuto come “un derby fra fascisti e comunisti”: sospendiamo le celebrazioni dell’Anniversario della Liberazione! Di derby (e di tifoserie sudate ed urlanti) ne abbiamo abbastanza, lasciamo correre in silenzio il nostro quotidiano dépaysement civile, aspettiamo che cessino i "sobbollori" che turbano la nostra civitas – ritorno alla tribùnostalgia del grembo materno?  retrotopia?(Bauman); sovranismo psichicorancore collettivo?paura della complessità? (Censis); paura della libertà? (Mason); illusioni identitarie? (Amartya Sen); deconsolidamento democratico? (Mounk) – per ricominciare a pensare, collettivamente, “chi siamo” e “dove andiamo”; mitigando gli spiriti bollenti della nostra società divergente
In fondo un tempo di sospensione, una specie di Sabato Santo della nostra storia civica, non può fare che bene, aiutando a decantare il presente, per magari trattenerne gli umori più fruttuosi (se ce ne sarà alcuno).
Lasciamo, nel frattempo, che siano per un po' solo i nostri fratelli ebrei – che ebbero ragione di comprendere meglio di ogni altro che cosa significò la liberazione dal fascismo – a tenere acceso il lumino del 25 aprile, con senso della storia e della profezia, come in fondo è proprio della cultura ebraica. Potrà tornare utile, anche il lumino della nobile e gloriosa Brigata Ebraica, per riaccendere la fiamma di una comunità stanca, quando, spontaneamente o spintaneamente, riprenderà (o sarà costretta a riprendere) le forze.
[Ah! beninteso!, l’abbiamo chiarito in premessa: ove mai (ma non c’è da temerlo) la nostra ri-proposta indisponente prendesse consistenza (in un modo o nell’altro) in ogni caso (ripeto: in ogni caso) è fatta salva la funzione di pilastri dei “sacrosanti” ponti primaverili, sia per il 25 aprile che per il 1° maggio che per il 2 giugno! Eh! Va bene “sparare” (dati i tempi, lo scrivo tra virgolette) proposte indisponenti, ma quando si tratta di autentici e condivisi valori nazionali (scampagnate, gite fuori-porta o, più radical-chic, dejeuner sur l’herbe) non si scherza! Vuol dire che, più propriamente, invece che festività civili, le chiameremo, per un po', festività pontili.]

Roma 24 aprile 2019

sabato 20 aprile 2019

Buona Pasqua!

La festa della Chiesa
(di Felice Celato)
Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto”: così dice Maria di Magdala agli Apostoli, dopo che, di buon mattino (quando era ancora buio), vide per prima che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Curiosamente, nel giorno della Pasqua di Resurrezione la pericope evangelica di quest’anno liturgico (Giov. 20, 1-9) non ci dice nulla della Resurrezione se non che gli Apostoli non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè Egli doveva risorgere dai morti.
Dicevo che la scelta di tagliare lì, al nono versetto, il racconto del capitolo 20 di Giovanni, può apparire curiosa, nel giorno in cui la Resurrezione viene celebrata. Ma, pensandoci meglio, mi è venuto di cogliere in questa scelta una specie di profetica enunciazione di una perenne condizione del fedele: in fondo, senza la completezza della Rivelazione, non capiremmo dove l’hanno posto, il corpo del Giusto che gli uomini hanno crocefisso; ne cercheremmo una spiegazione umana (dove l’hanno posto), forse ne “troveremmo” una…dietrologica (i Romani, gli zeloti, gli altri ebrei o un gruppo di discepoli, chissà?). Ci mancherebbe ancora la spiegazione della Chiesa, che non l’ha trovata da sé (non avevano ancora compreso la Scrittura) ma che essa stessa l’ha ricevuta, direttamente dal Risorto.
Ecco, quest’annuncio (il cuore del kèrygma) è la ricchezza della Chiesa: Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? scrive san Paolo nella Lettera ai Romani (10,14-15).  Tutto il resto, del patrimonio affidato alla Chiesa, conta assai meno: se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede, dice ancora san Paolo (in 1 Cor. 15, 14); è per questo che dobbiamo, noi tutti fedeli così lontani dagli Eventi, tenerci aggrappati a questo depositum fidei, anche quando la barca con la quale naviga le onde della storia sembra scossa da onde tempestose: Il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto (dall’ultima udienza generale di Papa Benedetto XVI).
Per questi pensieri, auguro a tutti noi di sentire la Pasqua di Resurrezione, oltreché come festa della vita rigenerata, anche come festa della Chiesa, che in questo momento – come in tanti della sua lunga storia – ha forse anche bisogno di sapere che i suoi figli la sentono e la vogliono come roccia fedele. 
Roma, 20 aprile 2019



venerdì 19 aprile 2019

Settimana Santa


Sembrerà strano ricordare, in Settimana Santa, un passo di Platone – il filosofo greco nato 400 anni prima di quel tragico e sublime venerdì della storia – riassunto e citato da Joseph Ratzinger nella sua Introduzione al Cristianesimo:

Il grande filosofo si chiede, nella sua opera sullo Stato [Politeia], come dovrebbe andare, in questo mondo, a un uomo veramente giusto. E giunge alla conclusione che la giustizia di un uomo sarebbe davvero perfetta e provata solo allorché egli assumesse la sembianza dell’ingiustizia, perché soltanto allora sarebbe evidente che egli non segue l’opinione degli uomini, ma cerca la giustizia unicamente per sé stessa. Sicché secondo Platone, il vero giusto deve essere in questo mondo un misconosciuto e perseguitato; anzi, Platone non esita a scrivere: “Direte quindi che, stando così le cose, il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in catene, accecato col ferro rovente e infine, dopo tutto questo scempio, finirà per essere crocefisso”.

400 anni dopo, Pilato: Ecce homo.

La verità dell’uomo – scrive ancora J. Ratzinger – è di andare continuamente contro la verità: il giusto crocefisso è quindi lo specchio messo davanti all’uomo, nel quale egli si vede spietatamente riflesso…..Guardati come sei, o uomo: incapace di sopportare il giusto… ingiusto al punto da avere continuamente bisogno dell’ingiustizia altrui per sentirti scusato, al punto di non poter tollerare il giusto che sembra strapparti di mano questa scusa.

Roma  19 aprile 2019, Venerdì Santo

martedì 16 aprile 2019

Minuscolo anniversario

Otto anni fra noi
(di Felice Celato)
Il primo post “pubblicato” su questo blog è del 16 aprile 2011 (ho messo “pubblicato” fra virgolette perché – non ostante il blog sia ovviamente aperto al pubblico – esso è in realtà destinato alla conversazione fra pochi amici). In 2920 giorni ho scritto 732 post (compreso questo), diciamo uno ogni 4 giorni. Le pagine visualizzate dai lettori nell’intero periodo sono state circa 72.800 pari a circa 25 al giorno; è ragionevole stimare che, di queste, circa un terzo (diciamo 8) abbiano origine da lettori casuali (banali esploratori di rete, semplici rimbalzati da qualche ricerca, qualche titolo di per sé attrattivo, etc). Ne consegue che ogni giorno, nell’intero periodo, i veri destinatari di queste conversazioni asincrone (più altri, ignoti amici lettori) hanno “guardato”, tutti insieme, una quindicina di pagine (le statistiche più recenti – dopo una breve interruzione della “produzione” intervenuta nella primavera-estate del 2014 – mostrano medie giornaliere più alte).
Questi dati – che forse farebbero la disperazione di un normale blogger – mi sono invece di grande conforto: non ostante l’improprietà del mezzo, il blog è rimasto quello che voleva essere: un modo per restare in contatto intellettuale coi pochi amici coi quali mi è gradito conversare; ma anche un modo (per me prezioso) per mantenere in vita la mia passione per le cose scritte, che – secondo l’uso che sono solito farne – implicano sia un esercizio di ordinata esternazione di pensieri, sia una certa sorveglianza lessicale. Del resto, i pensieri, se uno li tiene solo per sé, spesso rimangono disordinati, si affastellano nella mente alla rinfusa: in fondo quando inviti qualcuno nella casa dei tuoi pensieri è normale che tu metta un po’ in ordine; e vedere la casa in ordine di solito ci fa piacere (e ci serve anche a riflettere su ciò che non ci serve più e si può tranquillamente portare in cantina). Le parole, poi: in un tempo di linguaggi rudi e slabbrati, ci siamo sforzati di esprimere i nostri pensieri con parole delle quali non ci si debba vergognare; e usando lemmi corrispondenti a significati quanto più possibile precisi, avendo cura che i significati e significanti non prendessero autonome derive.
Vicina alla questione delle parole c’è quella del periodare, sulla quale qualche lamentela l’ho ricevuta, nel tempo, con grazia e con amicizia: in sostanza mi s’è detto che il mio periodare si vale troppo spesso di incisi, fra parentesi o fra trattini, che rallentano la lettura e talora obbligano ad una rilettura (il che, lo confesso, non proprio mi dispiace). Credo che sia vero: talora, per meglio riflettere il percorso del pensiero, costruisco la frase addensando rimandi, avvertenze, riserve, cautele. Beh! in tempi di immarcescibili assertori di semplificate certezze, il rendere edotto il lettore di una più meditata strutturazione di ciò che si ardisce dire non mi pare una grave colpa (serve anche a ricordare che le cose sono spesso complicate); e comunque mi piace assolvermene. 
Infine una parola sui commenti: ne ricevo tanti, a voce, magari intorno ad una pizza o anche per telefono o via mail; veramente molto rare invece ne sono le tracce sul blog, a riprova del fatto che molti dei miei pochi lettori – mi dispiace per loro – hanno ancora le giornate più piene della mia (o non sono maniaci dello scribacchiare, come me). 
Non posso negare che lo scrivere quel che penso (per quel poco che vale) sia per me un piacevolissimo passatempo; quale, però, ne sia, in essenza, la prevalente finalità meta-ludica – se ce ne è una – non saprei dire: mantenere in vita una comunicazione “intellettuale” coi miei corrispondenti? Sicuramente. Tenere traccia di ciò che mi viene pensato nel tempo? Forse anche (e infatti talora mi rileggo e qualche volta mi critico anche). Soddisfare un inespresso bisogno di comunicare con chiarezza (io che so farlo a voce solo quando parlo di cose professionali)? Può essere. Una cosa mi sento di escludere: che serva per lasciare memorie ai posteri! Sarebbero inutili e spero che i posteri abbiano altro da fare (…magari ai nipoti, quando saranno più grandi, potrà fare piacere capire che tipo era il loro nonno, che forse parlava poco ma che trepidava – e ogni giorno pregava – per loro).
Roma 16 aprile 2019

domenica 14 aprile 2019

Letture allarmanti

Sindromi di polarizzazione spinta
(di Felice Celato)
Non avremmo bisogno, per la verità, di letture allarmanti: siamo già allarmati! Mi viene sempre in mente quando i nostri pigri titolisti ci propinano i loro rancidi minestroni di cronache del tipo “La Banca d’Italia dà l’allarme sul debito pubblico” o “Cantone suona l’allarme corruzione” o “La Corte dei Conti: è allarme sull’evasione fiscale”. Siamo già allarmati! E poi l’allarme ha senso quando un pericolo ignorato rischia di materializzarsi; ne ha assai meno quando il pericolo non è ignorato anzi è già ben presente alla nostra attenzione e vivo nelle nostre preoccupazioni.
Eppure mi è venuto da definire “allarmante” il bel libro di Steven Levitsky e Daniel Ziblatt Come muoiono le democrazie (Laterza, 2019, ebook). Si tratta di un volume che i due docenti di politologia alla Harvard Kennedy School of Government di Cambridge (USA) dedicano alla crisi della democrazia liberale nel loro paese. Il libro è preceduto da una breve saggio su La sfida populista e i suoi rimedi, di Sergio Fabbrini (docente di politologia alla LUISS di Roma) che introduce e commenta la trattazione dei due studiosi americani, riconducendola alle prospettive europee e delineando una efficace sintesi dell’ampio dibattito politico e sociologico - da tempo in corso un po' in tutto il mondo – sulle origini e sulle caratteristiche del (cosiddetto) populismo e sulle sue connessioni coi movimenti (cosiddetti) sovranisti, anch’essi recentemente diffusi nel nostro continente.
In sostanza il libro svolge – con ampia documentazione attinta soprattutto dalla storia recente – una tesi non nuova (abbiamo qui più volte citato e raccomandato il libro di Fareed Zakaria The future of freedom che, in qualche modo, questo sì!, dette – ormai più di quindici anni fa – l’allarme sul rischio che le democrazie liberali corrono  quando i meccanismi di formazione della volontà politica – appunto democratici – si rendono compatibili con forme autoritarie, virando cioè verso cioè verso quella specie di ircocervo che è l’illiberal democracy): in estrema sintesi, quando in un regime formalmente democratico vengono meno, con progressione talora impercettibile, anche i principi non codificati di temperanza (ossia di moderazione nell’esercizio delle prerogative istituzionali di chi governa) e di tolleranza reciproca fra gli attori delle vicende democratiche (cioè la reciproca accettazione e legittimazione) si determina una sindrome di polarizzazione spinta che indebolisce (anzi corrode) la democrazia e si trasforma in un conflitto esistenziale spesso legato a razza e cultura. Il testo è ricchissimo di esemplificazioni di tali dinamiche (e delle conseguenze che se ne sono generate a carico dei rispettivi regimi democratici) attinte soprattutto (ma non solo) dalla storia dei populismi sud-americani; ma via via riporta l’attenzione sulle vicende della democrazia statunitense e, con particolare ampiezza, al periodo della campagna elettorale e della successiva affermazione del presidente Trump, fornendo anche una specie di indicatore di allarme destinato a monitorare i comportamenti dei politici al governo.
C’è, nel testo di Steven Levitsky e Daniel Ziblatt (come del resto nel saggio di Fabbrini), una pars construens che, dopo un’analisi così scorata, riporta ad una prospettiva ritenuta alla portata del presente ed in fondo (starei per dire: banalmente) all’essenza dei meccanismi democratici. Essa si situa, peraltro, lungo un sentiero tanto più impegnativo quanto più attuali si siano manifestati, in concreto, i sintomi di una deriva illiberale delle democrazie: da un lato  la ripulsa, senza compromessi o alleanze tattiche, dei metodi che vengono avversati (in nessun caso è consigliabile farne adozione, nemmeno per opporsi); dall’altro, la rigenerazione di meccanismi tipicamente democratici quali la coalizione, anche trasversale, degli oppositori (negli Usa su base multirazziale e inclusiva anche del proletariato bianco) e l’impegno politico per la rimozione dei presupposti (economici e sociologici) che possono aver alimentato una recessione democratica.
In sintesi: un libro che si raccomanda per l’ampiezza della ricerca storica che sorregge le tesi degli autori, espresse con lucidità, efficacia ed anche (quando si parla della presidenza Trump) con una certa drammaticità. Non a caso abbiamo ascritto il libro (ed il saggio che lo precede) al novero delle letture allarmanti, soprattutto per chi vi vada alla ricerca di analogie nostrane. 
Roma 14 aprile 2019




martedì 9 aprile 2019

Stupi-diario del natìo

Paradoxa et inania
(di Felice Celato)
Coloro che hanno studiato la letteratura latina non avranno difficoltà a ricordare l’operetta (opusculum ludens)  di Cicerone Paradoxa stoicorum, con la quale il sommo oratore intendeva dimostrare la fondatezza di alcune affermazioni degli stoici apparentemente contrarie all’opinione comune.
Nonostante non l’abbia letta nella sua interezza (certamente mi sarà capitato di doverne tradurre qualche brano per le famose versioni da fare “per casa” o “in classe”, ma confesso che l’intera opera non l’ho letta), mi rimase impressa come archetipo letterario di capovolgimento delle opinioni correnti.
Per questo, a torto o a ragione, mi torna in mente ogni volta che mi imbatto in qualche opinione comune immancabilmente (ed imprudentemente) accettata come “verità”. Se non temessi di mancare di rispetto a qualcuno mi verrebbe voglia di parlare piuttosto di inania imbecillorum, per dire, di vacuità concettuali di persone prive di forza, di capacità critiche, come in fondo siamo un po' tutti quando, per difetto naturale o per semplice pigrizia mentale (permanente o transitoria), ci capita di prendere per verità affermazioni che ne sono ben lungi e che, magari, corrispondono al “pensare” comune (si notino le virgolette) e quindi sono facili da condividere (o da contrabbandare come pacifiche). Il rischio è che lo stratificarsi – nella nostra mente – di queste affermazioni facili e superficiali quanto ingenue e fuorvianti ci abitui ad una certa corrività del pensiero che, purtroppo, travalica poi la semplice affermazione e diventa costume mentale fastidioso, talora insopportabile, spesso ridicolo; e magari infetta anche altre aree del nostro pensiero, nelle quali la corrività opinionale è persino pericolosa.
Bene: vediamo qualche esempio, considerando quella categoria di persone (così diffuse da noi) che il filosofo austro-tedesco Edmund Husserl chiamava i maniaci del natìo (anche questo non l’ho letto direttamente ma l’ho trovato citato da Bernard-Henri Lévy nel suo graffiante libretto Looking for Europe, La Nave di Teseo, 2019)Pensateci un momento: quante volte ci imbattiamo nella convinzione (forse diffusa ad arte ma diffusamente accettata come vera) che tutta una serie di nostri prodotti (in genere di largo consumo e di solito legati alla terra) siano incomparabilmente migliori di quelli prodotti in altri paesi, magari anche vicini?
Che siano il formaggio, le nocciole, i vini (spumanti e non), i prosciutti, le carni bovine, le arance, i pomodori, i risi, gli ortaggi, etc., l’opinione corrente degli Italiani è che come ciò che è nato da noi non ci sia nulla al mondo; persino ho sentito sostenere la superiorità razziale delle api nostrane, che in virtù di questa loro (ariana?) superiorità, produrrebbero un miele che – ovviamente, manco a dirlo – tutto il mondo ci invidia. Nessuno si domanda (o meglio: sembra domandarsi) come sia possibile che latte, sale e caglio, mescolati e conservati in un certo modo da sapienti (ma espatriabilissimi) casari producano in Italia qualcosa che all’estero nessuno saprebbe mai fare (o vorrebbe mai fare? Ce lo vedete voi un produttore inglese dell’ottimo  stilton convertirsi al gorgonzola?); o perché un comune suino (esportabilissimo, bastano un verro e una scrofa) abbia in Italia una coscia di maggior qualità di quella che avrebbe se nascesse, chessò, in Germania (N.B. questa affermazione de prosciuttis l’ho sentita anche da amici che – quando c’è – ordinano al ristorante un buon piatto di pata negra invece del San Daniele); o perché le esportabilissime radici di nocciolo producano a Sutri o in Piemonte delle nocciole che non trovano eguali in tutto il Mediterraneo; o perché l’americanissimo pomodoro abbia acquisito in Italia caratteristiche ineguagliabili, come del resto l’asianissimo riso; o come ci proteggiamo dalla “contaminazione razziale” delle nostre api.
Gli esempi (anche divertenti) si potrebbero moltiplicare e, con essi, gli inspiegabili privilegi del paesanissimo “nostrano” di cui, pure, ci diciamo convinti. 
Non ne abuso perché la domanda che voglio porre è, invece, seria: c’è una cesura fra il nativismo dei prodotti e quello degli umani? Mi rendo conto che domanda è essa stessa paradossale; ma fino ad un certo punto: coloro che accettano di ritenere che il suino nato in Italia sia superiore a quello nato in Germania, o che un’ ape Italica goda di innate e irriproducibili superiorità mielificanti, fanno forse più fatica di altri ad accettare che noi stessi, gli Italiani, non siamo, in fondo, una razza da proteggere? [Quali, poi, degli Italiani diasporizzati, come direbbe Zygmunt Bauman? Quelli nati in Italia (poco più di 50 milioni), quelli trasferitisi all’estero (circa 5 milioni) o anche quelli oriundi (pare 60 o 70 milioni)]?
Roma, 9 aprile 2019

sabato 6 aprile 2019

Diatribe pre-politiche

Conversazioni asincrone
(di Felice Celato)
Un amico, forse non frequente lettore di questo blog ma (quasi quotidiano) prezioso interlocutore di questioni golfistiche ma anche di cose politiche (fra una palla e l’altra, spesso si chiacchiera e  talora si litiga, con beneficio o danno per la prestazione sportiva), mi ha recentemente rivolto una critica secondo me quanto mai azzeccata: “mi è facile, F., capire a che cosa sei contrario (e del resto tu non ne fai proprio mistero); mi è però impossibile capire a che cosa sei favorevole”, dice più o meno l’amico in questione (senza riferirsi però alla materia golfistica).
Dicevo che la critica è sicuramente centrata (per le ragioni che dirò); ma in fondo essa è programmaticamente assunta a base del breve profilo che accompagna queste nostre conversazioni asincrone (vedasi a lato, sotto Chi scrive): in fondo, politicamente, mi autodefinisco un elettore sempre deluso da chi ho votato (ed io voto ad ogni elezione! Pensate quante volte mi sono pentito!). Dunque ho provato con lui e ora provo con voi a…descrivermi in positivo (politicamente, intendo; golfisticamente mi sarebbe impossibile!).
Se dovessi dare una definizione sintetica del mio “pensiero politico” (dilettantesco, se si vuole, perché non mi sono mai occupato “scientificamente” di politica; ma meditato perché - ahimè – con la politica ho avuto a che fare ed ho imparato a conoscerla; e le mie letture in materia le ho pure fatte!) mi definirei sinteticamente un cattolico liberale o, sempre se si vuole, un liberale cattolico. E quindi: come liberale, detesto ogni forma di statolatria, sia essa quella tanto cara alla cultura di sinistra (italiana), sia quella tanto cara alle nuove destre addirittura sovraniste (quindi adoratrici anch’esse di uno stato – e quindi statolatriche – ma per di più di uno stato piccolo, nella dimensione fisica e soprattutto culturale). Il mio sogno – questo lo sanno bene i miei lettori –  è uno stato che si occupi di quante meno cose possibili (difesa; giustizia; politica estera; tassazione – con intenti redistributivi di una torta che altri dalla politica deve produrre; tutela dei più deboli – questa anche come derivato della mia cultura cattolica, sulla quale ritornerò fra poche righe; istruzione per tutti ma liberamente accessibile a tutti in condizioni paritarie anche se non erogata dallo stato; disciplina dei mercati – quindi regole di mercato chiare, costanti, tutela della libera concorrenza; etc). Il resto, lo stato lo lasci fare al privato, sostenendolo, ovviamente, dove il privato appoggia (o addirittura sostituisce) lo stato (per esempio, nella tutela dei più deboli, come fa il cosiddetto terzo settore); e semmai surrogandolo dove, magari transitoriamente, si riveli indispensabile sostituirsi ad esso.
Come cattolico, inoltre, ho una visione dell’umanità basata sull’assunto (in dottrina si chiama opzione fondamentale) che, al di là di ciò che vediamo, esiste un Ciò che non vediamo, su cui si regge tutto ciò che vediamo (su questo possiamo dilungarci moltissimo, ma non è il caso di farlo qui); e che da questo Ciò che non vediamo origina una comune natura degli uomini; e da questa, a sua volta, un dovere di solidarietà e di amore, anche al di là dell’opzione cattolica (con tutto ciò che ne deriva) che mi è orgogliosamente propria e cara ( nel rispetto del principio liberale: libera Chiesa in libero stato; anzi, per guelfo ossequio alla vocazione universale della Chiesa, direi: liberi stati in libera Chiesa)!
Come cattolico e come liberale, poi, ho diffidenza verso il popolo inteso come moltitudine (o folla): come cattolico, da quel lontano giovedì/venerdì quando la folla gridò "Crucifige!”; come liberale perché penso che il reggimento dello stato moderno nella forma della democrazia liberale non spetta al popolo ma, appunto, a chi da questo - per delega temporanea e soggetta a revoca nelle forme appropriate - è incaricato di governare in quanto “scelto” per competenza, esperienza e probità (ovviamente tutte da presumersi ex ante): il popolo controlla chi governa, ma chi governa definisce le politiche e detta le regole, scrive, con la sua consueta chiarezza, Cassese in La democrazia e i suoi limiti, Mondadori, 2019; del resto, come diceva Costantino Mortati (citato da Cassese) un elemento aristocratico… entra come parte integrante in ogni assetto democratico (e, in fondo, anche Aristotele lo pensava per Atene!)
Bene: con queste convinzioni che mi riconosco, giuste o sbagliate che siano, fondate o infondate, come si può volere che non sia “contro” tutto ciò che vedo da vari decenni in Italia? 
Roma, 6 marzo 2019

martedì 2 aprile 2019

Delle torte e delle fette

Se solo ne avessimo voglia
(di Felice Celato)
Se solo ne avessimo voglia, l'analisi del tanto clamoroso Economic Survey of Italy 2019 dell’OCSE potrebbe dare lo spunto per molti sarcasmi, soprattutto per come è stato letto (e capito?) da molti nostri politici. Ma non ne abbiamo voglia alcuna. Del resto, se per uno che da una vita maneggia grafici e numeri la lettura delle 40 slides del rapporto ha richiesto un'ora di concentrazione (N.B. per i non addetti ai lavori: mai sottovalutare un grafico!), i poveri nostri politicanti, così oppressi dall’ansia di twittare e meno avvezzi (o nient'affatto avvezzi) ai numeri, dove potrebbero trovare le due/tre ore necessarie per comprendere ciò che hanno dovuto già commentare?
Conscio di questo soggettivo vantaggio (in fondo non ho neppure alcuna fretta di far sapere che cosa ne penso), mi presento ai miei pochi lettori (Dio li benedica perché cari e soprattutto perché pochi!) con qualche considerazione spero non banale.
L’OCSE fa una fotografia dell’Italia che tutto sommato ci è (o dovrebbe essere) ben nota: l’Italia è un paese  vecchio e seduto (in fondo se aggiungessimo malmostoso e  cattivello potremmo rifarci comodamente a ciò che ne viene dicendo da qualche tempo il Censis), nel quale le "grane" del presente hanno scoperte radici nel passato, recente e meno recente. 
D’altro canto, diversi dati dell’OCSE, soprattutto quelli relativi alle tendenze in atto, si fermano al 2018, che – diciamolo chiaramente – quanto a dinamiche economiche deve le sue pesanti sventure solo in parte agli attuali governanti; il resto (produttività penosa, debito soffocante, invecchiamento strutturale ed infrastrutturale, inefficienze sistemiche, inefficacie sociali) era scritto nella storia recente del nostro Paese. Nulla di ciò che è stato può essere addebitato agli attuali governanti (almeno personalmente); ai quali – semmai – l’OCSE addebita (credo a ragione) “solo” di aver disegnato provvedimenti  più dannosi del male; ma tuttora correggibili, magari a prezzo di qualche retro-marcia, clamorosa, certo, ma ancora possibile (in fondo, già il nuovo DEF, da emanare entro metà di questo mese, dovrà, perbacco!, prendere atto che l’anno in corso non sarà poi così bello come lo aveva predetto il Premier, solo qualche settimana fa!).
Capisco che raccomandare una lettura ad un politico (con che autorità, poi?) è un po' come invitare ad un’orgia un eunuco, ma, forse, a chi ha prontamente reagito (così leggo), magari sulla base di un comunicato stampa, con lo stizzito commento “facciano l’austerità a casa loro!” consiglierei un libro di un’economista che apprezzo molto: di Veronica De Romanis: L’austerità fa crescere; o anche quello, forse meno provocatorio, di Carlo Cottarelli: Il macigno: perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene (entrambi qui segnalati, in tempi assolutamente non sospetti, rispettivamente il 4 giugno del 2017 e il 25 maggio del 2016); mi rendo conto che gli autori non sono, con ogni probabilità, molto popolari presso gli attuali governanti, ma – sempre perbacco! – qualcosa dei sicuro ne capiscono, di queste materie! E forse varrebbe la pena di, almeno, leggere i loro libri, del resto anche di lettura non impervia.
Chi scrive questa nota ha le sue idee, come sanno buona parte dei suoi lettori; e non presume che esse debbano a tutti i costi piacere, né ai lettori né – tanto meno –  a chi ora detiene le leve del comando (quand’anche, per assurdo, avesse modo di venirne a conoscenza o di interessarsene): una bella sferzata di libera energia a questo corpaccione assopito che è diventata l’Italia statolatra, farebbe molto meglio di tanti pannicelli scaldati al falò dei soldi degli altri!
Ma – ed è questo il difficile – occorrerebbe dire agli Italiani qualcosa che né gli attuali governanti né i loro oppositori (che li hanno preceduti al governo) si sentono di dire: per anni vi abbiamo avvezzati a credere che una fetta di torta – magari piccola – ci sarebbe sempre stata per tutti; abbiamo però omesso di dirvi che la torta la dovete impastare e mettere a cuocere voi! Noi, alla fine, facciamo solo le fette (talora riuscendoci bene, più spesso male).
Roma 2 aprile 2019, (San Francesco di Paola, eremita e fondatore dell'Ordine dei Minimi)