Paradoxa et inania
(di Felice Celato)
Coloro che hanno studiato la letteratura latina non avranno difficoltà a ricordare l’operetta (opusculum ludens) di Cicerone Paradoxa stoicorum, con la quale il sommo oratore intendeva dimostrare la fondatezza di alcune affermazioni degli stoici apparentemente contrarie all’opinione comune.
Nonostante non l’abbia letta nella sua interezza (certamente mi sarà capitato di doverne tradurre qualche brano per le famose versioni da fare “per casa” o “in classe”, ma confesso che l’intera opera non l’ho letta), mi rimase impressa come archetipo letterario di capovolgimento delle opinioni correnti.
Per questo, a torto o a ragione, mi torna in mente ogni volta che mi imbatto in qualche opinione comune immancabilmente (ed imprudentemente) accettata come “verità”. Se non temessi di mancare di rispetto a qualcuno mi verrebbe voglia di parlare piuttosto di inania imbecillorum, per dire, di vacuità concettuali di persone prive di forza, di capacità critiche, come in fondo siamo un po' tutti quando, per difetto naturale o per semplice pigrizia mentale (permanente o transitoria), ci capita di prendere per verità affermazioni che ne sono ben lungi e che, magari, corrispondono al “pensare” comune (si notino le virgolette) e quindi sono facili da condividere (o da contrabbandare come pacifiche). Il rischio è che lo stratificarsi – nella nostra mente – di queste affermazioni facili e superficiali quanto ingenue e fuorvianti ci abitui ad una certa corrività del pensiero che, purtroppo, travalica poi la semplice affermazione e diventa costume mentale fastidioso, talora insopportabile, spesso ridicolo; e magari infetta anche altre aree del nostro pensiero, nelle quali la corrività opinionale è persino pericolosa.
Bene: vediamo qualche esempio, considerando quella categoria di persone (così diffuse da noi) che il filosofo austro-tedesco Edmund Husserl chiamava i maniaci del natìo (anche questo non l’ho letto direttamente ma l’ho trovato citato da Bernard-Henri Lévy nel suo graffiante libretto Looking for Europe, La Nave di Teseo, 2019). Pensateci un momento: quante volte ci imbattiamo nella convinzione (forse diffusa ad arte ma diffusamente accettata come vera) che tutta una serie di nostri prodotti (in genere di largo consumo e di solito legati alla terra) siano incomparabilmente migliori di quelli prodotti in altri paesi, magari anche vicini?
Che siano il formaggio, le nocciole, i vini (spumanti e non), i prosciutti, le carni bovine, le arance, i pomodori, i risi, gli ortaggi, etc., l’opinione corrente degli Italiani è che come ciò che è nato da noi non ci sia nulla al mondo; persino ho sentito sostenere la superiorità razziale delle api nostrane, che in virtù di questa loro (ariana?) superiorità, produrrebbero un miele che – ovviamente, manco a dirlo – tutto il mondo ci invidia. Nessuno si domanda (o meglio: sembra domandarsi) come sia possibile che latte, sale e caglio, mescolati e conservati in un certo modo da sapienti (ma espatriabilissimi) casari producano in Italia qualcosa che all’estero nessuno saprebbe mai fare (o vorrebbe mai fare? Ce lo vedete voi un produttore inglese dell’ottimo stilton convertirsi al gorgonzola?); o perché un comune suino (esportabilissimo, bastano un verro e una scrofa) abbia in Italia una coscia di maggior qualità di quella che avrebbe se nascesse, chessò, in Germania (N.B. questa affermazione de prosciuttis l’ho sentita anche da amici che – quando c’è – ordinano al ristorante un buon piatto di pata negra invece del San Daniele); o perché le esportabilissime radici di nocciolo producano a Sutri o in Piemonte delle nocciole che non trovano eguali in tutto il Mediterraneo; o perché l’americanissimo pomodoro abbia acquisito in Italia caratteristiche ineguagliabili, come del resto l’asianissimo riso; o come ci proteggiamo dalla “contaminazione razziale” delle nostre api.
Gli esempi (anche divertenti) si potrebbero moltiplicare e, con essi, gli inspiegabili privilegi del paesanissimo “nostrano” di cui, pure, ci diciamo convinti.
Non ne abuso perché la domanda che voglio porre è, invece, seria: c’è una cesura fra il nativismo dei prodotti e quello degli umani? Mi rendo conto che domanda è essa stessa paradossale; ma fino ad un certo punto: coloro che accettano di ritenere che il suino nato in Italia sia superiore a quello nato in Germania, o che un’ ape Italica goda di innate e irriproducibili superiorità mielificanti, fanno forse più fatica di altri ad accettare che noi stessi, gli Italiani, non siamo, in fondo, una razza da proteggere? [Quali, poi, degli Italiani diasporizzati, come direbbe Zygmunt Bauman? Quelli nati in Italia (poco più di 50 milioni), quelli trasferitisi all’estero (circa 5 milioni) o anche quelli oriundi (pare 60 o 70 milioni)]?
Roma, 9 aprile 2019
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