mercoledì 27 febbraio 2019

Letture serie

Popolo vs.Democrazia
(di Felice Celato)
E’ un vero peccato che già il 16% di quest’anno bellissimo sia fuggito via, portando con sé tante belle cose, tante parole preziose, tanta reciproca stima ed affetto, tante azioni intelligenti e lungimiranti! Fortunatamente, però, ce ne resta ancora da vivere l’84% (se Dio vuole, naturalmente). Per moderare la gioiosa spensieratezza dell’imminente giovedì grasso (domani!), mi è sembrato saggio ritornare a letture meno evasive di quelle suggerite l’altro giorno e così ho deciso di arricchire l’ampia collezione di letture sul presente politico del mondo occidentale affrontando il corposo volume di Yascha Mounk Popolo vs. Democrazia - Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale (Feltrinelli 2018, disponibile anche in ebook dove, fortunatamente, come noto, i caratteri si possono scegliere).
Il testo mi pare meriti una calorosa raccomandazione ai lettori di questo blog perché combina una notevole ampiezza della ricerca (l’autore è un tedesco, giovane professore ad Harvard) con un’esposizione esemplarmente chiara e – soprattutto nella parte analitica – molto convincente.
Il tema è quello da molto tempo assai caro a chi scrive, avendone iniziato a leggerne molti anni fa (The future of freedom - Illiberal democracy at home and abroad, di Fareed Zakaria, pubblicato negli USA 16 anni fa, nel 2003, quando si poteva pensare che esagerasse), essendosene appassionato e cogliendone tuttora l’attualità, incrementata anzi dalla osservazione di come, da allora, il mondo occidentale è evoluto (e l’Italia con esso, come al solito con le sue peculiarità, ordinariamente peggiorative).
L’approccio di Mounk è semplice: che cosa si intende per democrazia e per democrazia liberale(1) una democrazia è un insieme di istituzioni elettive vincolanti che traducono efficacemente le opinioni del popolo in politiche pubbliche; (2) le istituzioni liberali proteggono efficacemente lo stato di diritto e garantiscono i diritti individuali come la libertà di parola, di culto, di stampa e di associazione a tutti i cittadini (comprese le minoranze etniche e religiose); (3) una democrazia liberale è semplicemente un sistema politico che è sia liberale sia democratico: un sistema cioè che protegge i diritti individuali, da un lato, e traduce le opinioni del popolo in politiche pubbliche, dall’altro.
La democrazia liberale – la combinazione unica di diritti individuali e governo popolare che per molto tempo ha caratterizzato la maggior parte degli esecutivi in Nord America e in Europa occidentale – si sta sgretolando. E al suo posto stanno sorgendo due nuove forme di regime: la democrazia illiberale (scrive Mounk, in fondo riprendendo il discorso di Zakaria) o democrazia senza diritti, e il liberalismo antidemocratico, o diritti senza democrazia.
Il lento divergere di liberalismo e democrazia è proprio ciò che sta accadendo ora e le conseguenze potrebbero essere terribili.
Segue un’analisi ad ampio spettro delle tendenze in atto nelle forme politiche di questa (non rassicurante) evoluzione; che, del resto, affonda le sue radici in quella che Mounk chiama l’erosione delle condizioni di possibilità della democrazia: in questo contesto, spiccano il venir meno delle dinamiche costantemente positive degli standard di vita delle popolazioni occidentali (in preda all’ansia per il futuro, i cittadini hanno cominciato a vedere la politica come un gioco a somma zero, in cui qualsiasi progresso per immigrati o minoranze etniche avviene a loro spese), l’omogeneità  etnica (mentre una parte della popolazione accetta il cambiamento, o addirittura lo sostiene, un’altra parte si sente minacciata e offesa. Di conseguenza, in tutto l’emisfero occidentale si sta diffondendo una vasta opposizione al pluralismo etnico e culturale) e i costi dell’organizzazione politica che internet ha pressoché azzerato (l’avvento di internet, e in particolare dei social media, ha rapidamente modificato gli equilibri di potere tra insider e outsider della politica. Oggi qualsiasi cittadino può condividere informazioni virali con milioni di persone in un batter d’occhio).
Fin qui, brutalmente sintetizzato, il senso della parte analitica del libro, che però, come è ovvio, merita una ben più attenta lettura; segue una parte propositiva (Rimedi) che si può – come è ancora più ovvio – condividere o non condividere in ogni singolo punto, ma che in buona sostanza si richiama ad una corretta comunicazione sociale e a quelli che potremmo chiamare gli eterni principi del buon governo; principi che, dati i tempi, vale proprio la pena di ripercorrere tanto sembrano desueti e tanto gravido di minacce sembra il presente: se vogliamo proteggere sia la pace che la prosperità, sia il governo popolare che i diritti individuali, dobbiamo riconoscere che questi non sono tempi ordinari. E prendere misure straordinarie per difendere i nostri valori.
Concludo: un libro da leggere, per riflettere, per valutare con attenzione e comprensione e, infine, anche per (in qualche modo) contestualizzare i nostri problemi, senza con ciò sminuirne la complessità e la gravità e senza tacere dell’urgenza di rimedi.
Roma 27 febbraio 2019









giovedì 21 febbraio 2019

Letture eventuali

Se.... Murakami fa bene
(di Felice Celato)
Se, per caso, anche per voi, come per me, il quotidiano notiziario italiano è fonte di grave sconforto; se il paese del cacio (ovvero del pecorino di stato) vi suscita nausea; se dei "babbi" di politici non ve ne importa niente e, magari, a patto che di loro non si senta più parlare, foste personalmente disposti persino a perdonare la loro più sicura colpa (appunto quella di aver cresciuto certi rampolli); se, per caso, sapete qualche cosa dell’analisi costi-benefici e vi meravigliate che chi tanto ne parla non lo sappia; se delle opere del redivivo Berlusconi ricordate (con immensa gratitudine) solo gli scudetti e le coppe dei campioni del Milan; se delle beghe interne al PD vi interessa né più né meno quanto dei rapporti fra Di Maio e Di Battista; se pensate, insomma, che questo bellissimo 2019 che stiamo vivendo sia, in fondo, la conseguenza naturale (forse ovvia) di ciò che da tempo ha smesso di sorprendervi; se tutte o alcune di queste condizioni sussistono in voi in maniera pervasiva così come accade in me, tanto da farvi ogni giorno desiderare di estraniarvi e da subire il mattutino sfoglio dei giornali Italiani come un doveroso supplizio, allora Haruki Murakami è la lettura di questi vostri giorni!
Per carità, conscio dei devastanti pericoli della droga (anche in età adulta), a nessuno consiglierei la dose massiccia di estraniazione che mi sono propinato leggendo, uno dopo l’altro in sequenza quasi ininterrotta, tre romanzoni (per complessive 1.500 pagine) di Murakami (L’assassinio del Commendatore Vol. I, L’assassinio del Commendatore Vol. II,Kafka sulla spiaggia, tutti editi da Einaudi); del resto la mia malattia è grave e ha anche radici complesse (non tutte esterne) e, naturalmente, la cura (da cavallo, direi) ha da essere proporzionata alla gravità del male. Ma, in modica dose, come si direbbe oggi, e per combattere la depressione ex rebus circumstantibus, nelle sue manifestazioni più ordinarie, i romanzi di Murakami sono senz’altro un’utile medicina. 
Per lui, la realtà è un pretesto nel quale siamo immersi senza vera coscienza; un semplice pretesto per inseguire vorticosamente i sensi nascosti del vivere senza mai riuscire a trovarli, per cogliere le metafore meno ovvie senza mai arrivare ad intenderle fino in fondo; una provocazione ad infrangere continuamente e bidirezionalmente il muro che separa la realtà dalla fantasia. E, di converso, il surreale e il sogno, senza che se ne conosca il principio attivo e la natura farmacologica, sono (per Murakami) il medicamento pietoso delle nostre fragilità, la guida incerta della nostra ricerca su noi stessi.
Il tutto, narrato, non senza grande abbondanza di pagine, con tecnica narrativa straordinariamente avvincente, tale da imporre un’accelerazione della lettura verso il finale, direi tipica di romanzi di ben altro genere.
Dunque, Murakami come terapia dal presente. 
Certo, chi legge i romanzi domandandosi anche il perché li legge, potrebbe fare fatica a far quadrare le narrazioni di Marukami nella “logica” del romanzo che altre volte (qui) abbiamo fatto nostra attingendo a larghe mani da Kundera [ Il romanziere non è né uno storico né un profeta: è un esploratore dell’esistenza; e dunque, i romanzi, li leggiamo - sempre per dirla con Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, 1986 - perché la conoscenza è la sola morale del romanzo]. 
Eppure, con le sue sequenziali estraniazioni, anche lo scrittore giapponese (che forse non ha nelle sue corde una visione religiosa della vita), a suo modo si fa esploratore dell’esistenza proprio lungo i bordi che ne contornano la vita autonoma, come tali si fecero altri “sorvolatori di confini” da noi molto amati (da Borges a Buzzati, a Tabucchi). In fondo è proprio sui confini che si coglie la natura della propria vita, siano essi i confini fra essere ed esistere, fra vita e morte o fra reale e meta-reale.
Comunque, anche prescindendo da ciò,  Murakami fa bene. Naturalmente: non superare le dosi consigliate; se i sintomi di depressione ex rebus circumstantibus non scompaiono durante la lettura, sospenderla immediatamente e consultare con urgenza il medico.
Roma, 21 febbraio 2019


sabato 16 febbraio 2019

Letture amene (?)

Il censimento dei radical chic
(di Felice Celato)
Intendiamoci bene: il libro di Giacomo Papi Il censimento dei radical chic (Feltrinelli, 2019) non è 1984 di George Orwell. Come tutti ricorderanno, lo sfondo del visionario libro di Orwell era altamente drammatico (e certamente cupo): un nuovo stato del mondo dopo una immaginata guerra atomica (il libro è stato scritto settant’anni fa), un socialismo estremo, un Grande Fratello, la Psicopolizia, gli Psicoreati, il Ministero della Verità, la Neolingua, i lavaggi del cervello, etc.
Nulla di tutto ciò nel romanzo di Giacomo Papi, per qualche verso leggero nei toni ma certamente tutt’altro che superficiale. Siamo al giorno d’oggi e la narrazione prende le mosse da un “tragico infortunio” occorso ad un anziano professore di storia dell’Illuminismo: durante un talk show commette la grave impudenza di citare Spinoza; massacrato prima verbalmente dal conduttore della trasmissione, poi mediaticamente sui social, e, infine, fisicamente bastonato ed ucciso sul pianerottolo di casa da una misteriosa folla sdegnata dal grave affronto fatto al popolo “che di giorno si spacca la schiena  e - alla sera, davanti alla tv – ha il diritto di rilassarsi e di non sentirsi inferiore”.
Poi lo scenario si ampia (non è il caso qui di sintetizzare i vari accadimenti) e, passando per una brutale piccola strage rivendicata dalle Brigate Beata Ignoranza, si arriva al censimento dei radical chic come primo passo di una vera e propria caccia all’intellettuale; poi all’introduzione di un Garante per la Semplificazione della Lingua Italiana, all’individuazione delle parole proibite (per rendere più semplice la vita e più piacevoli le nostre conversazioni), etc., secondo una sequenza non priva di trovate divertenti e malinconiche. Insomma: la cultura come fumosa nemica del popolo, nel tripudio di una sorta di orgogliosa ignoranza diffusa e benefica.
Questa è la sintesi brevissima del romanzo, del resto esso stesso non lungo (meno di 150 pagine). Per certi aspetti il libro sembra la sceneggiatura ironicamente drammatizzata di alcuni dei temi acutamente messi a fuoco da Tom Nichols nel libro (La conoscenza e i suoi nemici) di cui parlavamo qualche settimana fa (cfr. Letture, del 14 dicembre 2018).
Dicevo che lo scenario non ha i toni drammatici del romanzo di Orwell; ma un certo piglio se non profetico almeno monitorio ce l’ha e, anche per questo, se ne raccomanda la lettura, del resto assai piacevole.
Quanto al messaggio di fondo… speriamo fortemente che, per il presente, Giacomo Papi esageri; e che, dopo tutto, ciò che, talora, innegabilmente ci appare uno squinternato culto delle virtù primigenie di un popolo ignorante e dispregiatore di ogni complessità sia solo l’epifania mediatizzata di quell’eterna tensione fra la democrazia e le sue derive “oclocratiche”, che, dai tempi di Polibio a questi nostri di dilagata disintermediazione politica, costituisce il vero rischio di ogni democrazia liberale.
Roma, 16 febbraio 2019
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martedì 12 febbraio 2019

Spigolature del disorientamento / 2

L’oro del popolo
(di Felice Celato)
Dicevamo ieri che, in settimana, l’oro avrebbe occupato il campo del cacio (e del prezzo del sottostante latte ovino della Sardegna); dunque eccoci qua a parlare dell’oro!
In tempi men leggiadri e più feroci” l’oro del popolo veniva versato alla Patria: era il 1935 e, per sostenere i ruggiti bellicosi del Duce, tutti i cittadini (allora si diceva “tutti gli Italiani”) vennero chiamati a conferire (almeno) le fedi nuziali: pare che la “raccolta” (solo parzialmente spontanea, come molte cose di quei tempi) abbia fruttato una quarantina di tonnellate di oro. [La mitologia familiare vuole che la mia nonna materna, nonna Checca, vedova giovane e devota (a Dio, al marito e ai figli, e fors’anche alla Patria), si sia sottratta, con qualche sotterfugio, alla separazione dalla vèra nuziale donatale dal marito, scomparso assai prematuramente; povera nonna Checca: in ogni altra cosa così lontana da ogni forma di astuzia, eppure – figlia del popolo com’era – all'astuzia pare sia ricorsa per non anteporre la Patria al simbolo del suo amore!].
Ma i tempi cambiano: oggi va di moda l’inverso: l’oro della Patria (ci si riferisce, qui, alle oltre 2.500 tonnellate di oro facenti capo alle riserve auree della Banca d’Italia) torni ai cittadini! Ma non, come pure si era ventilato qualche anno fa, per rimborsare (in minima parte) il debito pubblico che ciascuno di essi ha sulle spalle [e che c’entra?! Quello è dello stato, mica del popolo!]; bensì per finanziare ulteriore spesa pubblica e, quindi (secondo la costante regola della politica Italiana che tanto bene, negli anni, ha arrecato alle nostre finanze), per “finanziare” ulteriore consenso per governanti del tempo.
Certo, l’oro è del popolo (ove mai esista un popolo)! Ma, si dà il caso, il famoso (e sempre sia lodato) popolo non può farne ciò che vuole; e non solo per evidenti ragioni di mercato (uffa! co’ ‘sto mercato!). Circa un anno fa (in tempi non sospetti, si direbbe), quello che era ed è tuttora – sia pure in prossima scadenza - il Direttore Generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, in un breve e piacevolissimo libro del quale consiglio a tutti la lettura (Oro, Edizioni il Mulino, 2018, disponibile in e-book), scriveva con esemplare chiarezza: La Banca d’Italia è, per la legge italiana, un istituto di diritto pubblico, che opera quindi nel pubblico interesse. Il diritto europeo e quello italiano le affidano il compito di essere la banca centrale dell’Italia nell’ambito del Sistema europeo di banche centrali. Ha la proprietà giuridica dell’oro, ma non può farne quello che vuole, non è come un ricco signore privato che possiede un gioiello. La gestione delle riserve auree deve rispettare le norme che regolano l’attività di una moderna banca centrale. In questo senso, da un punto di vista politico, in ultima analisi l’oro è del popolo: questo può sempre, attraverso le sue istituzioni rappresentative, cambiare le norme che disciplinano la banca centrale e la sua gestione delle riserve. Tenendo sempre presente l’adesione dell’Italia all’area dell’euro e gli obblighi che ne conseguono.
Già, si potrebbe agevolmente argomentare, ma il popolo è sovrano, almeno a casa sua, e può sempre fregarsene dell’euro e [de]gli obblighi che ne conseguono
Tutto vero (apparentemente). Non sarebbe la prima cosa della quale, come di tanto in tanto amiamo dire, ce ne freghiamo (o meglio: amiamo pensare di potercene fregare).
Però, per non perdere definitivamente il senso dell’orientamento (messo a dura prova dai giorni che viviamo), preferisco restare abbarbicato a quanto scrive Rossi (che qualcosa ne sa) a conclusione del suo libretto: Si potrebbe pensare… [forse, anche] a una politica di dismissione molto graduale delle riserve auree, che rispetti l’accordo fra le banche centrali e non turbi il mercato dell’oro. Con ciò vendendo tra l’altro a un prezzo che non determinerebbe per la Banca d’Italia (e quindi per lo Stato italiano, a cui in ultima analisi vanno i profitti netti della Banca) troppe perdite in conto capitale. È possibile? In teoria sì, in pratica no…..una «politica» di questo genere [inutile persino per ridurre significativamente il debito pubblico] non sarebbe occultabile al pubblico e svelerebbe l’intenzione italiana di liberarsi dell’oro, unico fra i paesi del mondo. Un segno di disperazione, che affretterebbe proprio quella crisi per fronteggiare la quale tutti detengono oro.
Vedremo...forse.
Roma 12 febbraio 2019

lunedì 11 febbraio 2019

Spigolature del disorientamento

La questione del cacio
(di Felice Celato)
Qualche giorno fa, nell’ultimo post, mi era sembrato di cogliere lo sgomento dei nostri giorni nella confusione mentale che – così mi pare – ci pervade e ci paralizza: chi siamo e dove vogliamo andare?
Si dirà che la domanda, in sé, ha una connotazione filosofica assai più profonda di quella, semmai, superficialmente evocata dal disagio per il contingente disorientamento della nostra cronaca esistenziale; una connotazione che, sub specie sapientiae, renderebbe del tutto sproporzionato il nostro interrogativo rispetto alle angustie per ciò che ci vediamo dattorno. 
E sarebbe difficile negare che l’obbiezione abbia più di un fondamento. In fondo, nel meraviglioso racconto della Genesi, la prima volta che Dio si rivolge direttamente ad Adamo (Dove sei?) non gli chiede – spiegava sant’Ambrogio – in quale luogo si fosse celato ma in quale condizione si fosse posto (Chi ti ha fatto sapere che sei nudo?), dove avesse nascosto la sua natura di creatura del sesto giorno, fatta ad immagine e somiglianza di Dio stesso; in altri termini: uomo, lo sai veramente chi sei e dove vuoi andare? 
Eppure, in piccolo, nel contesto transitorio del presente, la domanda (dove vogliamo andare?) seguita a riecheggiarmi nella mente, se non altro come sfondo inquietante di quel fenomeno che – non certo solo io e nemmeno da pochi giorni – abbiamo più volte indicato come degrado antropologico del nostro contesto vitale [N.B.: per la verità il Censis, in un volumetto, nientemeno che del 2012I valori degli Italiani, edito da Marsilio, ancora più crudamente parlava – pg 37 e sg. – di un disastro antropologico, fatto di crescita dell’aggressività minuta e diffusa, di mancanza del senso del futuro, di intrappolamento nel presente, di mancanza di orizzonti collettivi, di forme di insensatezza alle quali siamo tutti un po' assuefatti, etc.]
Bene: se ci siamo intesi sul più modesto senso della domanda, possiamo (…purtroppo) andare avanti col nostro mesto guardarci d’attorno.
Nel convulso contesto di questi giorni –  che offrirebbe molti spunti di scoramento (dovunque cerchiamo nemici, tutto e tutti giudichiamo con disprezzo, nulla ci interessa capire, perché per tutto abbiamo una contro-storia, solo il presente ci consuma di parole, etc.) – curiosamente e fortunatamente sono riuscito a lasciarmi distrarre da un episodio che tutto sommato  è rimasto marginale nelle cronache nazionali: la “rivolta” dei pastori sardi contro il prezzo (troppo basso) del latte di pecora. Forse se ne sarebbe parlato solo fugacemente se la vicenda non avesse, per qualche ora, “messo a rischio” anche lo svolgimento del campionato di calcio (pare che i giocatori del Cagliari, in partenza per Milano, siano stati “bloccati” per un po’, almeno finché non avessero espresso solidarietà coi pastori) ; o se la vicenda non fosse stata spettacolarizzata con le decine e decine di bidoni di latte sversati per strada per rendere più plastica l’ira dei pastori. Non so come (in fondo il fatto non è nemmeno nuovo né di per sé strabiliante, mentre di fatti strabilianti in questi giorni ce n’è stato più d’uno) ma la cronaca e le immagini della protesta sono riuscite, dicevo, a distrarmi dal resto. Ad attirare la mia attenzione, non è stato però il significato economico della vicenda (sul quale ci sarebbe molto da dire): l’enorme quantità del latte prodotto non ostante il prezzo non sia soddisfacente, la rigidità dell’offerta, il numero degli addetti, la dinamica dei costi e dei ricavi nella catena del valore del famoso pecorino romano (prodotto con latte sardo), gli eventuali nodi del marketing del prodotto finale, etc.; sarebbero state tutte questioni che, per la loro natura, avrebbero suscitato in me attenzioni di genere diverso da quello cronachistico. Invece due cose mi hanno mestamente colpito e, come si sarà capito, mi hanno ri-suscitato la domanda di prima (ma dove vogliamo andare?): la statolatrica richiesta di spostare contributi statali (?) dal parmigiano al pecorino e di fissare un prezzo minimo del latte di pecora sardo; e i rivi di latte che sono stati fatti scorrere per le strade come un malinconico fiotto di preziosa vita sprecata, per farsi sentire. 
La nuova settimana, appena iniziata, promette, però, un radicale cambio di argomento: dal cacio all’oro.
Roma 11 febbraio 2019 (90° anniversario dei Patti Lateranensi)

sabato 2 febbraio 2019

Numeri e numerini

Sabbie mobili
(di Felice Celato)
I “numerini” delineano con chiarezza quanto era già chiaro, almeno (per dirla col filosofo inglese Robert Scruton, già qui più volte citato) a noi “pessimisti assennati”; ma  anche, forse, agli “ottimisti con scrupoli”: l’Italia “recede” (o, se amate il linguaggio degli economisti, è in recessione), mentre il resto dell’Europa semplicemente rallenta, forse trattenendo il fiato sugli scenari mondiali (e suoi propri) non certo tranquillizzanti. Gli unici a non aspettarselo erano gli “ottimisti senza scrupoli”.
Spazziamo via ogni argomento politicante: non sono in discussione – qui ed ora – gli effetti dalla famosa “manovra di governo” (attenzione: effetti economici finanziari e sociali) che – semmai– di danni ne farà in futuro (non ha certo potuto farne nel secondo semestre del 2018, quando ancora non c’era!). Al riguardo, ovviamente, nel frattempo ognuno può porre in campo le aspettative che ritiene più fondate (c’è persino chi si aspetta un vero e proprio “boom” nello splendido 2019 che ci attende), adottando lo stance psicologico e culturale che gli è più consono (per natura o…. per posizione), per esempio secondo la gradazione Scrutoniana che dicevamo poche righe fa.
Ma non è nemmeno colpa della “precedente gestione” come usavano dire i cinesi del periodo post-maoista; o per lo meno non lo è immediatamente. Che l’Italia viva, da forse trent’anni, una crisi fatta di sluggish economy e fors’anche di smarrimento culturale e sociologico, è cosa nota; qui, del resto, abbiamo più volte “usurpato” (e fatto convintamente nostro) il concetto di degrado antropologico come risultante di tale smarrimento. Ma un timido accenno di tardivo e gracile recupero di una sequenza almeno positiva nello sviluppo del PIL reale c’era pur stato fra il 2015 e il 2017 (dati Eurostat) e anche nella prima metà del 2018.
Il problema, a parer mio, è un altro e più profondo. Il fatto vero – sempre secondo me – è che la sconfortante patologia dei nostri “numerini” nasce nella nostra testa, nella confusione mentale che agita la nostra auto-percezione nel presente; e, per conseguenza, oscura le nostre più realistiche  aspettative sul prossimo futuro: chi siamo e dove vogliamo andare? Siamo un piccolo paese geloso dei propri confini fisici e culturali, che detesta ogni vicino e da ogni vicino è, ad un tempo, invidiato e insidiato, come sarebbe un condomino che trova ragione di vita nel contendere rumorosamente su tutto e con tutti? O siamo ancora (e vogliamo ancora essere) una parte importante dell’Europa, che in Europa trova il luogo dove far sentire, nei modi appropriati, la sua voce di condomino della casa comune, interessato al decoro e al funzionamento delle parti comuni dell’edificio e dell’edificio nel suo complesso? Siamo una comunità custode del futuro proprio e di quello dei suoi figli o siamo una semplice comunanza di presentisti che tutt’al più, quando si sente lungimirante, traguarda il lontano obbiettivo delle elezioni del prossimo trimestre? Ci riconosciamo, in misura sufficientemente larga, nella serie concentrica di identità culturali e valoriali (italiane, europee, occidentali e giudaico-cristiane), aperte al mondo e al mondo attente, ovvero vogliamo rinserrarci nella dimensione più minuta dei nostri orizzonti, come fossimo valligiani interessati solo all’ora in cui tramonta il sole dietro il Resegone?
Ad alcuni, tali interrogativi sembreranno così lontani dal tema dei numerini di cui abbiamo iniziato a parlare, da far dubitare della sanità mentale di chi li formula. Ma, a parte la sempre possibile fondatezza di tale ultimo dubbio, io credo – l’abbiamo già detto su queste pagine – che la vitalità economica, la vivacità imprenditiva, la pulsione ad investire per creare ricchezza (e anche a consumare per sostenerla), siano, tutte insieme, il frutto di una percezione del presente sufficientemente chiara e di un’aspettativa del futuro sufficientemente solida. 
Se sei nelle sabbie mobili (o comunque ti senti affondare in una massa viscosa incapace di sorreggere il tuo peso) non pensi a cosa fare quando esci; tutt’al più ti affanni a cercare un appiglio per aggrapparti; oppure – come suggeriscono gli esperti di sabbie mobili – cerchi di fare spazio ai tuoi piedi per riuscire piano piano ad assumere una posizione orizzontale e quindi galleggiare finché non arrivi qualcuno a trascinarti fuori. Questa, secondo me, è l’inquietante attitudine dell’Italia che “recede”; e i numerini sono figli di questa attitudine.
Roma 2 febbraio 2019