lunedì 29 ottobre 2018

I "signori sul ponte" /2

Ex-sarcasmi autunnali
(di Felice Celato)
Da un amico lettore assiduo di questo blog, ricevo questo commento che (da lui autorizzato) brevemente vi sintetizzo per parlarne ancora: Caro F., so bene del tuo amore per un certo mite sarcasmo ma, mi pare, che tu, nel fondo, esprima, nel tuo post su i "signori sul ponte”, un profondo sconforto verso quella che io chiamerei la middle-class Italiana: confusa, superficiale, istintiva, emotiva. Non ti pare di esagerare? 
Bene; rispondo volentieri, così:
Caro M.,
tu sai bene, da uomo di buone letture, che la domanda “che fine ha fatto la borghesia?”se la sono posta osservatori del sociale e del politico ben più autorevoli di me: non a caso quella domanda ha dato il titolo ad un volume di riflessioni, pubblicato da Einaudi nel 2004, nel quale sono raccolti contributi di Massimo Cacciari, Giuseppe De Rita e Aldo Bonomi; e lo stesso De Rita, con Antonio Galdo, più recentemente (Einaudi, 2014) ha pubblicato un libro intitolato L’eclissi della borghesia. Le stesse Considerazioni generali del Censis (se ne veda la collezione, in Dappertutto e rasoterra, sempre di De Rita, Mondadori, 2018)  hanno dedicato ampi spazi (e felici espressioni lessicali) alla evoluzione/involuzione della nostra classe dirigente  (intesa in senso largo, non politico ma sociologico), da quella storicamente elitaria a quella economica, a quella socio-culturale cetomedizzata, per usare una delle tante invenzioni lessicali di De Rita.
Non sarò certo io, osservatore dilettante ma poco dilettato, a tentare altri concetti o a fornire altre chiavi di lettura di questo complesso fenomeno evolutivo che ci porta, oggi, a me pare, a non disporre più (uso anche qui un’espressione di De Rita) di una classe generale…capace di pensare il futuro senza rinserramenti nel presente o di interpretare e guidare la complessità del sistema e i suoi processi
Quello che, appunto da osservatore poco dilettato, mi pare di vedere è la devastante omogeneizzazione culturale che si è prodotta nell’ambiente in cui viviamo, tutti, tu ed io compresi ovviamente: siamo tutti portati, dal flusso incessante della comunicazione sul contingente, a perdere di vista l’orizzonte lungo del tempo che magari, inesorabilmente, ci sfugge quotidianamente ( fugit irreparabile tempus, dicevano i latini) ma che costituisce pur sempre il contesto vitale nel quale sono destinati a vivere i nostri figli e i nostri nipoti. E la nostra full immersion nel contingente ci porta, ogni giorno impercettibilmente, sempre più vicino agli stilemi del “pensiero” corrente, come se fosse verità delle cose quella che corre veloce sui nostri giornali, sui nostri media, sui nostri discorsi quotidiani.
Non voglio dire che nulla resterà di quanto alimenta tali stilemi; voglio solo dire che certi punti fermi delle nostre esperienze e delle nostre convinzioni ( e dei nostri valori civici) non devono vacillare ad ogni vento che soffia; e che ci spetta di difenderli, anche proteggendoli dagli inquinamenti del quotidiano (abbiamo bisogno di ardore, di qualcosa che brucia dentro di noi, dice benissimo De Rita). Ti faccio alcuni esempi delle eclissi di senso lungo che hanno animato i miei miti sarcasmi (dici miti perché sai che senza la mediazione della scrittura faccio di peggio!): il valore della buona amministrazione delle entrate e delle uscite dello stato (come fosse quella della nostra famiglia, con rigore e responsabilità verso la casa comune), la delicatezza della normazione (nella sequenza valore – principio – norma, che esige saggezza, astrattezza, generalità e stabilità), la forza dell’intraprendenza e la complessità degli apparati produttivi (nella sequenza bisogni – mercato – prodotti e servizi) e più in generale dell’attività economica (che ha le sue durezze come contropartita dei benefici che determina); in poche parole: la complessità della realtà (specie di quella meta-nazionale dalla quale siamo necessariamente dipendenti, noi piccolo paese provinciale dalla debole cultura)  che si ribella alle semplificazioni di chi ritiene di tutto poter banalizzare, di tutto poter piegare alle esigenze del quotidiano, in un’incessante rincorsa verso il breve respiro.
Ecco, caro M., che cosa mi rende apparentemente aspro nei confronti dei nostri tempi e dei nostri supini atteggiamenti verso gli stessi; specie quando vengono da aree della società nelle quali dovrebbe essere depositata la massima concentrazione del suo capitale umano(*) che non abbiamo il diritto di disperdere per pigrizia o acquiescenza mentale.
Roma 29 ottobre 2018

(*) Capitale umano (dal Dizionario di Economia e Finanza Treccani): Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute in genere dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica, ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate dal soggetto che le ha acquisite. 

domenica 28 ottobre 2018

I “signori sul ponte” / 1

Sarcasmi d’autunno
(di Felice Celato)
L’abbiamo già citata, qui, questa bellissima massima di Seneca: Ignoranti quem portum petat, nullus suus ventus est (nessun vento è favorevole a chi non sa verso dove dirigersi); e l’abbiamo citata un paio di anni fa, quando ci pareva (ed ex post non avevamo del tutto torto) che l’Italia (in particolare) non sapesse dove andare. Ma parlando, come è (purtroppo) inevitabile di questi tempi, di politiche e di attese pubbliche di tutti e di ciascuno di noi, mi è tornata in mente, in un’accezione stavolta....democratica: ma gli italiani - per quel poco che di loro possa capirne io - che cosa vogliono? Verso quale porto intenderebbero dirigere la rotta, se solo potessero decidere loro?
Sgombriamo il campo da un possibile equivoco: in un paese come il nostro, socialmente malmesso, non c’è da meravigliarsi che ci siano larghe sacche di persone che, della barca comune, purtroppo, conoscono solo la stiva, il buio interno della carena: devono quotidianamente vigilare che all’interno di essa non si insinui  dell’acqua, che non li sommerga qualche ondata che venga giù dal boccaporto, devono sempre essere pronti ai remi se il vento cala o cambia direzione. A loro va tutta la mia solidarietà e comprensione: dalle follie della barca, a loro non possono che venire fatiche e dolori, spesso terribili le prime, sempre ingiusti i secondi; ma non a loro si rivolge la mia domanda: dal buio della stiva non si vede alcuna rotta e non si coglie la direzione dei venti. Ma coloro che stanno sul ponte, non dico i comandanti che siedono in plancia, ma i comodi viaggiatori che (spesso senza meritarlo) vedono anche il cielo e la direzione della barca, questi signori che stanno sul ponte, che direzione vorrebbero che avesse la barca che li porta? Questi “signori” che leggono il giornale e guardano i talk show, parlano di politica quando sono fra loro, che possono parlare, e magari lamentarsi, direttamente coi comandanti, che non hanno difficilissime situazioni da fronteggiare quotidianamente e che - dunque - dovrebbero avere la mente più attenta al viaggio; questi - diciamolo: fortunati -  signori, che vorrebbero dal loro viaggio, loro che – dal ponte – possono capirne la direzione e stimarne i venti?
Bene: credetemi, non ostante abbia la fortuna di conoscere menti non impigrite dal tempo e cuori non resi insensibili dall’età, io non ho capito che cosa vogliono.
Generalmente quasi tutti vogliono più stato, più ordine, più regole (di solito puntuali, secondo le esigenze del giorno); molti addirittura uno stato che sappia farsi tutto a tutti,  ma – beninteso –con le risorse degli altri (i prestatori terzi; perché, quando lor signori sono anche prestatori, il valore del loro credito lo vogliono protetto, dallo stato naturalmente, con risorse di terzi, ovviamente); sono disposti, talora, a pagare le imposte, purché siano poche e (giustamente) non vengano disperse. Poi vogliono più Europa (a parole, molti sono veri europeisti!), che ci guidi, non ci abbandoni, ci soccorra, che ci regoli con regole sagge, ma ci lasci liberi di violarle quando ci garba (anche se le abbiamo approvate noi e anche messe in Costituzione); e, per l’Europa, sono disposti a mettere a disposizione i propri uomini (o donne) migliori (beh! non esageriamo, magari una seconda o terza scelta, perché - giustamente - i migliori li vogliono più vicini e più operosi, per il bene diretto del Paese. Se poi qualche volta riescono a mandarci qualcuno di valore, in ruoli chiave, allora si riservano di pretendere di controllarlo e di spubblicarlo se dice qualcosa che non ci aggrada). 
Poi, i signori sul ponte vogliono, naturalmente, la piena occupazione, ché non si dica che se ne fregano di quelli che stanno nella stiva. E quindi sono per l’agricoltura, rigorosamente bio, però (il green, si sa, piace sempre); per il turismo (senza affollamenti, però, perché disturbano); per l’industria e per i servizi, anche, perché, in fondo, lo stato proprio tutto non può arrivare a fare; sì, molte assunzioni (sempre con le risorse degli altri) di insegnanti, militari, impiegati delle pubbliche amministrazioni, etc., ma bisogna convenire che potrebbero non bastare per assorbire le masse disoccupate. E, ovviamente, un’industria che funzioni, non sporchi, non guasti il paesaggio, non turbi la balneazione, non faccia rumore, si localizzi dove dice lo stato, generi lavoratori felici, produca prodotti eccezionali (che tutto il mondo è tenuto ad invidiarci) e anche profitti (non troppi però, perché, si sa, il troppo storpia); e, naturalmente, i profitti vanno obbligatoriamente re-investiti, ci mancherebbe altro!
Infine i signori del ponte vorrebbero che, finalmente, ci fosse riconosciuto, ovunque, il prestigio che meritiamo (perché siamo intelligenti, le nostre idee sono sempre le migliori, da noi si vive bene, l’Italia è il paese più bello del mondo, le nostre città, poi, non ne parliamo - se solo emergono dalla monnezza-, il nostro parmigiano è eccelso, come i vini, la pizza etc).
Ecco, per tornare a Seneca: questo è il porto  verso cui la nostra barca deve far vela, per i signori sul ponte. E se il vento non è favorevole, se le vele non si gonfiano, pazienza, ci sono sempre i rematori, giù nella stiva!
Roma 28 ottobre 2018 
P.S. : mi sono dilungato un po’ troppo; ma che volete, mi piace tanto fare il sarcastico…




martedì 23 ottobre 2018

Diatribe

Uno stato leggero
(di Felice Celato)
Più mi capita di discutere, anche animatamente, con amici coi quali, in tanti anni di vita, ho condiviso tutto - punti  di riferimento spirituali, valori umani, civili e personali, molte esperienze di vita e....molti chili di sale mangiati assieme  - più mi accorgo di quanto, nel tempo e non ostante tutto ciò, si sia fatto diverso fra noi il senso di ciò che ci aspettiamo dallo stato, per ora nella sua dimensione nazionale blandamente europeizzata, in futuro - speriamo vivamente - in una dimensione meta-nazionale e assai più decisamente europea.
Questa constatazione – che forse dà il senso di un’inquieta vecchiaia – mi ha indotto ad allineare in poco più di 600 parole le mie convinzioni al riguardo.
Bene: io credo in uno stato leggero e aperto al mondo, che sappia  minimizzare le sue intrusioni nella vita dei cittadini, che non pretenda di  sovrapporre le sue visioni della vita - quand’anche democraticamente supportate - a quelle che ciascuno di noi è titolato a liberamente coltivare, per suo conto nella sua propria vita sulla base dei suoi valori; che, secondo diritto (la rule of law), sappia adempiere  con efficienza ai suoi tanti ruoli essenziali (difesa, giustizia, ordine pubblico, tutela dei più deboli, ambiente, istruzione e sanità di base, tassazione, protezione dei liberi scambi) rivolgendo ai cittadini norme chiare e costanti nel tempo e che assicurino loro la “certezza del diritto”; che voglia favorire ogni attività finalizzata a creare benessere collettivo ed individuale, senza pretendere, in principio, di erogare alcuno dei servizi o dei prodotti attraverso i quali, quel benessere, prima si genera e, poi, si distribuisce (grazie alla natura progressiva della tassazione, ovviamente con intenti ridistribuivi); che sappia esercitare il dovuto controllo sulle attività che eventualmente dovesse (essere costretto ad) affidare in gestione per rispondere ad esigenze particolari per le  quali il mercato non abbia espresso soluzioni soddisfacenti (compresi gli ambiti educativi, sanitari e anche di welfare); che sappia garantire un elevato grado di apertura al mondo per vivificare la  cultura e (nella contingenza Italiana) contenere il declino demografico della sua collettività.
Uno stato leggero non vuol dire né uno stato debole (un regolatore può anche essere vigoroso – se la sua ambizione è questa – almeno fino al limite in cui non si trasforma in distruttore di ciò che dovrebbe solo regolare), né - tanto meno - uno stato assente o distratto (sono già così tante e complesse le attività sue proprie che, al contrario, si “distrarrebbe” se si occupasse delle altre); vuol dire invece uno stato non ipertrofico (Bedeschi) che sia costantemente conscio di essere uno strumento e non un fine: lo stato è per l’uomo e non l’uomo per lo stato; vuol dire uno stato che, per funzionare, richieda non meno ma più politica (Capaldo) ma meno narrazioni e più concretezza; non meno austerità ma più responsabilità (De Romanis).
Uscendo da livelli tanto generali (filosofici, direi, conscio che altri possano definirli fumosi) e scendendo verso gli aspri lidi del presente, io credo che l’Italia abbia tre fondamentali urgenze che, tuttavia, mostra di voler ignorare: dissipare l’insopportabile cappa di rancore (De Rita) che grava sulla nostra società; risvegliare le capacità degli Italiani, la loro vitalità, la loro produttività, se si vuole anche resuscitando il forte scheletro contadino della loro storia (De Rita); sgretolare, una volta per tutte o progressivamente ma  con costante determinazione, il macigno (Cottarelli) o la palla al piede (Capaldo) che ci paralizza, attraverso un debito pubblico che assorbe risorse (per il suo servizio) e che mina ogni capacità di intervento dello stato, quand’anche  (per inatteso assurdo)  esso già si conformasse alla mia....alleggerita configurazione.
Mi rendo conto che queste idee – sia quelle generali che quelle più legate al nostro contingente – tendono a confliggere con lo spirito dei tempi su questi nostri lidi italiani; la cosa non mi sorprende e, quel che è peggio, non mi dispiace affatto: ho a lungo riflettuto su quale possa essere il peso relativo dello stato nei confronti di cittadini liberi ed uguali e resto convinto che l’uomo è il valore fondamentale e vale più di ogni struttura sociale alla quale partecipa (Benedetto XVI).
Roma, 23 ottobre 2018



domenica 21 ottobre 2018

Il gas verbale

Vanità e retorica
(di Felice Celato)
Che fra vanità e retorica ci sia una relazione quasi filiale me l’ha, per la verità, in qualche modo suggerito Edgar Ansel Mowrer, un giornalista americano di quasi cento anni fa, ampiamente citato nel libro che sto leggendo e sul quale ritorneremo a lettura ultimata (di Emilio Gentile, In Italia ai tempi di Mussolini, Mondadori, 2018). Mowrer era uno dei tanti “viaggiatori” innamorati dell’Italia (già il solo titolo del suo libro dice tutto: Immortal Italy, scritto nel 1921); ma questo non gli impediva (come invece avviene a tanti di noi) di vedere con chiarezza anche i difetti dei nostri concittadini, che – guarda caso – secondo me sono rimasti proprio tali, anzi – ove possibile – si sono aggravati; ne tralascio alcuni (uno lo metto da parte con dolore, perché è anche un mio “cavallo di battaglia”: il loro atteggiamento verso lo Stato, inteso -dice Mowrer- come La Mucca Sacra) per soffermarmi sui due più vicini al nostro tema: la vanità, la dipendenza da vuote parole e lo smodato piacere di sentirsi parlare; e l’amore per la retorica, per l’autocelebrazione della… propria superiorità nei confronti delle altre nazioni.
Bene: muovendo da questa occasionale citazione, ho cercato di ragionare su vanità e retorica (un gas verbale, diceva Mowrer, per effetto del quale, già all’inizio del secolo scorso, gli Italiani non furono più capaci di distinguere i fatti dalla finzione); e mi sono convinto della loro strettissima parentela (almeno in politica).
La vanità, a dire il vero, potrebbe ben figurare fra le parole desuete o sfarinate dal tempo, anche se non è proprio scomparsa dai nostri discorsi (come è accaduto alla temperanza); si è però per lo più incistata nei sensi legati al costume esteriore, alla moda o alla bellezza nelle loro diverse manifestazioni. Il  Vocabolario Treccani ne dà questa definizione, che riflette anche questo più contemporaneo uso lessicale: leggerezza di carattere che porta a trattare le cose serie con frivolezza e le cose frivole con più serietà che non meritino; ma anche, ostentazione di un’alta opinione di sé stessi, dei propri meriti, delle proprie doti fisiche. Però, mi pare, lungo questo filone lessicale si è venuto perdendo il senso più profondo della parola; non tanto, per intenderci, quello cui allude l’Ecclesiaste che si apre e si chiude col noto verso Vanitas vanitum et omnia vanitas; ma, senza andare così lontano (o se volete: anche senza volare così alto, verso temi di connotazione esistenziale), credo che raramente si senta qualificare come vanità quella inversione di cure, di peso, fra cose serie e cose frivole, della quale tanto spesso ci capita di ravvisare le impronte evidenti nel comune parlare, non solo dei cittadini ma, tanto più spesso, dei loro cosiddetti leaders.
In fondo, la miriade di leggerezze con le quali si sentono trattare temi altamente seri e direttamente incidenti sulla vita di ciascuno è proprio una manifestazione di vanità del parlare; spesso congiunta con uno smodato piacere del sentirsi parlare o con l’ostentazione di un’alta opinione di sé stessi che, inevitabilmente, sottovaluta l’intelligenza di chi ascolta. Si noterà come, già qui, la vanità del pubblico parlare tende ad assorbire (direi di più: a servire) le esigenze di una retorica politica che, naturalmente, abbisogna di semplificazioni e di fascinazioni (si direbbe oggi: di narrazioni) destinate alla (banalizzata) cattura del (provvisorio) consenso (sempre Treccani: retorica= fra gli altri significati *, modo di…parlare ampolloso e risonante, enfatico e sostanzialmente vuoto, privo o povero di impegno intellettuale, civile e morale). 
In fondo vanità e retorica, quando servono a trattare le cose serie con frivolezza e le cose frivole con più serietà che non meritino, sono le facce di una stessa medaglia che potremmo definire la medaglia della comunicazione decettiva (sempre Treccani: decettivo = ingannevole, che trae o può trarre in inganno e indurre in errore).
Per uscire dal generico, suggerisco un esercizio: considerate attentamente – nell’enunciato e negli effetti attesi (e magari conseguiti) – un “discorso” di un politico, non importa se di governo o di opposizione (per esempio a proposito di spread, di rating, di debito pubblico, di investimenti, etc); e provate, se ci riuscite, a discernere fra vanità del parlare e semplici artifizi retorici. Anzi provate a domandarvi se, ubriacati dal gas verbale,”loro” sappiano bene di che cosa parlano e di che effetti ha ciò che menzionano (magari irridenti) sulla vita dei cittadini (loro elettori); e, questi, se, in fondo, non acconsentano, con acritico gusto del sentir parlare, magari con inutile vigoria, al proprio disimpegno intellettuale, civile e morale.
Roma 21 ottobre 2018

(*) Per carità, so bene che la retorica è anche un’arte preziosa; ma anche la pittura è un’arte preziosa, eppure detesto gli imbrattamuri!



lunedì 15 ottobre 2018

Anniversari

16 ottobre 1943
(di Felice Celato)
Spesso nelle mie camminate urbane e comunque ogni domenica per andare a messa, attraverso il ”ghetto” romano, da Piazza delle cinque Scole, fino a Piazza Mattei, passando per via del Portico d’Ottavia e  via della Reginella. Lungo il percorso si contano a decine le Stolpersteine, le Pietre d’inciampo (piccoli blocchi di porfido ricoperti di ottone), che ricordano le singole persone  (più di mille ebrei, di ogni età) prelevate dalle loro case e deportate (ad Auschwitz) quel sabato 16 ottobre di soli 75 anni fa. Non viene dalle profondità del tempo, questa memoria, non era basso impero romano o alto medioevo, quel giorno di soli 75 anni fa, quando il “sonno” della ragione si fece – anche da noi –  orrore dell’uomo; ma dalla profondità del male, che, come il bacillo della peste di Bernard Rieux, non muore né scompare mai… sempre pronto a svegliare i suoi topi e mandarli a morire in una città felice (dal finale de La peste di A. Camus).
In ricordo di quella giornata, vergogna della storia dell’uomo, del popolo Tedesco e di quello Italiano (che a lungo gli tenne dietro), vale la pena di rileggere qualche passo del discorso che Benedetto XVI, “il papa Tedesco”, in visita (2006) al campo di Auschwitz (dove furono atrocemente spente quasi tutte le vite dei deportati di Roma): Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui [Giovanni Paolo II]: Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco – figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell'onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell'intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. 
Sì, non potevo non venire qui.  Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male? Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell'Israele sofferente: “…Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose… Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore? Dèstati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia!” (Sal 44,20.23-27).
Questo grido d'angoscia che l'Israele sofferente eleva a Dio in periodi di estrema angustia, è al contempo il grido d'aiuto di tutti coloro che nel corso della storia – ieri, oggi e domani – soffrono per amor di Dio, per amor della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi.
Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l'uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No – in definitiva, dobbiamo rimanere con l'umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l'uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell'egoismo, della paura degli uomini, dell'indifferenza e dell'opportunismo. 
Rimangano sempre lucide, le Pietre d’inciampo nelle strade del Ghetto e nelle nostre menti, a perenne monito contro i sonni della ragione!
Roma 15 ottobre 2018

venerdì 12 ottobre 2018

Parole desuete

Temperanza
(di Felice Celato)
Noi clericali (e anziani), forse, ricordiamo qualcosa dei desueti insegnamenti della nostra remota formazione religiosa di base, quando, accanto alle tre virtù teologali (fede, speranza e carità), senza dar spazio all’oggi tanto decantato dialogo, ci venivano bruscamente (e santamente!) propinate - come regole dei nostri comportamenti - le (allora) famose quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
Mentre, credo, tutti, più o meno, ricordiamo con chiarezza il significato di prudenza, di giustizia e di fortezza (ho detto “ricordiamo”, che non significa affatto “pratichiamo”), mi viene il dubbio che della temperanza abbiamo, tutt’al più, conservato una memoria parziale; direbbe un mio rinomato predicatore, fermandoci alle virtù da praticarsi ...dalla cintola in giù.
Eppure, ovviamente, la temperanza è una virtù che investe l’uomo intero, essendo, sì, anche la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri (lato sensu)ma soprattutto la virtù che assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. Così, la persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore (dal Catechismo della Chiesa Cattolica, paragrafo 1809). Starei per dire, dunque, che la temperanza è (anche) una virtù sociale, forse anche politica, perché, naturalmente mira a con-temperare, attraverso l’auto-limitazione degli istinti individuali, i desideri di tutti; non sulla base della forza, nemmeno di (temporanee) maggioranze, ma del bene comune, inteso come il canone unico (peraltro non privo di profili problematici) che rende tollerabile la limitazione delle libertà individuali ovviamente necessaria a qualunque democrazia (colui che ha delegato ad altri il proprio potere può essere libero se riconosce se stesso – cioè il proprio bene – nel bene comune perseguito da coloro che esercitano il potere, scriveva oltre un quarto di secolo fa J. Ratzinger, Liberare la libertà, Cantagalli 2018, pg. 111)
Mai come in questi nostri tempi rumorosi, si sente l’acuto bisogno della temperanza come virtù politica. Sabino Cassese (in un magnifico articolo di ieri, sul Corriere della sera, dedicato a qualche in-temperanza "politica" di questi giorni) ha opportunamente disseppellito (dalle poco frequentate reminiscenze della tragedia greca) il termine hybris per dire della tracotanza che spesso colora di vanagloria (Oh vana gloria delle umane posse! Dante, Purg. XI, 91) il dilatato senso del potere esercitato dalle maggioranze in nome del popolo.
Ecco: la temperanza è il contrappeso della tracotanza; ne costituisce – al di là dei suoi significati etici – il saggio moderatore politico, necessario per il tiranno che non voglia essere odiato dai sudditi ma anche per il democratico detentore di un potere che viene dalla maggioranza che, pro-tempore, gli ha delegato il potere del governo della comunità; che non è – sottolinea Cassese – il potere sullo Stato.
Si dirà che la temperanza, come ogni virtù, è difficile sempre, a livello prima di tutto individuale (chi scrive, per esempio, sa bene di essere spesso un intemperante, intellettuale prima che verbale; e anche se ne duole, però); ma in particolare quando si applica a chi esercita una potestà che presume di avere (e spesso ha) urgenze alle quali rispondere dando esempio (o solo segni?) di capacità, di determinazione o anche solo di leadership. In fondo uno dei connotati essenziali della democrazia è la intrinseca temporaneità della delega al governo, affidata dal (famoso) popolo e dal (famoso) popolo inevitabilmente giudicata di tempo in tempo. Ma proprio per questo la desueta temperanza, in politica e soprattutto in democrazia, postula la coscienza del tempo e dei limiti: finita la delega, magari ricomposte maggioranze e minoranze secondo nuove aggregazioni, restano la convivenza e gli strumenti che la rendono possibile (lo stato, il diritto, il bene comune).
Roma  12 ottobre 2018 (526° anniversario della “scoperta” dell’America)

sabato 6 ottobre 2018

Letture

L’emigrazione Italiana negli Stati Uniti
(di Felice Celato)
Eccomi qua, di nuovo con una lettura (che a me è parsa) molto interessante, e anche…istruttiva.
Si tratta del libro L’emigrazione Italiana negli Stati Uniti, scritto da un giovane storico Italiano, Matteo Pretelli, nel 2011 (e pubblicato da Il Mulino).
I motivi per i quali mi sono avventurato in questa densa lettura (peraltro chiarissima e anche piacevole, come può esserlo un libro di storia pieno di dati e di notizie) sono essenzialmente due: anzitutto perché l’immigrazione Italiana negli USA ha, in un lontanissimo passato (1909), coinvolto il mio nonno materno, nonno Checco, che non ho conosciuto direttamente (morì infatti ben prima che io nascessi e quando mia madre aveva appena 4 anni) ma della cui personalità a lungo mi parlava la sua vedova, mia nonna, che poi, da sola, ha tirato avanti la sua famiglia assicurando ai figli un relativo benessere e anche una discreta istruzione. Il sito di Ellis Island mi ha consentito di rintracciare le carte del suo sbarco – aveva appena 24 anni e non credo avesse un grado di istruzione più che elementare –  e anche di conseguire la bella foto della nave (The Europa) che – insieme a tanti emigranti economici italiani – lo aveva trasportato da Napoli a New York, partendo dalla natia Umbria. Andò a fare il minatore in Pennsylvania e morì, una volta tornato in Italia con un piccolo gruzzoletto, per una malattia connessa al suo lavoro, che gli impedì di godersi a lungo il frutto (qualche ettaro di terreno in Umbria) delle sue fatiche americane. Il secondo motivo della lettura è stato, invece, di natura meno personale e più attuale, e mi è stato suggerito dalla voglia di documentarmi su una delle tante sciocchezze che così frequentemente si sentono sulla bocca di persone spesso anche (formalmente) istruite: “gli Italiani migravano per lavorare non per delinquere come delinquono tanti immigrati a casa nostra oggi!”
Bene: il libro di Pretelli è, come dicevo, un libro di storia, molto documentato e denso di analisi e, nel suo complesso, dà dell’immigrazione Italiana negli Usa un’immagine a tutto tondo, ricca delle tante sfaccettature anche "gloriose", senza peraltro tacere dei pochi ma rilevanti aspetti che, in America, hanno creato lo stereotipo dell’immigrato Italiano mafioso o comunque dedito alla delinquenza (etnicamente) organizzata. Riferisce, Pretelli, di una conversazione telefonica intercettata in cui il 37° Presidente degli Stati Uniti, Richard  Nixon (1969-74, dunque….molti anni dopo che mio nonno era tornato in Italia!), non esitò a parlare della presunta impossibilità di trovare un italoamericano onesto. Ma anche prima (soprattutto fra gli anni ’20 e ’50), come sappiamo tutti, nomi come Lucky Luciano, Al Capone, Frank Costello, Vito Genovese, Albert Anastasia, Charles Gambino, etc., non si può dire che abbiano contribuito a migliorare lo stereotipo, del resto coltivato anche in tanti film di successo di grandi registi, anch’essi spesso Italoamericani (Francis Coppola, de Il Padrino, tanto per fare un esempio).
Eppure, ciò non ostante, il fenomeno migratorio Italiano negli USA non mancò di costituire la base per un’integrazione che – stereotipi a parte – rappresenta pur sempre, nel suo complesso, una storia di successo: al di là dei tanti americani di origine Italiana che si sono fatti strada in America, anche in politica (da Fiorello LaGuardia a Mario Cuomo, da Rudoph Giuliani a Nancy Pelosi, solo per nominarne alcuni), mi ha molto colpito un dato: nel 2000 il livello medio di istruzione degli americani di origine Italiana (quasi 10 milioni, quelli con 25 o più anni di età) è risultato superiore a quello medio dell’intera popolazione residente negli USA (e, mi pare di ricordare, anche a quello degli Italiani restati in Italia), addirittura con una quasi equivalenza fra sesso femminile e maschile. Nel 2001, inoltre, un sondaggio ha messo in luce come quasi l’80% degli americani ha un’opinione molto favorevole o prevalentemente favorevole dell’Italia.
Concludo: il libro di cui abbiamo brevemente parlato (e dal quale, ovviamente, ho estratto dati e fatti sopra citati) merita di essere letto e, magari, anche consigliato a qualcuno.
Roma, 6 ottobre 2018



venerdì 5 ottobre 2018

Stupi-diario delle percezioni

Come è facile capire male
(di Felice Celato)
Come sanno i lettori di questo blog, la realtà percepita e i suoi drammatici scostamenti dalla realtà tout-court da molto tempo turbano il mio rapporto coi miei concittadini. Mi pare cioè che, in particolare nel nostro paese (Perception Index, Ipsos, 2018), la realtà dei fatti, misurata nelle forme adeguate, sia stata definitivamente travolta dal fascino delle individuali e collettive percezioni del reale, sicché molto raramente siamo in grado di attribuire a ciascun fenomeno (mi riferisco qui a quelli sociali) la dimensione appropriata. Si dirà: ma che cosa ti importa delle dimensioni appropriate dei fenomeni sociali, visto che, in fondo, il cittadino vive, giudica (e vota) in base ai suoi personali metri di misura di ciò che lo circonda? Confesso che questa domanda contiene un certo grado di saggezza, almeno, per così dire, politica: forse la battaglia per la realtà tout-court è, da noi, politicamente persa. Ma la lunga frequentazione con le esigenze della misurazione dei fenomeni (economici, finanziari, sociali etc) mi fa ronzare sempre in testa queste due evidenze (forse qui già enunciate): un bicchiere d’acqua disseta, un’alluvione travolge; se mi punge un’ape posso sentire per un po' un certo fastidio, ma se è un intero sciame ad avventarmisi contro…il fastidio lo sentirò… per poco, poi non sentirò più nulla (per sempre). E dunque, mi dico sempre, la dimensione dei fenomeni è (almeno nelle cose che regolano la convivenza) assai più importante della loro semplice natura.
Bene: su questo assunto, oggi, il cuore mi è balzato in gola nel leggere un numero (fonte Coldiretti) che – a prima vista – spiegava tutto del nostro paese (e non solo del nostro, per la verità): gli asini, almeno in Italia, sono aumentati negli ultimi 10 anni del 377%! Un tasso di crescita, mi sono detto da finanziario, di quasi il 17% annuo (ovviamente: composto)!
Ecco qua, sempre mi sono detto con tutta la superficialità del primo esame: ora capisco tutto!
Mai però fermarsi al puro numero (anche questo è l’imperdonabile vizio di chi coi numeri ha poca confidenza). Infatti, andando avanti nella lettura, ho appreso che, ad oggi, gli asini “residenti” in Italia sarebbero 62.000; dunque, più o meno, 1 ogni 1.000 Italiani. Solo? Strano, mi pareva di percepire che fossero assai di più! Stavo già per lamentarmi con me stesso per essere, proprio io, evidentemente caduto in una deprecabile iperpercezione, quando, finalmente, mi si è svelato il mistero: la Coldiretti si riferisce agli asini intesi come animali (Equus asinus); tant’è vero che, sempre la Coldiretti (fonte: Newsletter Rep di oggi) precisa così le ragioni della straordinaria crescita: la riscoperta delle qualità nutrizionali [e questo fuga ogni dubbio] e delle proprietà cosmetiche del latte e il carattere mansueto e amichevole degli asini [anche questo chiarisce definitivamente l’equivoco in cui ero caduto a prima vista, perché gli asini cui pensavo io sono tutt’altro che mansueti!] usati anche per l’onoterapia e il turismo.
Come è facile ingannarsi, quando si hanno pregiudizi! Vorrà dire che, per conformarmi alla giusta soddisfazione della Coldiretti, la prima volta che vado in un ristorante, ordinerò una bella bistecca di asino, senza tema di sentirmi un cannibale.
Roma 5 ottobre 2018
P.S. Che non si dica, poi, che non mi va mai di scherzare! Ho persino dato vita, da tempo, a questa rubrichetta un po' folle (lo Stupi-diario) per sorridere di me e di ciò che ci circonda! Anzi, ho una vera nostalgia di qualche sorriso.


giovedì 4 ottobre 2018

San Francesco d'Assisi

Il perdono (e la democrazia)
(di Felice Celato)
Della mia personale affezione verso questo grande santo della storia (della Chiesa intera, del nostro Paese e anche della mia famiglia), i miei lettori già sanno; e non mi pare il caso di ritornarci ancora una volta. Di San Francesco, del resto, hanno detto in tanti, ben più ispirati e sapienti di me, da Dante e Giotto (e scusate se è poco!), coi loro linguaggi tanto simili, fino ai dì nostri.
Mi piace ora ricordarlo per una festa francescana che conobbi tanti anni fa, quando d’estate, con la mia famiglia d’origine, passavo il mese di agosto in Umbria: la festa del perdono, che ogni anno si celebra ad Assisi (anzi alla Porziuncola di Santa Maria degli Angeli) il 2 agosto. Ad essa sono legati ricordi personali che non è il caso di descrivere in questa sede… un po' mondana; e tuttavia oggi, nel nome di Francesco, mi è tornata in mente con forza per la semplicità e l’imponenza del suo titolo: la festa del perdono; e per la sua perenne (ed espansiva) attualità. 
Io credo ancora che di perdono abbiamo bisogno noi tutti; non solo come persone - nei confronti del Padre (per chi Lo riconosce) e dei fratelli - ma come umana collettività che, oggi, sembra votata a nulla perdonarsi; anzi a tutto reciprocamente rimproverarsi, spesso con rabbia, con focoso disprezzo dell’uno per l’altro, che tutto trasforma in colpa degli altri e di tutto assolve ciascuno di noi.
Siamo fatti così o così siamo via via diventati nel tempo che non conosce più la coscienza? Forse sono vere entrambe le cose: così siamo fatti, dai tempi di Caino, perché uomini; ma così siamo anche un po' diventati, via via che della coscienza abbiamo fatto “un semplice sfondo su cui la società dei media getta le immagini e gli impulsi più contraddittori”, dimenticando che essa è anzitutto “atto della ragione mirante alla verità delle cose” (Benedetto XVI, 24 febbraio 2007, Discorso ai membri della Pontificia Accademia per la Vita). [Qui il discorso si farebbe lungo ma lo rinviamo ad altra occasione].
Forse una società che ha scelto di amministrarsi attraverso la democrazia – che è (anche) alternanza nel reggimento della comunità – ha bisogno di una dimensione sociologica del perdono più di ogni altra, perché – in essa democrazia - il “potere” è affidato alla volontà delle maggioranze. E queste via via si compongono in forme, con parole, con concetti e sentimenti, che variano nel tempo, senza che ne varino, nel profondo, i portatori, magari fra loro di tempo in tempo diversamente aggregati, nell’esercizio maggioritario destinato, inevitabilmente, a scomporsi in minoranze perennemente transitorie. Forse la democrazia postula necessariamente il perdono, non solo come individuale disposizione dell’animo ma soprattutto come sentire collettivo (in dimensione sociologica, appunto), perché senza di esso non ci sarebbe la continuità della comunità: una comunità fondata sul rancore ha in sé tutti i germi della propria dissoluzione come comunità. Sarebbe bene che lo avessimo presente, tutti i giorni, quand’anche fossimo ogni giorno chiamati (o spinti) ad aggregarci in base alla nostra opinione sul bene comune, che, anche la nostra, come ogni collettività, è tenuta a perseguire; cioè (questo è il concetto di bene comune) sul canone che fissa i limiti delle libertà individuali, anch’esse, insieme all’eguaglianza, pilastro della democrazia.
Anche qui il discorso si farebbe lungo; ed anche qui, per il momento, soprassediamo; siamo già andati, forse, troppo lontano, con questa riflessione sulla dimensione sociologica del perdono; o forse siamo venuti estraendo da questo pilastro della spiritualità francescana (il perdono) un senso che poteva anche essere solo implicato nel pensiero espresso del grande santo italiano. E tuttavia, oggi, festa di san Francesco, mi è parso naturale (perché questi sono i tempi) ricordarlo così, in questa dimensione che va al di là di quella con cui siamo abituati a pensarlo (il santo della natura, dell’umiltà, della creaturalità, della bontà, di sora nostra morte corporale, e di tante altre suggestioni spirituali). La grandezza della sua eredità si misura anche sulla intrinseca capacità espansiva recata in nuce dalla straordinaria interpretazione francescana del messaggio cristiano.
Auguri a tutti i Francesco (e, nel suo nome, a tutti noi! Ne abbiamo bisogno.)
Roma 4 ottobre 2018