domenica 21 ottobre 2018

Il gas verbale

Vanità e retorica
(di Felice Celato)
Che fra vanità e retorica ci sia una relazione quasi filiale me l’ha, per la verità, in qualche modo suggerito Edgar Ansel Mowrer, un giornalista americano di quasi cento anni fa, ampiamente citato nel libro che sto leggendo e sul quale ritorneremo a lettura ultimata (di Emilio Gentile, In Italia ai tempi di Mussolini, Mondadori, 2018). Mowrer era uno dei tanti “viaggiatori” innamorati dell’Italia (già il solo titolo del suo libro dice tutto: Immortal Italy, scritto nel 1921); ma questo non gli impediva (come invece avviene a tanti di noi) di vedere con chiarezza anche i difetti dei nostri concittadini, che – guarda caso – secondo me sono rimasti proprio tali, anzi – ove possibile – si sono aggravati; ne tralascio alcuni (uno lo metto da parte con dolore, perché è anche un mio “cavallo di battaglia”: il loro atteggiamento verso lo Stato, inteso -dice Mowrer- come La Mucca Sacra) per soffermarmi sui due più vicini al nostro tema: la vanità, la dipendenza da vuote parole e lo smodato piacere di sentirsi parlare; e l’amore per la retorica, per l’autocelebrazione della… propria superiorità nei confronti delle altre nazioni.
Bene: muovendo da questa occasionale citazione, ho cercato di ragionare su vanità e retorica (un gas verbale, diceva Mowrer, per effetto del quale, già all’inizio del secolo scorso, gli Italiani non furono più capaci di distinguere i fatti dalla finzione); e mi sono convinto della loro strettissima parentela (almeno in politica).
La vanità, a dire il vero, potrebbe ben figurare fra le parole desuete o sfarinate dal tempo, anche se non è proprio scomparsa dai nostri discorsi (come è accaduto alla temperanza); si è però per lo più incistata nei sensi legati al costume esteriore, alla moda o alla bellezza nelle loro diverse manifestazioni. Il  Vocabolario Treccani ne dà questa definizione, che riflette anche questo più contemporaneo uso lessicale: leggerezza di carattere che porta a trattare le cose serie con frivolezza e le cose frivole con più serietà che non meritino; ma anche, ostentazione di un’alta opinione di sé stessi, dei propri meriti, delle proprie doti fisiche. Però, mi pare, lungo questo filone lessicale si è venuto perdendo il senso più profondo della parola; non tanto, per intenderci, quello cui allude l’Ecclesiaste che si apre e si chiude col noto verso Vanitas vanitum et omnia vanitas; ma, senza andare così lontano (o se volete: anche senza volare così alto, verso temi di connotazione esistenziale), credo che raramente si senta qualificare come vanità quella inversione di cure, di peso, fra cose serie e cose frivole, della quale tanto spesso ci capita di ravvisare le impronte evidenti nel comune parlare, non solo dei cittadini ma, tanto più spesso, dei loro cosiddetti leaders.
In fondo, la miriade di leggerezze con le quali si sentono trattare temi altamente seri e direttamente incidenti sulla vita di ciascuno è proprio una manifestazione di vanità del parlare; spesso congiunta con uno smodato piacere del sentirsi parlare o con l’ostentazione di un’alta opinione di sé stessi che, inevitabilmente, sottovaluta l’intelligenza di chi ascolta. Si noterà come, già qui, la vanità del pubblico parlare tende ad assorbire (direi di più: a servire) le esigenze di una retorica politica che, naturalmente, abbisogna di semplificazioni e di fascinazioni (si direbbe oggi: di narrazioni) destinate alla (banalizzata) cattura del (provvisorio) consenso (sempre Treccani: retorica= fra gli altri significati *, modo di…parlare ampolloso e risonante, enfatico e sostanzialmente vuoto, privo o povero di impegno intellettuale, civile e morale). 
In fondo vanità e retorica, quando servono a trattare le cose serie con frivolezza e le cose frivole con più serietà che non meritino, sono le facce di una stessa medaglia che potremmo definire la medaglia della comunicazione decettiva (sempre Treccani: decettivo = ingannevole, che trae o può trarre in inganno e indurre in errore).
Per uscire dal generico, suggerisco un esercizio: considerate attentamente – nell’enunciato e negli effetti attesi (e magari conseguiti) – un “discorso” di un politico, non importa se di governo o di opposizione (per esempio a proposito di spread, di rating, di debito pubblico, di investimenti, etc); e provate, se ci riuscite, a discernere fra vanità del parlare e semplici artifizi retorici. Anzi provate a domandarvi se, ubriacati dal gas verbale,”loro” sappiano bene di che cosa parlano e di che effetti ha ciò che menzionano (magari irridenti) sulla vita dei cittadini (loro elettori); e, questi, se, in fondo, non acconsentano, con acritico gusto del sentir parlare, magari con inutile vigoria, al proprio disimpegno intellettuale, civile e morale.
Roma 21 ottobre 2018

(*) Per carità, so bene che la retorica è anche un’arte preziosa; ma anche la pittura è un’arte preziosa, eppure detesto gli imbrattamuri!



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