Ex-sarcasmi autunnali
(di Felice Celato)
Da un amico lettore assiduo di questo blog, ricevo questo commento che (da lui autorizzato) brevemente vi sintetizzo per parlarne ancora: Caro F., so bene del tuo amore per un certo mite sarcasmo ma, mi pare, che tu, nel fondo, esprima, nel tuo post su i "signori sul ponte”, un profondo sconforto verso quella che io chiamerei la middle-class Italiana: confusa, superficiale, istintiva, emotiva. Non ti pare di esagerare?
Bene; rispondo volentieri, così:
Caro M.,
tu sai bene, da uomo di buone letture, che la domanda “che fine ha fatto la borghesia?”se la sono posta osservatori del sociale e del politico ben più autorevoli di me: non a caso quella domanda ha dato il titolo ad un volume di riflessioni, pubblicato da Einaudi nel 2004, nel quale sono raccolti contributi di Massimo Cacciari, Giuseppe De Rita e Aldo Bonomi; e lo stesso De Rita, con Antonio Galdo, più recentemente (Einaudi, 2014) ha pubblicato un libro intitolato L’eclissi della borghesia. Le stesse Considerazioni generali del Censis (se ne veda la collezione, in Dappertutto e rasoterra, sempre di De Rita, Mondadori, 2018) hanno dedicato ampi spazi (e felici espressioni lessicali) alla evoluzione/involuzione della nostra classe dirigente (intesa in senso largo, non politico ma sociologico), da quella storicamente elitaria a quella economica, a quella socio-culturale cetomedizzata, per usare una delle tante invenzioni lessicali di De Rita.
Non sarò certo io, osservatore dilettante ma poco dilettato, a tentare altri concetti o a fornire altre chiavi di lettura di questo complesso fenomeno evolutivo che ci porta, oggi, a me pare, a non disporre più (uso anche qui un’espressione di De Rita) di una classe generale…capace di pensare il futuro senza rinserramenti nel presente o di interpretare e guidare la complessità del sistema e i suoi processi.
Quello che, appunto da osservatore poco dilettato, mi pare di vedere è la devastante omogeneizzazione culturale che si è prodotta nell’ambiente in cui viviamo, tutti, tu ed io compresi ovviamente: siamo tutti portati, dal flusso incessante della comunicazione sul contingente, a perdere di vista l’orizzonte lungo del tempo che magari, inesorabilmente, ci sfugge quotidianamente ( fugit irreparabile tempus, dicevano i latini) ma che costituisce pur sempre il contesto vitale nel quale sono destinati a vivere i nostri figli e i nostri nipoti. E la nostra full immersion nel contingente ci porta, ogni giorno impercettibilmente, sempre più vicino agli stilemi del “pensiero” corrente, come se fosse verità delle cose quella che corre veloce sui nostri giornali, sui nostri media, sui nostri discorsi quotidiani.
Non voglio dire che nulla resterà di quanto alimenta tali stilemi; voglio solo dire che certi punti fermi delle nostre esperienze e delle nostre convinzioni ( e dei nostri valori civici) non devono vacillare ad ogni vento che soffia; e che ci spetta di difenderli, anche proteggendoli dagli inquinamenti del quotidiano (abbiamo bisogno di ardore, di qualcosa che brucia dentro di noi, dice benissimo De Rita). Ti faccio alcuni esempi delle eclissi di senso lungo che hanno animato i miei miti sarcasmi (dici miti perché sai che senza la mediazione della scrittura faccio di peggio!): il valore della buona amministrazione delle entrate e delle uscite dello stato (come fosse quella della nostra famiglia, con rigore e responsabilità verso la casa comune), la delicatezza della normazione (nella sequenza valore – principio – norma, che esige saggezza, astrattezza, generalità e stabilità), la forza dell’intraprendenza e la complessità degli apparati produttivi (nella sequenza bisogni – mercato – prodotti e servizi) e più in generale dell’attività economica (che ha le sue durezze come contropartita dei benefici che determina); in poche parole: la complessità della realtà (specie di quella meta-nazionale dalla quale siamo necessariamente dipendenti, noi piccolo paese provinciale dalla debole cultura) che si ribella alle semplificazioni di chi ritiene di tutto poter banalizzare, di tutto poter piegare alle esigenze del quotidiano, in un’incessante rincorsa verso il breve respiro.
Ecco, caro M., che cosa mi rende apparentemente aspro nei confronti dei nostri tempi e dei nostri supini atteggiamenti verso gli stessi; specie quando vengono da aree della società nelle quali dovrebbe essere depositata la massima concentrazione del suo capitale umano(*) che non abbiamo il diritto di disperdere per pigrizia o acquiescenza mentale.
Roma 29 ottobre 2018
(*) Capitale umano (dal Dizionario di Economia e Finanza Treccani): Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute in genere dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica, ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate dal soggetto che le ha acquisite.
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