martedì 29 agosto 2017

Defendit numerus / 14

Food for thought
(di Felice Celato)
Quando ascolto i garruli – ma fondati – compiacimenti per gli obbiettivi di corto termine conseguiti nel contenimento degli approdi di rifugiati (rectius: nell’allontanamento fisico del problema dei rifugiati); quando ascolto la fondata ma dispettosa soddisfazione dei sovranisti etno-democratici, mi viene un dubbio atroce. Ma – mi domando – qual è il grado di percezione diffusa delle dinamiche anagrafiche che innescano (o contribuiscono ad innescare) il fenomeno dei rifugiati? [Confesso: la distinzione fra migranti “economici” e rifugiati “politici” mi pare un’utile ipocrisia, utile a dare dignità ideologica alla distinzione, non certo a mutare la sostanza  umana della “fuga” e del bisogno di rifugio].
Allora – sempre un po’ fissato coi numeri, e perciò a disagio in un paese che li usa solo per la tombola – mi sono dato all’elaborazione di una piccola tabella che spero uno sguardo lo meriti (ho fatto ricorso, per non affaticare, a qualche arrotondamento e a qualche piccolissima approssimazione derivante dalla necessità di allineare dati leggermente sfalsati nel tempo) .

POPOLAZIONE MONDIALE (numero degli "umani")

Area
1970
2017
2030 (*)
Δ 60 anni
TOTALE
(mil.di di  persone)
3,7
7,4
8,1
+ 4,4
Europa
18%
10%
8%
- 10 %
 (Italia)
(1,4%)
(0,8%)
??
??
Nord America
6%
5%
5%
-1%
Asia
58%
61%
60%
+2%
Africa
10%
15%
17%
+7%
Altre
8%
9%
10%
+2%
(*) Stime ONU

Eccoci qua, consideriamo il tempo: fra 13 anni, molti di noi amici più anziani saranno sicuramente ancora in vita (e sperabilmente anche in piena salute); dei miei due nipoti una sola sarà maggiorenne, quand’anche Grillo portasse la maggiore età a 16 anni per aumentare la maturità del Paese. 13 anni: poco più di un quarto di quelli che sono passati fra oggi e il 1970, quando buona parte dei miei amici aveva già finito la scuola e, oggi, ci pare, in fondo, l’altro ieri. 
Eravamo, dunque, nel mondo (come umani), la metà di oggi, nel 1970; il 18% della popolazione era Europeo, più o meno quanti saranno (in percentuale) gli africani fra soli 13 anni (in percentuale però, perché in numero assoluto saranno 1,4 miliardi, il doppio di quanti siamo noi Europei oggi).
Bene; con questi numeretti in testa, non ho, tuttavia, una tesi sul tema di questi mesi. Ma, visto che il problema è grande, e serio, ed epocale, e inusitato per dimensione e pervasività, e ricco di conseguenze socio-economiche ma non solo, e intriso di umanità, mi piacerebbe che non fingessero di averla coloro che invece ne proclamano protervamente una al giorno.

Roma 29 agosto 2017

domenica 27 agosto 2017

In parole lunghe

Riprendiamoci
(di Felice Celato)
[Avviso ai “naviganti”:  temo che mi dilungherò oltre il “limite”– 750 parole – che mi sono dato per questi miei post. Allora dò un consiglio pratico ai lettori: la seconda parte del post è riservata solo ai non laici. I laici possono fermarsi alla prima, se vogliono].
1
Con la ripresa delle abitudini (sia di quelle buone – di cui darò subito un esempio, spero, con questa discussione asincrona –  sia di quelle inevitabilmente cattive, magari…. solo rilevate dalla bilancia) si avvia a riprendere anche il filo dei discorsi mai interrotti; anzi, fortunatamente, vivacizzati dalle esperienze, dalle letture e dalle riflessioni dell’estate. Fra questi fili, quello che più regge alle usure del tempo è il filo….della “discordia” sui ruoli dello stato e dell’economia nel mondo che auspichiamo (purtroppo sempre più lontano da quello che le pessime classi dirigenti politiche di cui disponiamo riescono a immaginare). Curioso: non è sul mondo che auspichiamo che si dipana il filo della “discordia”; tutti – mi riferisco qui al piccolo ma significativo contesto dei miei “corrispondenti” (in senso Ungarettiano) – vogliamo un mondo più "prospero", più “buono”, cioè più attento ai deboli, anche nella diffusione della prosperità; più “giusto” nella distribuzione delle opportunità; più “sano” nella qualità dei valori coltivati; più “facile” per chi ci vive; più “aperto” agli altri, comunque intesi. Curioso, dicevo, ma non troppo: sui “fini” è spesso assai più facile trovarsi d’accordo che non sui “mezzi”; specie quando – come avviene coi  miei “corrispondenti” – già si condividono culture, visioni del mondo e dell’uomo, nonché stili di vita. I problemi cominciano, anche fra noi, quando si passa a discutere dei “mezzi”; anzi – voglio fare un passo avanti – quando si passa a discutere della miscela di “mezzi” idonei al perseguimento di quei “fini”, giacché sulla natura dei “mezzi” in sé non c’è discussione: ogni società che si rispetti (per me come – credo – per i miei “corrispondenti”) si basa sulla armonica coesistenza di libertà individuali e collettive, da un lato,  e, dall’altro, di coercizione normativa; dove quest’ultima rappresenta, in estrema sintesi, la volontà dello Stato intesa a garantire l’ordinato funzionamento della collettività nell’interesse di tutti.
Bene; nella mia visione – che ovviamente descriverò con passione non imparziale – questa “miscela” è tanto più efficace, tanto più benefica per tutti e per ciascuno, quanto più ristretta è l’area della coercizione normativa. E anche su questo principio credo non sia difficile avere ampie convergenze, a livello….filosofico; quando si passa al livello economico, invece, le cose si complicano enormemente. Il fatto è che io credo – come ben sanno i lettori di questo blog ai quali ho via via segnalato tante letture liberali ed offerto diverse spigolature di nostrana “statolatria”– che più piccolo si fa lo Stato, più grandi si fanno – nel medio e nel lungo termine – la prosperità, la sua diffusione e la (terrena) felicità degli uomini (che non può voler dire – purtroppo –  l’eliminazione dell’infelicità). Lo Stato – nella mia visione (che non è solo mia, beninteso) – assicuri la difesa della comunità e la sua rappresentanza internazionale (possibilmente con dignità e senza isterie), assicuri (meglio di come fa da noi) l’amministrazione della giustizia, fissi ( e faccia rispettare con tempestività, equilibrio e certezza del diritto)  le regole del gioco economico per garantire la libertà dei mercati e la correttezza delle transazioni che vi si svolgono (avendo presente però che troppe regole distruggono i meccanismi), protegga i più deboli, ove possibile anche con norme che incentivino ed aiutino concretamente chi si occupa privatamente di tale protezione, faccia pagare tasse adeguate a queste sue più ristrette funzioni, e….; e, infine, basta. Per il resto lasci lavorare l’economia e i suoi spiriti vitali perché, ”senza una sana economia, non potremo avere una società sana; ma non è lo stato che rende sana l’economia. Quando lo stato cresce troppo, le persone migliori sentono di contare sempre di meno. Lo stato drena la società, non solo delle sue ricchezze, ma anche delle sue iniziative, delle sue energie, della volontà di migliorare e innovare, oltre che di conservare il meglio”. [Lascio a voi indovinare se questo è un ritratto dell’Italia di oggi o, chessò, una frase di Margaret Thatcher, o della Merkel quando descrive il concetto di economia sociale di mercato o addirittura di Luigi Einaudi o di Pellegrino Capaldo].
Nella visione dei miei (numerosi) contraddittori, invece, la miscela è radicalmente diversa (la descriverò con passione…. vagamente provocatoria): più Stato e meno mercato, più regole, più iniziative dello Stato in economia, più società pubbliche (controllate dallo stato o dalle regioni o dai comuni),  meno libertà per i privati, più programmazione, più disciplina delle iniziative economiche, più burocrazia per controllare che tutto proceda secondo l’ordine programmato, più fiducia nei nostri politici che così bene gestiscono la società loro affidata.
Più o meno la questione dei “mezzi” mi pare questa, forse, lo riconosco, un po’ estremizzata. Speriamo… di riuscire ad appianarla, nel prossimo anno o…. nei prossimi decenni.

[Le 750 parole sarebbero già ampiamente esaurite con quanto cianciato fin qui; ma, oggi, la liturgia domenicale, cui i credenti ben volentieri partecipano, propone quello che io considero l’essenza della Rivelazione per il cattolico. E come tale mi piace segnalarla, perché, così letta, vuol dire tante cose. A questo è dedicata la parte 2 di questo lungo post…. post-vacanze]

2
La tradizione ebraica narra di un famoso rabbino (credo si trattasse del rabbino Hillel, storico protagonista di tante dispute talmudiche col rabbino Shammai, nel I secolo a .C.) che, sfidato ad enunciare l’essenza della Torah stando su un solo piede (e quindi in poche parole), scelse una frase essenziale della Legge (mi pare di ricordare: Amerai dunque il Signore Dio tuo…etc) e poi aggiunse: Tutto il resto è spiegazione.
Avendo in mente questa bella storia, da molto tempo sono arrivato a pensare che altrettanto possa dirsi per la pericope dal Vangelo secondo Matteo letta in chiesa oggi (Mt. 16, 13-19)
Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: "La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?". Risposero: "Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti". Disse loro: "Ma voi, chi dite che io sia?". Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù gli disse: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli". 
Ecco: "Ma voi, chi dite che io sia?" "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente".  Per me, tutto il resto è spiegazione.

[Quasi 1200 parole! Scusate]


Roma 27 ago 2017

sabato 26 agosto 2017

Letture

Gerusalemme assediata e altro
( di Felice Celato)
Riprendiamo la buona abitudine di segnalarci qualche lettura che ci abbia colpito o che ci abbia semplicemente fatto buona compagnia. Del resto, tornati in città, non ci resta che riprendere la routine più o meno assillante del nostro tempo quotidiano. Attorno a noi il mondo sembra girare come al solito, come siamo avvezzi a vederlo da qualche tempo: fra pazzie collettive magari democraticamente supportate, denegate guerre di religione asimmetriche, sfide emotive ed insensate, movimenti di masse instabili alla ricerca di un nuovo equilibrio; se non fosse per le economie in movimento diseguale e pervasivo, si direbbe che il mondo non cambi e che, non cambiando, acceleri la sua entropia perché cambia la sua densità e si accorcia il suo tempo. Non parliamo poi del nostro povero Paese! I problemi di sempre, le elusioni e le illusioni di sempre, talora condite da gesticolanti “realismi” di corta deriva, le fughe dal reale mentre il reale ci insegue, il perdurante degrado culturale e antropologico, l’ecolalia endemica, i complessi irrisolti: pur di udire qualcosa, dicevamo all’inizio del mese (cfr. Le cicale logo-claste del 4 agosto u.s.), sembra diventato la sostanza  del nostro massimo desiderio, mentre crescono silenziosamente (sia pure in mezzo a subitanee eruzioni prontamente esorcizzate dai “tranquillanti” cicalecci di sempre) i problemi di domani, inutilmente leggibili anche oggi.
E dunque è stato consolante immergere l’estiva attenzione accaldata nel “fresco” delle visioni lunghe, delle grandi sintesi storiche che ci danno il brivido del tempo e anche il senso di vicende passate che aiutano a porre le angosce del presente nella prospettiva dei secoli. L’ho fatto, quest’anno, con un corposo volume di quasi 400 dense pagine dedicato dall’archeologo americano Eric H. Clive alla storia tri-millenaria di Gerusalemme (il titolo: Gerusalemme assediata - Dall’antica Canaan allo Stato d’Israele, editore Bollati Boringhieri, 2017).
Come dice il titolo, si tratta di un’opera che copre l’intera storia di Gerusalemme, dalla sua fondazione (prima del 1000 a.C.) fino ai dì nostri, scritta molto bene, con grande chiarezza ed anche efficacia “narrativa”, soprattutto quando riferita alle storie più lontane che, almeno a me, erano larghissimamente sconosciute. Qualche dubbio (rectius: più di qualche dubbio) me l’hanno, per la verità, suscitato alcune letture del passato più recente, naturalmente più intrise di emozioni e, quindi, sia pur sinteticamente, inclinate verso giudizi che mi sono parsi a dir poco gracili. Ma nel complesso questo bel libro ha finito per lasciarmi soddisfatto delle ore dedicate alla sua lettura: credo non esista altro luogo nel mondo così eternamente e ferocemente conteso come Gerusalemme; il solo elenco degli assedi, delle conquiste, delle riconquiste, delle successioni nel controllo della città prenderebbe alcune pagine. Ma quello che dal punto di vista storico potrebbe apparire una follia (in fondo quella di Sion è una collina come ce ne sono tante dappertutto), dal punto di vista umano diventa il segno  - starei per dire: confortante - del senso che possono avere i simboli che Gerusalemme racchiude in sé, per l’umanità e per le radici dell'uomo.
Una lettura assai più lieve è il romanzo di Elisabetta Fiorito Carciofi alla giudìa (Mondadori, 2017), ambientato nel mondo dell’ebraismo romano contemporaneo, del quale fornisce un ritratto ironico e leggero attraverso le vicende di una "cristiana" vagamente agnostica che si accasa con un ebreo timidamente praticante, fra i tic culturali dei due protagonisti e dei rispettivi ambienti e qualche residua garbata diffidenza. Un libro gradevole ed intelligente (nel senso etimologico) che si lascia leggere con gusto.
Roma 26 agosto 2017



domenica 20 agosto 2017

Ruminazioni / 2

La pubblica emozione
(di Felice Celato)
Difficile riprendere il corso delle ruminazioni sulle quali ci siamo intrattenuti giorni fa (il vitello d’oro della pubblica opinione); ma, in qualche modo, il tragico corso degli eventi di questi giorni, con la sua scia di racconti e di commenti, ci riporta inesorabilmente e naturalmente verso le modalità della sua comunicazione (e verso le implicazioni di queste); complice, ovviamente, qualche inevitabile soggiorno davanti alla TV per tempi…. largamente eccedenti quelli strettamente necessari alla identificazione dell’evento.
Forse, ruminavo fra me (dal Devoto-Oli: ruminare = in senso figurato, pensare e ripensare insistentemente, rimuginare), forse – dicevo – possiamo fare un passo avanti nella percezione del nostro degrado (culturale…etc. etc.). Forse si impone proprio di abbandonare il concetto di pubblica opinione, il vitello d’oro (dicevamo l’altro giorno) fuso col metallo dei nostri piccoli “monili” e trasformato nell’adorato moloch che esige quotidiani sacrifici di intelligenza e di libertà di pensiero; perché, in effetti, qualche residuo rispetto lo dobbiamo al concetto stesso di opinione che, inesorabilmente, rimanda ad un’attività di tipo intellettuale, cognitivo e valutativo, per quanto, ovviamente, personale (dal Devoto-Oli: opinione = l’interpretazione di un fatto o la formulazione di un giudizio in corrispondenza di un criterio soggettivo e personale; convinzione in materia morale, politica, sociale, religiosa). Si potrebbe addirittura rilevare che il concetto di pubblica opinione ha in sé un qualche cosa di ossimorico, visto che l’opinione ha appunto, di per sé, caratteristiche individuali e soggettive che mal si conciliano con l’aggettivo pubblica; non a caso, forse, sempre il Devoto-Oli, definendo il concetto di pubblica opinione, avverte che l’atteggiamento collettivo della maggioranza dei cittadini esprime esigenze e convinzioni (talvolta pregiudizi) comuni. Ma lasciamo da parte le questioni lessicali e veniamo alla sostanza (lo dico una volta per tutte: alla sostanza da me ritenuta tale).
Dunque, secondo me, vista la materia della quale si alimenta la cosiddetta pubblica opinione (cronache giornalistiche, eruzioni social-mediatiche, slogan politichesi, banalizzanti semplificazioni etc) e viste anche le reazioni “nell’organismo umano” che tale regime alimentare genera, sembra più conveniente utilizzare il concetto di pubblica emozione. Questo è il moloch, il vitello d’oro che i politici temono di sfidare (cfr. Ruminazioni del 6 agosto), il vero padrone – per nostra concessione – delle vite e dei sentire della nostra collettività! La pubblica emozione!
Di opinioni, infatti, non se ne trovano più, nemmeno sui così detti giornali di opinione; a parte - ovviamente - qualche nobile linea editoriale a diffusione un po' elitaria e qualche inascoltato – anzi spesso denigrato – grido di tanto in tanto lanciato anche su giornali "importanti" da qualche non rassegnato opinionista, magari affondato fra migliaia di righe emozionistico-incendiarie. [Su il Foglio di qualche giorno fa, quando si parlava di incendi che si presumevano appiccati da pompieri precari, una lettera di una sola riga al Direttore – purtroppo ne ho scordato il mittente – lanciava questa geniale provocazione: incendiari per lucro: giornalisti?].  Invece di emozioni sono piene la stampa, la televisione e le radio; e – inevitabilmente - i social media dove spesso anche le emozioni degradano in borborigmi.
Perché? Perché le emozioni hanno spiazzato le opinioni? Mah! Forse qualche amico farà dell’ironia sulla mia “spiegazione” mercatistica: perché le emozioni costano poco e rendono molto, riempiono pagine, spazi mediatici, etc., non richiedono la fatica del pensare, affascinano facilmente, si comunicano senza difficoltà (spesso basta un'immagine), non temono la prova dei fatti (il fact checking, come direbbe qualcuno che ha frequentato qualche banca d’affari) perché si radicano nel comune sentire che presume sempre di essere dalla parte della vera verità.
Le opinioni, invece, costano molto (in termini di fatica dell’elaborazione), rendono poco (in termini di popolarità), espongono alla prova contraria, presumono l’attenzione faticosa di chi le riceve e spesso (assai spesso) sono sgradevoli.
Diciamolo francamente: non c’è competizione fra emozioni e opinioni! La battaglia della testa è persa in partenza quando, in pubblico campo, scende il core o, meglio, il precordio.
Si dirà: ma è sempre stato così, da che mondo è mondo! E forse è vero. Ma oggi, di nuovo, di sconosciuto al passato,  ci sono due pericolosi moltiplicatori dello spiazzamento emozionale : la straordinaria pervasività della comunicazione e, soprattutto, la sua influenza sulla formazione della cosiddetta volontà democratica. Per questo la questione della pubblica emozione è diventata cruciale per il futuro delle nostre società; per questo, quant’altro mai, si impongono oggi le cure assidue della prevenzione. Senza pretesa di esaurire qui il protocollo profilattico e terapeutico del caso, mi vengono in mente i due presìdi principe: diffidenza sistematica verso…. il pre-cotto e cultura del ragionamento. [ Sono certo che non mancherà occasione di tornarci sopra con ulteriori…ruminazioni]
Orbetello 20 agosto 2017