Pur
di udire qualcosa
(di
Felice Celato)
Il
caldo opprimente (quest’anno abbiamo addirittura scomodato Lucifero per
definire la cappa di caldo che ci è capitata sulla testa) rallenta anche i
pensieri, che del resto nel nostro paese da tempo immemorabile non corrono
agili nemmeno col fresco. Ieri alle 13, a piazza di Spagna, un termometro
elettronico segnava 41 gradi (non so dire quanti fossero i gradi percepiti, nuova categoria chatter-friendly della temperatura
soggettivata) e la scalinata (gli Spanish
steps, come dicono i turisti) era completamente vuota, solo perché
completamente assolata; non ricordo di averla mai vista così bella, per lo meno
di giorno. Forse, effettivamente non ho mai sentito tanto caldo a Roma da
quando ci vivo (52 anni).
In
attesa di lasciare la città per qualche giorno, rallento anch’io le mie deboli
attività, le letture quotidiane (e, per fortuna, le conseguenti orticarie) e anche quelle meno
quotidiane che fatico a cominciare anche se mi sembrava di non vedere l’ora di
farlo. E’ fin troppo ovvio che non mi va nemmeno di andare a giocare a golf, fa
troppo caldo persino per questo esercizio che si fa in pantaloni corti e che
tanto mi distrae. Vedo che anche gli abituali frequentatori di questo blog rallentano le visite e si prendono
un po’ di (meritata) pace dalle nostre ruminazioni. In effetti il caldo
rallenta tutto, non solo i pensieri.
Solo
le cicale intensificano il loro canto (ieri sulle pendici del Gianicolo era
già assordante di buon’ora), tanto simile, per tanti aspetti, al vociare del
nostro paese che mai non posa:
monotono e corale, sembra diretto dalla cicala più vicina ma basta lasciarsi
pervadere dai suoni per accorgersi che
non c’è regia, è un frastornante concerto bi-tonale che non ha direttori ma
solo equivalenti esecutori, perfettamente democratico, si direbbe: come ci si
sposta sotto gli alberi ci sembra che muti il capo-coro ma è solo un’illusione,
in realtà il suono è lo stesso, cambiano solo le distanze relative dagli
esecutori, quello più vicino ci pare il maestro del coro ma appena ci si
allontana da lui diventa un esecutore come gli altri.
Curiosamente
l’abbacinante cicaleccio mi ha fatto tornare in mente una corrosiva (e
attualissima) “profezia” di san Paolo (II Tim. 4, 1-4): Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina,
ma pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo
i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro
alle favole.
Già, pur di udire qualcosa. Pur di udire
qualcosa ascoltiamo anche le cicale; e le cicale riempiono le nostre orecchie,
ossessivamente pervadono il nostro cervello; il loro rumore prende il posto del
nostro pensare, diventa la dimensione della nostra stagione.
Uscendo
dalla metafora delle cicale, provate ad immergervi (io lo faccio molto
raramente, ma col caldo mi è capitato di fare anche questo) nel “rumore” di un
telegiornale: il frastornante concerto
che non ha direttori ma solo equivalenti esecutori e perfettamente democratico
vi suonerà dattorno, anzi vi risuonerà dentro, dandovi l’impressione (solo l’impressione!) che
muti il capo-coro a mano a mano che si dipanano “le notizie”: in effetti cambia
solo la distanza relativa fra gli esecutori, un vero capo-coro proprio non c’è,
perché non c’è nemmeno il coro, c’è solo il rumore per il rumore.
Anni
fa mi era venuto in mente di chiamarli silence
fillers, i “farcitori” del silenzio, quelli che fanno del riempimento del
silenzio una propria missione, una specie di inconscia ragione di vita o anche,
più spesso, un mestiere. Oggi potremmo pensarli come logo-clasti, esorcisti del diabolico silenzio che ci spaventa
perché ridà spazio al pensiero, cicale che aiutano a perdersi dietro alle favole (per dirla con san Paolo).
Roma 4 agosto 2017
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