Il
nuovo vitello d’oro
(di Felice Celato)
Conosciamo tutti l’episodio del vitello d’oro (Es.
32): il popolo, vedendo che Mosè tardava
a scendere dal monte, divenuto impaziente fece ressa attorno ad Aronne e gli disse: ‘Fa’ per noi un dio che
cammini alla nostra testa’. Aronne fece fondere l’oro dei monili e dei pendenti appesi agli orecchi delle
mogli, dei figli e delle figlie, ne uscì il vitello (l’immagine di un giovane
toro) e, il giorno dopo si alzarono
presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione davanti
all’idolo appena fabbricato. Sappiamo tutti come andò a finire: si accese l’ira di Mosè…afferrò il vitello
che avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere,
ne sparse la polvere nell’acqua e la fece bere agli Israeliti. E poi fece
anche di peggio.
Gli uomini hanno una così dura cervice che spesso offrono olocausti al vitello che hanno fuso
essi stessi, col metallo di monili e pendenti.
Perché mi viene in mente questo bellissimo episodio
della Bibbia? I lettori di questo blog,
sanno bene che Mosè è il mio archetipo del leader
e il mio pensiero va spesso alla sua figura quando penso al concetto di leadership che vedo incarnato nei
politici di oggigiorno, ma non solo di oggigiorno, per la verità (*). Ma qui
Mosè non c’entra.
Allora ve lo spiego subito: non è il caldo che mi
ha riportato al libro dell’Esodo, almeno non direttamente; è stata, invece, una
frase udita ieri mentre indugiavo a letto nel relativo fresco mattutino,
ascoltando distrattamente la radio, forse – anzi: senza forse – con la speranza
di riappisolarmi (gli insonni, si sa, dormono meglio la mattina). Non la
ricordo precisamente e non so nemmeno chi l’abbia detta ma il senso è bastato a
mettere in moto la prima (acida, naturalmente) ruminazione della giornata; più
o meno diceva: ‘siamo arrivati al punto
che nel nostro paese i politici hanno paura della pubblica opinione’.
Per carità, so bene che la cosiddetta pubblica
opinione è uno dei fondamenti del controllo democratico sul potere; né mi
sfuggono i benefici che talora sono connessi a tale controllo. Talora, appunto;
magari anche spesso. Talatra la pubblica opinione ha dato la caccia agli untori
della peste (si veda il bellissimo capitolo XXXII de I promessi sposi già ricordato qui
nel post del 17 novembre 2014
intitolato Federigo Borromeo), alle
streghe o ai vari Tortora della nostra storia o anche…lasciamo perdere esempi a
noi più vicini. Ma che i politici abbiano in qualche modo timore della pubblica
opinione può anche essere un bene, almeno quando la pubblica opinione esplica
la sua funzione nel controllo “democratico”; semmai, qui, ci sarebbe da
discutere (e da discutere a lungo) sulla perversa sinergia fra elettori e media prestati alla militanza politica
(esplicita o subdola).
Ma il mio tema oggi non è questo; né a questo
alludeva, ne sono sicuro, chi parlava
della paura della politica di fronte alla pubblica opinione. Piuttosto il tema
è quello della pubblica opinione intesa come “pensiero” diffuso, del vincolo al
pensare che l’opinione pubblica esprime quando si fa inattaccabile “pensiero”
comune, generale accettazione di una lettura della realtà e vincolo
all’affermazione di letture diverse della stessa, massiccio stratificato della
generale comprensione del presente, vitello
d’oro che cammina alla testa del
popolo che l’ha fabbricato, pronto ad offrirgli sacrifici e insofferente di
ogni verità.
Diceva Federico Caffè che “liberarsi della suggestione delle affermazioni che finiscono per esser
accettate per il solo fatto di essere ripetute non è una cosa agevole”.
Figuriamoci per un politico, di continuo affamato ed assetato di consenso. Di
qui la (paralizzante) paura della pubblica
opinione di cui parlava l’ignoto commentatore radiofonico. Di qui anche
l’analogia che mi veniva in mente col vitello d’oro del racconto biblico:
coloro che toglievano i pendenti e i monili alle loro mogli e alle loro figlie
per contribuire alla fusione dell’idolo, non potevano ignorarne la natura;
eppure erano disposti a trattarlo come un dio: ecco il tuo dio, o Israele, si dicevano l’un l’altro, colui
che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto.
Roma 6
agosto 2017 (festa della Trasfigurazione di N.S. Gesù Cristo)
(*) Giuseppe
De Rita, introducendo l’ultimo Rapporto del Censis, ha ricordato una storica
diatriba fra Aldo Moro e Giulio Andreotti sul concetto di leadership politica, in cui, quest’ultimo (per la verità anche lui,
poi, vittima di una pubblica opinione accesissima), ebbe a dire che i politici
non devono rappresentare il popolo (come pretendeva Moro) ma rassomigliargli.
Siamo lontani da Mosè; siamo più vicini al pastore che bela per assomigliare
alle pecore. Forse 40 anni fa.
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