Temperanza
(di Felice Celato)
Noi clericali (e anziani), forse, ricordiamo qualcosa dei desueti insegnamenti della nostra remota formazione religiosa di base, quando, accanto alle tre virtù teologali (fede, speranza e carità), senza dar spazio all’oggi tanto decantato dialogo, ci venivano bruscamente (e santamente!) propinate - come regole dei nostri comportamenti - le (allora) famose quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
Mentre, credo, tutti, più o meno, ricordiamo con chiarezza il significato di prudenza, di giustizia e di fortezza (ho detto “ricordiamo”, che non significa affatto “pratichiamo”), mi viene il dubbio che della temperanza abbiamo, tutt’al più, conservato una memoria parziale; direbbe un mio rinomato predicatore, fermandoci alle virtù da praticarsi ...dalla cintola in giù.
Eppure, ovviamente, la temperanza è una virtù che investe l’uomo intero, essendo, sì, anche la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri (lato sensu), ma soprattutto la virtù che assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. Così, la persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore (dal Catechismo della Chiesa Cattolica, paragrafo 1809). Starei per dire, dunque, che la temperanza è (anche) una virtù sociale, forse anche politica, perché, naturalmente mira a con-temperare, attraverso l’auto-limitazione degli istinti individuali, i desideri di tutti; non sulla base della forza, nemmeno di (temporanee) maggioranze, ma del bene comune, inteso come il canone unico (peraltro non privo di profili problematici) che rende tollerabile la limitazione delle libertà individuali ovviamente necessaria a qualunque democrazia (colui che ha delegato ad altri il proprio potere può essere libero se riconosce se stesso – cioè il proprio bene – nel bene comune perseguito da coloro che esercitano il potere, scriveva oltre un quarto di secolo fa J. Ratzinger, Liberare la libertà, Cantagalli 2018, pg. 111)
Mai come in questi nostri tempi rumorosi, si sente l’acuto bisogno della temperanza come virtù politica. Sabino Cassese (in un magnifico articolo di ieri, sul Corriere della sera, dedicato a qualche in-temperanza "politica" di questi giorni) ha opportunamente disseppellito (dalle poco frequentate reminiscenze della tragedia greca) il termine hybris per dire della tracotanza che spesso colora di vanagloria (Oh vana gloria delle umane posse! Dante, Purg. XI, 91) il dilatato senso del potere esercitato dalle maggioranze in nome del popolo.
Ecco: la temperanza è il contrappeso della tracotanza; ne costituisce – al di là dei suoi significati etici – il saggio moderatore politico, necessario per il tiranno che non voglia essere odiato dai sudditi ma anche per il democratico detentore di un potere che viene dalla maggioranza che, pro-tempore, gli ha delegato il potere del governo della comunità; che non è – sottolinea Cassese – il potere sullo Stato.
Si dirà che la temperanza, come ogni virtù, è difficile sempre, a livello prima di tutto individuale (chi scrive, per esempio, sa bene di essere spesso un intemperante, intellettuale prima che verbale; e anche se ne duole, però); ma in particolare quando si applica a chi esercita una potestà che presume di avere (e spesso ha) urgenze alle quali rispondere dando esempio (o solo segni?) di capacità, di determinazione o anche solo di leadership. In fondo uno dei connotati essenziali della democrazia è la intrinseca temporaneità della delega al governo, affidata dal (famoso) popolo e dal (famoso) popolo inevitabilmente giudicata di tempo in tempo. Ma proprio per questo la desueta temperanza, in politica e soprattutto in democrazia, postula la coscienza del tempo e dei limiti: finita la delega, magari ricomposte maggioranze e minoranze secondo nuove aggregazioni, restano la convivenza e gli strumenti che la rendono possibile (lo stato, il diritto, il bene comune).
Roma 12 ottobre 2018 (526° anniversario della “scoperta” dell’America)
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