lunedì 11 febbraio 2019

Spigolature del disorientamento

La questione del cacio
(di Felice Celato)
Qualche giorno fa, nell’ultimo post, mi era sembrato di cogliere lo sgomento dei nostri giorni nella confusione mentale che – così mi pare – ci pervade e ci paralizza: chi siamo e dove vogliamo andare?
Si dirà che la domanda, in sé, ha una connotazione filosofica assai più profonda di quella, semmai, superficialmente evocata dal disagio per il contingente disorientamento della nostra cronaca esistenziale; una connotazione che, sub specie sapientiae, renderebbe del tutto sproporzionato il nostro interrogativo rispetto alle angustie per ciò che ci vediamo dattorno. 
E sarebbe difficile negare che l’obbiezione abbia più di un fondamento. In fondo, nel meraviglioso racconto della Genesi, la prima volta che Dio si rivolge direttamente ad Adamo (Dove sei?) non gli chiede – spiegava sant’Ambrogio – in quale luogo si fosse celato ma in quale condizione si fosse posto (Chi ti ha fatto sapere che sei nudo?), dove avesse nascosto la sua natura di creatura del sesto giorno, fatta ad immagine e somiglianza di Dio stesso; in altri termini: uomo, lo sai veramente chi sei e dove vuoi andare? 
Eppure, in piccolo, nel contesto transitorio del presente, la domanda (dove vogliamo andare?) seguita a riecheggiarmi nella mente, se non altro come sfondo inquietante di quel fenomeno che – non certo solo io e nemmeno da pochi giorni – abbiamo più volte indicato come degrado antropologico del nostro contesto vitale [N.B.: per la verità il Censis, in un volumetto, nientemeno che del 2012I valori degli Italiani, edito da Marsilio, ancora più crudamente parlava – pg 37 e sg. – di un disastro antropologico, fatto di crescita dell’aggressività minuta e diffusa, di mancanza del senso del futuro, di intrappolamento nel presente, di mancanza di orizzonti collettivi, di forme di insensatezza alle quali siamo tutti un po' assuefatti, etc.]
Bene: se ci siamo intesi sul più modesto senso della domanda, possiamo (…purtroppo) andare avanti col nostro mesto guardarci d’attorno.
Nel convulso contesto di questi giorni –  che offrirebbe molti spunti di scoramento (dovunque cerchiamo nemici, tutto e tutti giudichiamo con disprezzo, nulla ci interessa capire, perché per tutto abbiamo una contro-storia, solo il presente ci consuma di parole, etc.) – curiosamente e fortunatamente sono riuscito a lasciarmi distrarre da un episodio che tutto sommato  è rimasto marginale nelle cronache nazionali: la “rivolta” dei pastori sardi contro il prezzo (troppo basso) del latte di pecora. Forse se ne sarebbe parlato solo fugacemente se la vicenda non avesse, per qualche ora, “messo a rischio” anche lo svolgimento del campionato di calcio (pare che i giocatori del Cagliari, in partenza per Milano, siano stati “bloccati” per un po’, almeno finché non avessero espresso solidarietà coi pastori) ; o se la vicenda non fosse stata spettacolarizzata con le decine e decine di bidoni di latte sversati per strada per rendere più plastica l’ira dei pastori. Non so come (in fondo il fatto non è nemmeno nuovo né di per sé strabiliante, mentre di fatti strabilianti in questi giorni ce n’è stato più d’uno) ma la cronaca e le immagini della protesta sono riuscite, dicevo, a distrarmi dal resto. Ad attirare la mia attenzione, non è stato però il significato economico della vicenda (sul quale ci sarebbe molto da dire): l’enorme quantità del latte prodotto non ostante il prezzo non sia soddisfacente, la rigidità dell’offerta, il numero degli addetti, la dinamica dei costi e dei ricavi nella catena del valore del famoso pecorino romano (prodotto con latte sardo), gli eventuali nodi del marketing del prodotto finale, etc.; sarebbero state tutte questioni che, per la loro natura, avrebbero suscitato in me attenzioni di genere diverso da quello cronachistico. Invece due cose mi hanno mestamente colpito e, come si sarà capito, mi hanno ri-suscitato la domanda di prima (ma dove vogliamo andare?): la statolatrica richiesta di spostare contributi statali (?) dal parmigiano al pecorino e di fissare un prezzo minimo del latte di pecora sardo; e i rivi di latte che sono stati fatti scorrere per le strade come un malinconico fiotto di preziosa vita sprecata, per farsi sentire. 
La nuova settimana, appena iniziata, promette, però, un radicale cambio di argomento: dal cacio all’oro.
Roma 11 febbraio 2019 (90° anniversario dei Patti Lateranensi)

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