martedì 28 agosto 2018

Sociologia evangelica

Una rilettura laterale
(dI Felice Celato)
Coloro che si sono regolarmente recati a messa nelle ultime settimane hanno ascoltato, in varie pericopi, la lettura sequenziale del capitolo VI del Vangelo secondo Giovanni; una lettura bellissima, naturalmente, e – anche al di là della sua intensa tessitura teologica, densa di riferimenti Vetero-Testamentari – veramente ricca di stimoli.
Non saprei dire il perché (diciamo meglio: non vorrei dire il perché) ma mi ha molto impressionato una (in qualche modo laterale) chiave di lettura, focalizzata sulla mutevole densità della folla che, prima, plaude compatta ai segni e, poi, progressivamente, prende le distanze dai contenuti di quanto annunciato; una sorta di lezione di sociologia evangelica, appunto.
Riassumo per i laici (o per i cosiddetti cattolici non praticanti): passato all’altra riva del mare di Galilea (venendo, probabilmente, da Gerusalemme), Gesù è circondato di folla “perché vedevano i segni [le guarigioni] che faceva sugli infermi”; e per un po' – considerate le condizioni ambientali in cui si svolgeva il Suo incontro con essa – continua a intramezzare la Sua predicazione con segni, cioè con manifestazioni fisiche della potenza di Dio (la moltiplicazione dei pani e dei pesci, il cammino sulle acque). La folla era ovviamente stupita, quasi incantata  da questo Rabbi (Maestro) che valeva proprio la pena di seguire (Questo è davvero il Profeta, colui che viene nel mondo, Gv, 6,14). Ma pian piano, quando i segni (i significanti, non a caso) si spengono e la predicazione di Gesù si concentra sui significati (Io sono il pane disceso dal cielo), la folla scompare, Gesù resta solo coi suoi discepoli e poi, ancora più solo, coi Dodici a Lui più vicini; e, in una delle espressioni più intense della Sua umanità, rivolge ad essi la fatale domanda: Volete andarvene anche voi? (Gv, 6, 67) 
[In questi giorni mi pare di sentirla rivolta a ciascuno di noi, questa domanda, da un Volto triste che ci guarda deluso; ma lasciamo perdere, questi clericali sentimenti assai difficili da comunicare]
Fin qui il capitolo VI di Giovanni. Eccoci dunque al crogiuolo (di cui abbiamo qui parlato più volte; a proposito di ben altro, naturalmente, e con diverse parole) in cui palpitano significanti e significati; al punto, cioè, dove i due concetti della semiotica moderna si fondono in un’unica moneta come ne costituissero le due facce, o (come sempre più spesso mi pare accadere ai dì nostri) drammaticamente si separano: la folla evangelica segue i segni più clamorosi, affascinata dalla manifestazione di potenza che contengono; si separa però dal più difficile significato (Questa parola è dura, chi può ascoltarla? Gv, 6,60).
Questo, come dicevo, la folla evangelica. Non solo essa però. Credo di aver più volte citato, qui, lo stupore che mi suscita, ogni volta che la rivedo in qualche filmato d’epoca, la scena di piazza Venezia gremita di folla il 10 giugno 1940: i segni della pretesa potenza – la folla oceanica, le parole vigorose, la virile risolutezza, l’ostentata lungimiranza – si fondono col tragico significato dell’annuncio (la guerra). Qui la fusione riesce, il crogiuolo funziona, la folla sembra contenta di andare a morire. La fusione riesce, per un po'. Mussolini non è Gesù, ovviamente e checché per un po' ne abbiano pensato i suoi; non ha interesse alcuno a spegnere il lampo accecante del segno per abituare l’occhio a vedere il significato. Ci penseranno il tempo e la storia. Così il popolo Italiano, come sappiamo, prese parte alla Seconda Guerra Mondiale, alla quale, del resto, aveva plaudito entusiasta.
Dicevo poc’anzi che questa chiave di rilettura del capitolo VI di Giovanni mi suona come una lezione di sociologia evangelica; che, ovviamente, trascende anche la drammatica memoria di un passato nemmeno tanto remoto. Resta – almeno così a me pare – il senso perenne di quella lezione: i significanti, i segni (quelli di sempre, non dico quelli mirabili ricevuti attorno al mare di Galilea; anche quelli, cioè, solo fatti di parole o di forme usati, per esempio, dalla politica, qualsiasi essi siano, dal consenso oceanico alla vigoria degli enunciati, dalla evidenza del percepito alla cogenza del preteso sentimento comune, dalla accattivante semplificazione del complesso ai coraggiosi guanti di sfida lanciati al buon senso) i significanti, dicevo, sono più facili da commerciare, fanno presa più rapida dei significati; i quali ultimi, poi, alla fine, richiedono di essere compresi, digeriti, direi, non solo ascoltati e fatti propri come tali; riconducono alla realtà e, spesso, esigono scelte radicali, magari ineludibili; perché spesso (ahinoi!), col linguaggio della logica, A è diverso da B, il bianco non è nero. E ai significati, spesso, occorre rispondere sì, sì, no, no (per dirla ancora  linguaggio evangelico). 
Roma 28 agosto 2018


Nessun commento:

Posta un commento