sabato 16 aprile 2011

Cominciamo con un racconto

Kyrie eleison
(di Felice Celato)

1
La lunga spiaggia era deserta, gli ombrelloni tutti chiusi, sentinelle ordinate per chilometri a guardia del silenzio della notte, il mare ancora livido nella luce grigia dell’aurora. Francesco (Franco, come lo avevano chiamato per quasi sessant’anni parenti ed  amici), allungato su una sdraio di fronte alla battigia, celebrava così il primo anniversario della sua fuga dal mondo, attendendo l’alba sul mare, scrutando sull’orizzonte l’apparire del sole, quasi incantato dal rumore dolce della risacca e accarezzato dall’aria ancora fresca di quel tardo giugno marino.

2
Da quasi un anno Franco viveva in bilico lungo il confine di una strisciante depressione, finalmente distaccato da tutto quello che era stato il suo mondo affannoso ma ancora  alla ricerca, con debole tenacia, di una ragione per restare attaccato alla vita, forse non breve ma  quieta, che pure gli restava da vivere.
La lunga lotta che per anni aveva condotto, solitario e rinserrato in se stesso, per salvare l’azienda che aveva ereditato dal padre l’aveva spossato, l’aveva forse isolato anche dalla famiglia: la moglie aveva finito per trasferirsi negli Stati Uniti, non lontano  dai tre figli, tutti ormai radicati, in diverse città,  nel Paese nel quale erano andati a studiare e dove avevano trovato lavoro in campi tanto lontani dagli interessi dell’azienda di famiglia.
Proprio quando poteva dire a se stesso di essere riuscito a guidare l’impresa in acque  sicure, Franco aveva improvvisamente alzato le mani, travolto dalla stanchezza e dalla nausea: le banche miopi, i sindacati irresponsabili e dogmatici, i politici avidi solo di inutili passerelle quando la crisi infuriava e quando si avviava a soluzione, ovviamente senza alcun loro merito. Basta! Franco aveva venduto la sua quota di maggioranza al fratello minore, realizzato quanto bastava ad assicurare a se stesso ed ai suoi un’esistenza priva di affanni materiali e si era ritirato in una piccola casa sulla costa adriatica, non troppo isolata ma senz’altro  lontana anche dalla piccola confusione del vecchio paese marchigiano affacciato sul mare.
Ad uno ad uno aveva ridotto all’essenziale tutti i contatti con il resto del mondo: niente televisione anzitutto ( e questo gli era risultato facile), poi, rapidamente, niente più giornali, niente più radio, il telefono cellulare ed il computer  sempre spenti, pochi libri e solo vecchi, pochi contatti con l’esterno (il droghiere, il benzinaio, il fruttivendolo, la lavanderia e poco altro), solo lunghe ore di silenzio, alla ricerca di energie in se stesso, lenta e non affannata ma al tempo stesso  quasi disperata. Se non, forse, una piccola cura di se stesso alla quale si aggrappava con meticolosa volontà, non c’era più nulla d’attorno che gli sembrasse meritevole di attenzione; anche la moglie e i figli li sentiva raramente per informarsi sommariamente della loro vita e per dare sommari ragguagli sulla propria: “sto bene, mi riposo, penso, vi penso, qui è nevicato il giorno di Pasqua, non so quando verrò a trovarvi….sai, bisogna andare a Roma, prendere l’aereo… mi sto riprendendo, ma ancora….sì, forse”. La famiglia, che pure aveva costituito l’unica sua cura oltre a quella dell’azienda paterna, gli era sfuggita  come la sabbia fine che scivola via dal palmo della mano non per volontà propria ma per naturale gravità che si avvale della naturale scorrevolezza della sua struttura. Nessuna obbiezione, nessuna amarezza, tutto è naturale, tutto è scritto che così avvenga, più passano le stagioni e più i rami si allontanano dalla radice. Pazienza, anche se la radice ha un senso solo grazie ai rami, si diceva Franco.
Anche la religione, che per tanti anni aveva  costituito la spina dorsale della sua visione del mondo, si era inaridita negli anni della maturità di Franco: i troppi affanni della vita corrente lo avevano distratto ed ancorato pesantemente alla terra, occupando con prepotenza ogni angolo della sua esistenza, tarpando con violenza ogni pensiero che non fosse rivolto alla pura meccanica della sopravvivenza.
Una volta cessato lo sforzo, Franco si era reso conto che il legame del suo spirito con la fede poteva essersi interrotto definitivamente, quasi come  se lo spirito stesso avesse perso ogni traccia dei passati sentieri e si fosse smarrito nel deserto della vita: le stesse parole con le quali la fede da sempre nutriva i propri concetti o le proprie preghiere verbali gli suonavano vuote, difficili da sostanziare, forse, talora, anche ingannevoli o, comunque, talmente radicate nelle culture dei tempi da rendere inaccessibile la dimensione di ciò che esisterebbe  oltre i tempi ed oltre i tempi guiderebbe l’uomo.
Nulla di ciò che per quasi un’intera vita lo aveva convinto e animato gli sembrava  costituisse ancora una riserva di valori e di speranza. Eppure, quando aveva deciso di “staccare la spina”, come era solito dire di quella che definiva “la fine delle sue agitazioni”, aveva sperato di poter ritrovare i percorsi dell’anima, di poter riallacciare il dialogo interiore che ben si addiceva – così pensava Franco – alla quieta e lenta attesa dell’incontro finale. Aveva anche progettato di “restituire” agli altri, con operoso servizio, ciò che la vita a lui aveva, in fondo, dato con larghezza soprattutto negli anni più giovanili, cultura, salute, assenza di gravi affanni economici.
Di tutto ciò, non gli restava quasi più niente, né i percorsi dell’anima né gli slanci sociali; la fatica e la tensione degli ultimi anni l’avevano prosciugato.
Una sola cosa, di tutto questo mondo interiore, gli era sopravvissuta, una traccia cui spesso si aggrappava nel tentativo di riprendere il cammino interrotto: la capacità di commuoversi di fronte all’urlo di rabbia dell’uomo verso Dio, per una morte incomprensibile o per un dolore “ingiusto” o per una sciagura che sovrasta le forze dell’uomo, facendolo sentire fragile e limitato di fronte alla Forza e all’Onnipotenza. Gli sembrava che in questo urlo ci fosse l’essenza stessa di un’incomprimibile fede in Dio, quasi un sigillo genetico che inevitabilmente fa appello ad un’Alterità onnipotente : il riconoscimento della umana creaturalità, il senso quasi pre-religioso di un Creatore che deve aver amato l’uomo, la pretesa di giustizia o di misericordia della creatura verso questo Creatore che si assume amante della vita. E il silenzio di Dio lo sconvolgeva come il più inquietante dei misteri.
Di più a Franco non restava, né di sé né del proprio passato. Gli sembrava di aver perso ogni capacità di emozione o anche solo di curiosità e, con essa, ogni interesse al futuro; si rendeva conto dell’incalzare di una irreparabile depressione,  che cercava di esorcizzare con la meticolosa cura di sé e col continuo e disperato appello alle radici di quell’ultima emozione, di quell’ urlo inascoltato, di quell’esigenza di eterno cui non riusciva né voleva rinunciare, pur restandone inquieto e  sconvolto.

3
Il sole appena sorto incendiava di luce la superficie del mare. Franco si alzò lentamente dalla sdraio sulla quale aveva passato la notte, si stirò lievemente, si tolse gli occhiali e si avvicinò alla battigia, ancora perso dietro al rumore lieve delle piccole onde che si infrangevano sulla sabbia. Quella notte di ascolto e di attesa gli aveva riportato alla mente il racconto del profeta Elia che aspetta Dio alle pendici del monte Oreb: non il vento impetuoso, né il terremoto, né il fuoco gli portarono la voce del Signore, ma un lieve mormorio, forse di brezza lieve che muove i cespugli, come il rumore della risacca accarezza la spiaggia.
Franco pensò al mare calmo come ad una viva metafora di Dio: inaccessibile, misterioso, silenzioso e insondato nei suoi recessi più profondi, lontani dai pensieri umani come lontani sono dalle rive popolate; eppure così presente sulla riva dell’uomo con l’incessante mormorio della risacca, un perenne dolcissimo memento, un suono flebile come di indistinte parole.
Lentamente Franco cominciò a camminare lungo la riva e ,d’improvviso, gli tornò in mente una poesia canadese, il racconto di un sogno che provò a ricomporre nella mente:
Ho sognato che camminavo in riva al mare con il Signore e rivedevo sullo schermo del cielo tutti i giorni della mia vita passata. E per ogni giorno trascorso apparivano sulla sabbia due orme: le mie e quelle del Signore. Ma in alcuni tratti ho visto un sola orma. Proprio nei giorni più difficili della mia vita. Allora ho detto: “Signore, io ho scelto di vivere con te e tu mi avevi promesso che saresti stato sempre con me. Perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti difficili? E lui mi ha risposto: “Figlio, tu lo sai che ti amo e non ti ho abbandonato mai: i giorni nei quali c’è soltanto un’orma nella sabbia sono proprio quelli in cui ti ho portato in braccio”.

Gli occhi di Franco si inumidivano, mentre guardava lontano verso la profondità del mare, una profondità lontana, silenziosa, che gli faceva paura mentre la comparava al mormorio dell’acqua lievemente spumeggiante sul bordo della battigia.
“Deve bastarci questo quiete sussurro?” si disse Franco, sedendosi esausto sulla spiaggia.
Poi, lentamente, si tolse le scarpe e cominciò ad arrotolarsi il fondo dei pantaloni, mentre le lacrime scendevano sul suo volto contratto.
Si alzò, sempre gli occhi fissi verso il largo; immerse i piedi nell’acqua ancora fredda, poi lentamente cominciò il suo cammino verso il profondo, piangendo e mormorando “Kyrie eleison”.
La marea, salendo lentamente, già lambiva le scarpe di Franco, abbandonate sulla sabbia.


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