lunedì 14 settembre 2020

Perdono

 Una “negazione” dello jus culturae?

(di Felice Celato)

Da tempo ormai mi sono abituato ad attribuire a quel che si legge sui giornali un grado di attendibilità attorno al 20-25% del “vero” (almeno sui giornali più “seri”); in particolare quando si tratti di articoli di cronaca (nera, di solito), di chiacchiericcio politicoso (copyright: Giuseppe Antonelli, citato l’altro giorno), di retroscena “riservati”, di calcio-mercato, etc. Per questo – a guadagno di tempo e a tutela del fegato – salto a piè pari articoli di tali generi.

Oggi però non ho potuto fare a meno di leggere per intero un articolo comparso su La Stampa sulla tragica vicenda dell’immigrato ucciso a botte da alcuni teppisti laziali (nel senso della regione). L’inviato a Paliano  (il piccolo paese del Frusinate dove abita la famiglia dell’immigrato capoverdino) riferisce del mesto, dignitoso e dolce raduno dei familiari del ragazzo, sotto il titolo La famiglia riunita dopo la cerimonia. “Abbiamo già perdonato gli assassini”.

Abituati come siamo a vedere i parenti di ogni vittima di cronaca nera affrettarsi, a favore di telecamera o di taccuino di giornalisti qualche volta un po' sciocchi, ad invocare giustizia (o talora qualcos’altro di più becero) come drammatico, pubblico grido contro il male subìto; abituati come siamo ad immaginare il male di una pena come l’idoneo contrappeso al male del delitto; abituati come siamo ad immaginarci detentori di un diritto soggettivo all’esercizio di un personalizzato jus puniendi; abituati a tutto ciò, che costituisce in qualche modo la nostra “cultura” della giustizia, mi ha molto colpito il commento attribuito ad una zia della vittima (“siamo molto cattolici, abbiamo già perdonato”), anche perché impaginato sotto un articolo in cui il nostro Premier (prontamente accorso al funerale) invocava “condanne severe e certe” (quasi come se sia proprio, da parte di un Presidente del Consiglio per di più giurista, l’auspicare una sentenza diversa dal semplicemente giusta). 

[N.B. Né La Repubblica né il Corriere della sera, salvo mio errore, riportano il commento della zia della vittima; entrambi però quello del Premier].

Al di là della commossa ammirazione per quanto attribuito alla zia di Willy (così si chiamava lo sventurato giovane massacrato di botte), mi sono chiesto se, paradossalmente, tutto ciò non testimoni un esemplare rifiuto di quella assimilazione culturale che talora invochiamo come legittimazione dei diritti umani di un immigrato. Non a caso abbiamo chiamato jus culturae quella specie di presupposto che, fra gli altri, vorremmo fosse posto a base del riconoscimento che un immigrato può finalmente dirsi italiano a pieno diritto. Nella fattispecie, però, "l'assimilazione" culturale sarebbe solo la prova che l’immigrato, aspirante a diventare italiano per cittadinanza, ha respirato a pieni polmoni i mefitici miasmi con cui avvolgiamo, in televisione o sui giornali, ogni racconto di ciò che accade nella nostra società, in fondo non diversamente che nelle tante altre del nostro mondo e di sempre.

Da un lato la misteriosa “sostanza” del male che sorregge ogni delitto, dall’altro la cattiva infinità del rancore (copyright: p. De Bertolis, odierna omelia alla Chiesa del Gesù), compongono una specie di uroboro (il mitico drago che si morde la coda) che solo il perdono ha il potere di uccidere. Ma il perdono (non sono così irenico dall’ignorarlo) non ha natura giuridica, nemmeno nella cultura religiosa (non a caso Pietro, nell’odierna pericope liturgica, senza cogliere la natura del perdono, domanda a Gesù “quante volte dovrò perdonare?” Cioè quando finisce il mio “dover” perdonare?); esso, invece, riposa inquietamente sulla esperienza della grazia, che non è canone di legge ma principio di amore. E l’amore non si regola per legge; anzi, si vive al di sopra di essa, come sembra voler dire la zia di Willy.

Roma 13 settembre 2020

 

 

 

 

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