Rinascenza vs. resilienza
(di Felice Celato)
Non mi fa meraviglia, anzi ne sono contento, quando nascono parole nuove o parole antiche tornano di moda, magari arricchite nel tempo di consapevoli sensi nuovi e, spesso, più complessi: la storia della lingua – lo dico senza essere un linguista – vive di queste evoluzioni che nascono dall’uso (cui la lingua è naturalmente destinata e dal quale riceve continui feed-back ) e dalla crescente complessità del reale. Se così non fosse, oggi parleremmo ancora la bella lingua di Cicerone o quella (stupenda!) del Padre Dante, che sui testi in uso agli studenti (e non solo) richiede spesso le note per la comprensione (chi si ricorda – per esempio – che cosa vuol dire si che s’avacci lor divenir sante, in Purg. VI, 27?). I purismi (qui intesi come culto degli usi antichi o come rifiuto di apporti allogeni) mi irritano spesso e talora mi fanno anche ridere (come quando i nostri amici francesi si ostinano a chiamare ordinateur il computer o logiciel il software).
Quindi non mi sono meravigliato né tanto meno scandalizzato quando si è diffuso l’uso del termine resilienza (dal Dizionario Nocentini, l’Etimologico, alla voce resiliente: prestito latino, dal lat. resiliens -entis, participio presente del verbo resilire “rimbalzare, contrarsi”) nato nel mondo della scienza dei materiali (ed ivi inteso come capacità di assorbire gli urti senza rompersi o anche di recuperare la forma originaria dopo una deformazione); di qui migrato in quello della psicologia (come capacità di superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà); ed infine atterrato in quello della politica dove ha assunto un significato comprensivo sia dell’approccio della scienza dei materiali sia di quello della psicologia: in sostanza la resilienza sarebbe – nel neo-linguaggio della politica – una sorta di vitale, collettiva resistenza ai traumi (l’inverso della fragilità), tale da assorbire gli urti economici e sociali e da recuperare rapidamente l’assetto pre-traumatico.
Ecco, è proprio quest’ultimo senso che mi preoccupa quando vedo comparire il termine in molti cicalecci politici e anche in qualche documento doverosamente meno ciarliero (da ultimo: Linee guida per la definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, varato l’altro giorno dal nostro Governo). Provvisoriamente (?) molto scarso di numeri sui progetti, invece il documento allinea alcuni brevi ma chiari flash sullo stato del Paese prima del trauma pandemico; un’analisi, credo di poter dire, di cui non diffusamente il Paese è conscio ma che il Governo ha fatto bene ad enunciare, sia pure come trasparente ma comprensibile disclaimer (che sarebbe pienamente accettabile ove le forze di Governo non fossero o non fossero state responsabili dei fatti implicati dai dati).
Provo a sintetizzare il punto (cfr pg. 4 del corposo documento): l’Italia vive, da anni, in una condizione di sub-medietà Europea, nel senso che è sotto la media europea negli indici più rilevanti delle condizioni economiche, sociali e culturali dei paesi che fanno parte dell’Europa: è nettamente sotto nel tasso di sviluppo del PIL, della produttività, della occupazione (qui precede solo la Grecia), in particolare di quella femminile, della fruizione di istruzione superiore, della qualità di quella di base e intermedia, della spesa per ricerca e sviluppo; è invece sopra le medie europee per tasso di abbandono scolastico, per anzianità della popolazione e per incidenza della spesa pensionistica sul PIL. Insomma per dirla con Paul Krugman (così scrive il Nobel per l’economia 2008, sul NYT dell’8 settembre u.s.) l’Italia è un paese diffusamente considerato – e con fondamento – un fallimento (a country that is widely regarded – indeed, in some respects really is – a failure); anzi fra gli studiosi di economia è conosciuta come un monito esemplare in materia di insuccesso economico (Italy is best known as a cautionary tale of economic failure).
Bene (si fa per dire): in questa situazione – si badi bene: ante Covid! – ha senso invocare, per quando la forza della pandemia sarà definitivamente scemata, la resilienza cioè il rimbalzo, in pratica il rapido recupero della situazione pre-traumatica? O non abbiamo forse necessità – e il Next generation EU ce ne dà l'occasione, speriamo attentamente monitorata – di una rinascenza (tanto per usare ancora una volta una parola antica)?
Chiunque abbia maneggiato una palla sa che i rimbalzi perdono progressivamente di forza e dopo tre o quattro declinanti sussulti la palla riprende a rotolare sul terreno, magari – nel caso del nostro sport nazionale – in attesa di essere presa di nuovo a calci.
Roma 18 settembre 2020
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