giovedì 20 luglio 2017

Democrazia continua

Ius rumoris
(di Felice Celato)
Che gli Italiani amino il rumore non è cosa nuova. Uno dei classici stereotipi sugli italiani (e nello stereotipo c’è sempre qualcosa di vero) li vuole instancabili parlatori ad alta voce (oggi magari al cellulare), amanti della risata rumorosa (oggi per la verità direi dello sghignazzo rumoroso; in realtà nessuno più ride di niente, in questo paese, ma si sghignazza di tutto), gorgheggiatori appassionati e indomabili suonatori di clacson. 
Uno stereotipo, dicevo: in fondo, fermo il resto, da noi chi gorgheggia più?
Forse nemmeno nuova è l’associazione – diffusamente nostrana – di ogni manifestazione pubblica al rumore, sia che si tratti di “oceaniche” folle plaudenti al capopopolo di turno, sia che si tratti di manifestazioni sindacali (dove la regola è: più banale è l’enunciato, più forte lo strillato), sia infine che si tratti di “ludiche” manifestazioni “musicali” potenziate da migliaia di watts rombanti e da woofers ossessivi (come del resto si fa anche fuori d’Italia).
E certamente non nuova mi pare l’applicazione sistematica del rumore all’ottundimento delle menti (basti pensare – come ci ricorda persino Elias Canetti in Massa e potere, già citato qui – alle antiche Haka dei maori, oggi prestate al mondo del rugby): anzi quando le masse (le folle, le greggi, il popolo, chiamatelo come volete) si addensano sulle piazze per plaudere a qualcuno in ogni modo (qualsiasi cosa si appresti ad enunciare, persino tragiche decisioni irrevocabili) si tocca con mano l’uso del rumore (la folla in delirio osannante, persino alla prospettiva della guerra) addirittura come strumento di governo, basato, appunto, sull’ottundimento delle menti.
Più nuovo invece mi pare (e poi dite che in Italia non si fa innovazione!) è l’uso del rumore come indiscusso canone del dover fare e anche del non dover fare ( e quindi come irresistibile guida della politica, lato sensu): le cose che si devono fare sono quelle più strillate, quelle da non fare le più contro-strillate, a prescindere dal merito. Il rumore diventa così un canone di democrazia continua, affidata cioè alla verifica in diretta di ogni mandato a governare, e quindi uno strumento sovra-ordinato persino alle votazioni: si vota nel silenzio della cabina ma si decide nel rumore dello strillo. Non importa quale sia il luogo dove ciò avviene: può essere il Parlamento, magari con l’ostensione di cartelloni o striscioni per dare allo strillo anche una dimensione visiva, anzi tele-visiva; oppure possono essere i media magari ad opera di giornalisti prestati alla più becera politica militante; o anche, perché no?, le aule giudiziarie dove le grida dei parenti delle vittime (vogliamo giustizia!) vengono fatte risuonare come una giusta appropriazione di un sommario ius puniendi. Non importa dove, l’importante  è che si strilli, l’importante sono i decibel; a costo di palesi fesserie (si pensi a tutte le innumerevoli manifestazioni di populismo legislativo in materia di diritto penale d’occasione); a costo di strumentalizzazioni emotive che nulla hanno a che fare con materia del decidere (si pensi alla canizza sullo ius soli, abbaiata nel contesto di allarmi migratorii, con i quali lo ius soli ha veramente poco a che vedere); a costo di evidenti contraddizioni con la storia e con i numeri del nostro vivere (si pensi all’uso casuale dei random-numeri – guarda caso, gridati o sparati in improbabili grafiche – per abbagliare anziché per pesare).
Ecco, questo diritto del rumore (ius rumoris) di impadronirsi del senso del nostro agire continua a sembrarmi una cosa molto, molto difficile da accettare, pur in un tempo in cui il mio modo di  vedere ha già subito tante dolorose sconfitte. Ma mi pare inevitabile accettarlo perché….così va il mondo (o perlomeno quella parte del mondo che è il nostro rumoroso ed incolto paese). E così capitoliamo, un pezzo per volta, a brani, lasciando indietro pezzi di una civiltà del ragionare, del conoscere per deliberare, del provvedere di conseguenza. Forse è normale, data l’età; il fatto è, però, che lo spirto guerrier ch’entro mi rugge mi sollecita al resistere! resistere! resistere! di Orlandiana memoria (nel senso di Vittorio Emanuele Orlando, all’indomani della ritirata del Piave: il senso dell’onore e la ragione dell’utilità, concordemente, solennemente ci rivolgono un ammonimento solo, una sola via di salvezza: resistere! resistere! resistere!). Nell’impossibilità di trovare sfoghi nell’azione (le giunture dolgono, si sa, ad una certa età), ne subiranno le conseguenze i lettori di questo blog; ai quali offro quindi, per mitigarne le fatiche, una settimana di vacanza dalle lagnanze.
Roma, 20 luglio 2017  (Anniversario dello sbarco sulla silente Luna; che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?.....Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli?)








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