Ius rumoris
(di Felice Celato)
Che
gli Italiani amino il rumore non è cosa nuova. Uno dei classici stereotipi
sugli italiani (e nello stereotipo c’è sempre qualcosa di vero) li vuole
instancabili parlatori ad alta voce (oggi magari al cellulare), amanti della
risata rumorosa (oggi per la verità direi dello sghignazzo rumoroso; in realtà
nessuno più ride di niente, in questo paese, ma si sghignazza di tutto),
gorgheggiatori appassionati e indomabili suonatori di clacson.
Uno
stereotipo, dicevo: in fondo, fermo il resto, da noi chi gorgheggia più?
Forse
nemmeno nuova è l’associazione – diffusamente nostrana – di ogni manifestazione
pubblica al rumore, sia che si tratti di “oceaniche” folle plaudenti al
capopopolo di turno, sia che si tratti di manifestazioni sindacali (dove la
regola è: più banale è l’enunciato, più
forte lo strillato), sia infine che si tratti di “ludiche” manifestazioni
“musicali” potenziate da migliaia di watts
rombanti e da woofers ossessivi (come
del resto si fa anche fuori d’Italia).
E
certamente non nuova mi pare l’applicazione sistematica del rumore
all’ottundimento delle menti (basti pensare – come ci ricorda persino Elias
Canetti in Massa e potere, già citato
qui – alle antiche Haka dei maori,
oggi prestate al mondo del rugby):
anzi quando le masse (le folle, le greggi, il popolo, chiamatelo come volete)
si addensano sulle piazze per plaudere a qualcuno in ogni modo (qualsiasi cosa
si appresti ad enunciare, persino tragiche decisioni
irrevocabili) si tocca con mano l’uso del rumore (la folla in delirio
osannante, persino alla prospettiva della guerra) addirittura come strumento di
governo, basato, appunto, sull’ottundimento delle menti.
Più nuovo
invece mi pare (e poi dite che in Italia non si fa innovazione!) è l’uso del
rumore come indiscusso canone del dover
fare e anche del non dover fare (
e quindi come irresistibile guida della politica, lato sensu): le cose che si devono fare sono quelle più strillate,
quelle da non fare le più contro-strillate, a prescindere dal merito. Il rumore
diventa così un canone di democrazia
continua, affidata cioè alla verifica in diretta di ogni mandato a
governare, e quindi uno strumento sovra-ordinato persino alle votazioni: si
vota nel silenzio della cabina ma si decide nel rumore dello strillo. Non importa
quale sia il luogo dove ciò avviene: può essere il Parlamento, magari con
l’ostensione di cartelloni o striscioni per dare allo strillo anche una
dimensione visiva, anzi tele-visiva; oppure possono essere i media magari ad opera di giornalisti prestati alla più becera politica
militante; o anche, perché no?, le aule giudiziarie dove le grida dei parenti
delle vittime (vogliamo giustizia!)
vengono fatte risuonare come una giusta appropriazione di un sommario ius puniendi. Non importa dove,
l’importante è che si strilli, l’importante
sono i decibel; a costo di palesi
fesserie (si pensi a tutte le innumerevoli manifestazioni di populismo
legislativo in materia di diritto penale d’occasione); a costo di
strumentalizzazioni emotive che nulla hanno a che fare con materia del decidere
(si pensi alla canizza sullo ius soli,
abbaiata nel contesto di allarmi
migratorii, con i quali lo ius soli ha
veramente poco a che vedere); a costo di evidenti contraddizioni con la storia
e con i numeri del nostro vivere (si pensi all’uso casuale dei random-numeri – guarda caso, gridati o
sparati in improbabili grafiche – per abbagliare anziché per pesare).
Ecco,
questo diritto del rumore (ius rumoris)
di impadronirsi del senso del nostro agire continua a sembrarmi una cosa molto,
molto difficile da accettare, pur in un tempo in cui il mio modo di vedere ha già subito tante dolorose
sconfitte. Ma mi pare inevitabile accettarlo perché….così va il mondo (o
perlomeno quella parte del mondo che è il nostro rumoroso ed incolto paese). E
così capitoliamo, un pezzo per volta, a brani, lasciando indietro pezzi di una
civiltà del ragionare, del conoscere per
deliberare, del provvedere di conseguenza. Forse è normale, data l’età; il fatto è, però, che lo spirto guerrier ch’entro mi rugge mi
sollecita al resistere! resistere!
resistere! di Orlandiana memoria (nel senso di Vittorio Emanuele Orlando,
all’indomani della ritirata del Piave: il
senso dell’onore e la ragione dell’utilità, concordemente, solennemente ci
rivolgono un ammonimento solo, una sola via di salvezza: resistere! resistere! resistere!).
Nell’impossibilità di trovare sfoghi nell’azione (le giunture dolgono, si sa,
ad una certa età), ne subiranno le conseguenze i lettori di questo blog; ai quali offro quindi, per mitigarne
le fatiche, una settimana di vacanza dalle lagnanze.
Roma,
20 luglio 2017 (Anniversario dello sbarco sulla silente Luna; che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai,
silenziosa luna?.....Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste
valli?)
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