Ortega y Gasset
(di Felice Celato)
Il libro di Giovanni Orsina di cui abbiamo accennato negli ultimi due post mi ha suscitato la curiosità di riprocurarmi il libro di Josè Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, che avevo letto tanti, tanti anni fa (ne sono certo, perché ce lo "prescrisse" un nostro professore: primo anno di Università, dunque cinquant'anni fa). E risfogliandolo a caso, mi è balzata agli occhi la pagina che vi trascrivo, presa dal capitolo Il maggior pericolo: lo Stato.
Prima, però, per coloro che non conoscano Ortega, giova spendere due parole sul personaggio: nato a Madrid sul finire dell’800 e morto nel 1955, il filosofo spagnolo, visse, in gioventù, sotto la dittatura di de Rivera, assistette alla salita al potere di Mussolini (1922) e, scrivendo il suo libro fra il 1927 e il 1930, fiutò nell’aria la strada che avrebbe preso la Germania (dove, fra l’altro, studiò ed insegnò). Cattolico di formazione (studiò dai Gesuiti), è stato uno dei maggiori intellettuali della prima metà del secolo scorso. Non occorre leggere [La ribellione ] con troppa attenzione (scrive Orsina) per constatare come, se in effetti [Ortega] è fermamente convinto che nessuna società possa vivere senza aristocrazie, egli riconduca la crisi di cui è testimone al fallimento delle élite.
E’ stata proprio questa citazione ad indurmi a ri-sfogliare il libro, sulla scia di quanto mi pare implicato dal nostro presente; so che alcuni di voi non mi crederanno: è stata solo una fortunata coincidenza che vi abbia trovato questo brano, che mi pare ”scolpisca” con grande efficacia il senso di una parola (statolatria) che, qui, mi è capitato di usare più volte riferendomi ai nostri (non recenti) mali. Ecco che cosa scrive Ortega: Nel nostro tempo, lo Stato è giunto a essere una macchina formidabile che funziona prodigiosamente, di una meravigliosa efficienza per la quantità e la precisione dei mezzi impiegati. Piantata nel mezzo della società, basta schiacciare un bottone perché agiscano le sue enormi leve e operino fulmineamente sopra qualsiasi parte del corpo sociale. Lo Stato contemporaneo è il prodotto più visibile e clamoroso della civiltà. Ed è particolarmente interessante, e rivelatore, capire l’atteggiamento che dinanzi ad esso assume l’uomo-massa. Costui vede lo Stato, lo ammira, sa che c’è, perché gli assicura la vita; ma non ha coscienza che è una creazione umana, sostenuta da determinate virtù, da determinati presupposti che ieri vissero nel cuore degli uomini e che domani potrebbero svanire.
D’altra parte, l’uomo-massa vede nello Stato un potere anonimo, e sente anche se stesso come anonimo - volgo - e crede che lo Stato gli appartenga. Immaginiamo che nella vita pubblica di un paese qualsiasi nasca una difficoltà, un conflitto, un problema: l’uomo-massa pretenderà che immediatamente se lo assuma lo Stato, che si incarichi direttamente di risolverlo con i suoi giganteschi e invincibili mezzi.
Questo è il maggior pericolo che oggi minaccia la civiltà: la statificazione della vita, l’interventismo dello Stato, il suo assorbimento di ogni spontaneità sociale, ossia l’annullamento della spontaneità storica che in definitiva sostiene, nutre, vivifica il destino degli uomini. Quando la massa avverte l’incombere di qualche sventura, o semplicemente quando nutre qualche forte appetito, subisce la grande tentazione di questa permanente, sicura possibilità di avere tutto - senza sforzo né lotta, né dubbio, né rischio - senza far altro che premere un bottone e far funzionare la portentosa macchina. La massa dice a se stessa: “ lo Stato sono io”, e questo è un clamoroso errore. Lo Stato coincide con la massa soltanto nel senso in cui può dirsi che due uomini sono identici per il semplice fatto che nessuno dei due si chiama Giovanni. Stato contemporaneo e massa coincidono solo nel loro essere anonimi. Ma l’uomo-massa crede effettivamente di essere lo Stato, e tenderà sempre più a farlo funzionare, con qualsiasi pretesto, per schiacciare ogni minoranza creatrice che possa perturbarlo nella politica, nelle idee, nell’industria.
[Per chi fosse preso da curiosità, l’ultima riedizione italiana de La ribellione delle masse, credo sia quella edita da SE nel 2001, dalla quale ho copiato il brano, pg 143-144, nella traduzione di Salvatore Battaglia e Cesare Greppi]
Roma 5 giugno 2018
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