mercoledì 19 agosto 2020

Babele / 4

Debito pubblico sostenibile

(di Felice Celato)

Ci voleva la competente e fulminante chiarezza di Mario Draghi per mettere un dito sulla piaga degli  (studiati) fraintendimenti che vengono accuratamente nutriti sulla natura del debito pubblico (italiano, nel caso di specie).

Andiamo con ordine: quante volte abbiamo sentito affermare, anche con fierezza spesso fuori luogo, che il debito pubblico italiano è sostenibile?

Allora vediamo di capire che cosa vorrebbe dire la (apparentemente confortante) paroletta sostenibile; e proviamo a farlo, come facciamo spesso, partendo dal Dizionario Treccani, stavolta nella sua edizione specialistica costituita dal Dizionario di Economia e Finanza: la sostenibilità, nelle scienze ambientali ed economiche, è quella condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità di quelle future di realizzare i propri

Naturalmente il concetto può essere sviluppato ed articolato in forme un po' più tecniche di quelle appena enunciate (e, chi si senta desideroso di farlo, sempre con riferimento al debito pubblico italiano, può leggersi l’ottimo e chiarissimo volume di Carlo Cottarelli Il Macigno, Feltrinelli 2016, già segnalato qui nel post Letture del 26 maggio 2016); ma fin d’ora è chiaro che la sostenibilità di un debito pubblico presuppone, in buona sostanza, la semplice capacità del debitore di rimborsarlo, ovviamente distribuita nel tempo (quello previsto dai piani di rimborso impliciti in ogni emissione di debito pubblico); ma, in qualche modo, vi sottolinea il concetto di corresponsabilità inter-generazionale, cioè fra la generazione che lo ha contratto, quel debito, per soddisfare i propri bisogni/progetti e quella che lo erediterà, come componente negativa del capitale (umano, fisico, patrimoniale etc., e finanziario)  che riceverà – appunto, in eredità – dalla generazione precedente. 

Dunque il debito pubblico, in sé, costituisce la somma di quanto abbiamo preso in prestito, con la promessa di rimborsarlo, noi o i nostri eredi, a valere sui redditi che produrremo o che produrranno.

Bene: veniamo dunque alla semplice ed efficacissima distinzione proposta (o forse solo opportunamente riesumata) da Draghi nel corso di un suo intervento all’inaugurazione del Meeting dell’amicizia fra i popoli 2020, proprio ieri, a Rimini: il “debito buono” (quello contratto per fini produttivi, cioè per investimenti, cioè – ancora più chiaramente – per finanziare esborsi che generano nel tempo flussi di cassa positivi superiori agli esborsi stessi) versus il “debito cattivo” (quello contratto per fini improduttivi, che, privi di adeguati ritorni, semplicemente consumano il capitale preso a prestito). Una distinzione, questa, di cruciale importanza per il concetto che ci occupa (la sostenibilità del debito); eppure – così pare a chi scrive – costantemente trascurata nella nostra Babele quotidiana, anche se, in fondo, è patrimonio comune di ogni buon padre di famiglia, che ben conosce la differenza fra un debito contratto, chessò, per andare in vacanza in Australia e quello contratto, chessò, per acquistare una licenza di taxi per il proprio figlio disoccupato. Ecco, ricorda in sostanza Draghi, la sostenibilità di un debito dipende, in larga misura, dalla percezione della sua qualità, buona o cattiva, nel senso appena indicato.

Quindi, quando diciamo che il nostro debito è sostenibile diciamo, in sostanza, che esso è (nel suo complesso) “debito buono”, cioè contratto per fini produttivi; un’affermazione, direi, quanto meno coraggiosa, visto che da anni continuiamo imperterriti ad accrescerlo pur proclamando di volerlo ridurre; anzi, molto coraggiosa, se si considera il concetto di sostenibile dal quale abbiamo preso le mosse e  quand’anche si voglia tener presente – come è doveroso –  che la natura dei ritorni (attesi) è, in macroeconomia, più vasta e complessa di quella propria dell’economia aziendale (basti pensare, per esempio,  ai ritorni talora assicurati dal sostegno della domanda, specie in momenti di crisi).

Conclusione: se vogliamo mantenere all’aggettivo sostenibile il significato che sappiamo, possiamo tranquillamente seguitare ad usarlo (come sempre: avendone chiaro il significato); ma la mia proposta sarebbe quella di costringere i nostri garruli annunciatori di sempre nuove provvidenze (finanziate a debito) ad adottare il più efficace linguaggio del Draghi (stiamo facendo debito buono o debito cattivo?) perché, in fondo, è più …chiaro.

Roma, 19 agosto 2020

 

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