Divagazioni domenicali
(di
Felice Celato)
Avrei
voluto scrivere qualcosa, oggi, sulla Germania che accoglie i profughi Siriani
con l’Inno alla Gioia, musica di Beethoven e testo di Schiller.
[Nel
mio (semplificato) pantheon delle
moderne culture occidentali, la Germania (insieme agli Stai Uniti) ha sempre
rappresentato un punto di riferimento importante. Vi avrà certamente
contribuito il grande debito che la nostra cultura ha verso il popolo tedesco,
il popolo di Bach, Beethoven, Kant, Hegel, Einstein, Koch, etc. (e anche di Bonhoeffer,
Guardini, Rahner e Ratzinger, ovviamente); ma posso dire che ben più vi hanno
contribuito i viaggi e le molte relazioni che ho avuto, per lavoro, col mondo
germanico, sempre solido, serio, spesso estremamente colto, talora anche squisitamente
gentile, così lontano dal nostro che, pure, di intelligenza, almeno, non è
stato avaro con sé stesso. Una delle domande più inquietanti che mi sono
rivolto nello studiare la storia è come sia stato possibile che un tale popolo
sia rimasto invischiato nella follia nazista (e, il nostro, col fascismo) e –
guarda caso – molte delle risposte che mi sono dato hanno trovato risorse
proprio in un libro – La psicologia delle
masse – scritto, qualche anno prima, da un tedesco, non di nascita, ma di
lingua e di cultura, Sigmund Freud].
Ma,
come spesso mi accade di domenica, l’odierna omelia di p. De Bertolis mi ha
“distratto” e mi ha “trascinato” a riflettere su due parole dell’odierno
Vangelo che spesso sfuggono alla nostra attenzione: “Lo prese [il sordomuto] in disparte, lontano dalla folla…etc”.
Ecco:
in disparte. Lontano dalla folla.
Forse (l’opinione è mia, sia chiaro) anche Gesù, che tanto ha amato le persone,
non amava la folla, della quale ha magari compassione ma dalla quale si trae
spesso in disparte. In disparte come, del resto, talora ci
chiama Dio, con le sue misteriose modalità, per aprirci gli orecchi e anche scioglierci
la lingua (questo era il senso del discorso del p. De Bertolis) ; ma anche (torniamo
a noi), in disparte come spesso
vorremmo noi stessi sentirci nel flusso indistinguibile del rumore della folla.
(Chissà se folla e follia condividono qualche lontano
etimo?)
Oggi
è quanto mai difficile mettersi in
disparte: i “rumori” della folla, anche quando siamo soliti non
frequentarla, tracimano nei media e
ci arrivano agli orecchi, densi di oleosa volgarità, carichi di semplicismi
ignoranti, rozzi fino all’irragionevolezza, privi – talora – anche di umanità.
(L’altro giorno, solo per fare un esempio, leggevo su un giornale via internet i commenti dei lettori sulla
morte di un giovane imprenditore, in un orribile incidente cittadino; e mi sono
convinto che il nostro paese avrebbe prima di tutto urgente bisogno di uno
stuolo di psichiatri!). E tracimando, i rumori della folla, diventano magari opinioni
politiche di chi pesa solo la folla per il numero in cui si esprime e si
misura; e – lo abbiamo già detto, cfr. post
del 10/2/12 Ecologia della convivenza
– le opinioni diventano sentimenti e, spesso tragicamente, i sentimenti fatti.
Mettersi
in disparte, dicevamo, è
oggettivamente difficile e, pure, necessario, per preservare la nostra dignità
di individui, il rispetto della nostra stessa intelligenza, il deposito delle
nostre esperienze; spesso anche solo per pensare.
Si
dirà che questo desiderio di disparte
è segno di vecchiezza; forse, anche se non ho mai amato le folle, nemmeno
quando ero giovane (basti dire che ho fatto l’università fra il 67 e il 71 e,
forse, ho partecipato ad una sola assemblea, fra le tante che se ne tenevano!).
E’ certo che l’età porta con sé il desiderio di meno rumore (…ci bastano gli
acufeni!) ma anche arricchisce le possibilità della selezione: si arriva ad
un’età in cui, tra i tanti mali che gli anni trascinano con sé, si affaccia il
bene di poter isolarci dalle relazioni non più necessarie e di poter coltivare
solo quelle che ci piace scegliere, perché ci arricchiscono e ci fanno sentire
in un orto separato, non soli ma nemmeno…mal accompagnati; un orto coltivato
dal quale si può, beninteso, guardare fuori, anche insieme – perché sono lungi
da sentirmi un anacoreta; ma nel quale non crescono erbe selvatiche. E’ questa
la nostra umana disparte; per quella
a cui ci chiamasse Iddio non serve fare progetti.
Roma
6 settembre 2015
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