Il divorzio
(di Felice Celato)
Con qualche retorica per me talora fastidiosa, l’Italia – che ha veramente molto poche cose da festeggiare – “festeggia” invece i cinquant’anni dall’entrata in vigore della disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio (la famosa legge sul divorzio, come brevemente si chiama e… si canta).
Approfittando della giornata piovosa, mi sono messo a ricordare che cosa ha significato per me – allora giovane laureando (mi sono infatti laureato giusto nel 1971) – l’appassionata partecipazione al lungo dibattito che, prima ancora del referendum abrogativo (1974), aveva accompagnato l’approvazione della nuova legge.
Per quanto forse trasparenti ai lettori che da più tempo frequentano queste conversazioni asincrone, per far comprendere “il travaglio” di allora, giova forse fare un po' di “storia” (archeologia?) delle mie predilezioni culturali, che in fondo nel tempo non sono poi mutate di molto (magari sono solo diventate più aspre): fin da giovane liceale ho coltivato una vera (e forse un po' radicale) passione liberale (i miei uomini politici “preferiti”, quando ancora guardavo ai partiti, erano Giovanni Malagodi e Aldo Bozzi, del Partito Liberale Italiano); poi, giunto a Roma dalle amate Marche, mi ero legato ad un gruppo di giovani studenti cattolici, che si riunivano settimanalmente per fare insieme qualche lettura biblica, guidati da un affascinante prete oratoriano, straordinario predicatore ma anche (come cittadino) appassionato democristiano. Mi portavo dietro però la matrice liberale (e liberista, si direbbe oggi) dell’orientamento politico che, anzi, andavo consolidando; e condividevo, senza cesure, il sentimento anticomunista ed antifascista del buon prete, che in gioventù era stato anche un appassionato partigiano.
Poi, quando fu avviato il dibattito sulla richiesta di referendum, uno dei più lucidi promotori delle posizioni abrogazioniste era Sergio Cotta, un coltissimo professore cattolico che avevo conosciuto (e molto apprezzato) all’università; e confesso che alcune sue prese di posizione mi avevano convinto di un assunto da filosofo del diritto: gli istituti di diritto civile – si diceva in questo ambito – servono anche per “sorreggere” l’individuo quando, nella sua vita, si trova a confrontarsi con scelte personali che hanno effetti (diretti o potenziali) sugli assetti e sull’evoluzione della società; perciò occorre accettare che quegli istituti (e fra essi l’istituto del matrimonio) talora pongano anche limiti pesanti alla nostra libertà, in contemplazione di un superiore bene collettivo (nella fattispecie: la preservazione dell’unità familiare e della centralità sociale della famiglia). [NB: così mi pare di ricordare il senso delle cose; ma sto solo rievocando ricordi lontani e potrei risultare rozzo nella super-sintesi che ho appena fatto. Ne chiedo scusa in prevenzione.]
E dunque mi lasciai conquistare (all’inizio di questo dibattito civico/politico) proprio dalla tesi abrogazionista (che era ovviamente tutta di matrice cattolica); e come mio solito, privatamente mi schierai per il Sí (all’abrogazione) con vigore polemico da vero e proprio attaccabrighe – culturali, s’intende – spesso rendendomi anche antipatico (cosa che allora mi riusciva meglio di oggi….spero di potere dire, ex post), fors’anche “eccitato” da una certa antipatia che mi suscitavano (e continuano tuttora a suscitarmi) i cosiddetti laicisti (cioè, nel mio linguaggio, i laici ideologizzati a tal punto da negare in radice l’ambito della fede).
Alla fine, però, nel corso del dibattito pre-referendario le mie “radici” liberali ripresero vigorosamente il sopravvento e – dopo grande macerazione – votai convintamente per il No all’abrogazione.
A distanza di quasi 50 anni (il referendum si tenne nel 1974, come già ricordato) mi pare di poter dire che fin da allora abbia pesato sul mio orientamento – forse più di ogni considerazione di natura politica o anche semplicemente costituzionalistica – la certezza che le convinzioni del fedele non si prestano - per loro natura - né ad essere imposte né ad essere “sorrette” da alcuna legge, in quanto destinate a far parte esclusivamente del suo interiore patrimonio morale, quand’anche ispirate ad una visione del mondo che, come ogni altra, ha pieno diritto di competere nell’agone democratico. [Già allora, forse, si affacciava nella mia mente l’idea dell’ ineluttabile stato di minoranza – nel mondo che si andava costruendo – della condizione del fedele; una idea che mi spinge tutt’ora al fastidio per ogni tentativo di “rendere più gradevoli” - più "moderne", si direbbe con civetteria - le implicazioni morali della fede].
I cinquant’anni che sono passati da allora e da quei giovanili “travagli” mi hanno consolidato in questa convinzione; e molte delle storie umane che ho conosciuto nel tempo mi hanno anche confermato che la gestione di una crisi familiare (nelle travagliate esistenze umane) non può essere ingabbiata nell’angustia di negazioni legali (cioè formali).
Roma, 2 dicembre 2020
P.S. Prego i lettori di guardare con indulgenza quel po’ di senile autocompiacimento, che traspare da questi ricordi di fervori giovanili
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