Cosa c’è dietro l’angolo?
(di Felice Celato)
Molti commentatori dell’attuale vicenda pandemica indugiano spesso sui fall-out (per così dire) “benefici” di questa dolorosa esperienza che tutto il mondo sta vivendo, riferendosi – ovviamente – al dopo della sperata, prossima archiviazione definitiva della stessa (Fareed Zakaria ha addirittura dedicato un intero, corposo volume, Ten lessons for a post-pandemic world, Norton & Co, 2020, all’analisi di queste ricadute, potenzialmente “benefiche”): ci avrà insegnato – quando sarà finita, questa dolorosa esperienza – qualcosa in più della nostra reciproca interdipendenza? Ci avrà aiutato a fruire con intelligenza e saggezza delle grandi opportunità che la tecnologia ci offre per meglio organizzare la nostra convivenza? O a gestire con maggiore responsabilità il patrimonio di rischi ed opportunità del vivere contemporaneo? Ad avere più fiducia nella conoscenza (e nella competenza) e anche a valutare con maggiore consapevolezza le straordinarie conquiste che il nostro modo contemporaneo ci ha consentito di toccare con mano?
Difficile dire, ovviamente; perché, come osserva Zakaria, nonostante tutto nella storia dell’uomo nothing is written. Non ostanti le evidenze di certe lezioni (almeno per chi abbia la mente sgombra per cercare di apprenderle), tutto è ancora ambiguamente in mano (e alla portata) dell’umanità, della sua straordinaria vitalità e reattività, da un lato; ma anche delle sue capacità di commettere tragici errori di valutazione, dall’altro lato. Ma ci sono ragioni per sperare (anche secondo me, non sempre proclive alle speranze intra-mondane) che l’ormai prossimo numero di un milione e mezzo di morti in tutto il mondo non resti privo di significato per ciascuno di noi e per le nostre comunità; e di un seguito di riflessione (al riparo da ogni intento ideologico) per tutti quelli che restano, così stretti l’uno all’altro, a popolare il nostro sempre più piccolo pianeta.
Bene: in questo contesto che vogliamo vigorosamente definire speranzoso (per quanto doloroso sia stato il death toll che tutto il mondo sta pagando) c’è un aspetto che specificamente mi preoccupa: la panoplia di interventi (dico subito: in principio necessari ed inevitabili) che, a vario titolo, con varia intensità (e anche con differenziate intelligenze), tutte le comunità organizzate hanno dovuto (e voluto) porre in essere per arginare la frana delle rispettive economie, sembra aver riportato in auge una sorta di negazionismo debitorio: il debito (sia nella sua manifestazione privata che – ancor più – in quella pubblica) ha cominciato ad apparire (come il famoso salario degli italiani anni ’70) una variabile indipendente, sia che si tratti (per dirla con Draghi) di debito buono o di debito cattivo.
Ripeto: non sto qui a negare la necessità (congiunturale, si sarebbe detto una volta) di sostenere (anche ampiamente) con finanza pubblica le economie (domestiche, nazionali e comunitarie) traballanti per effetto della pandemia; temo però che all’interno di queste politiche si inasprisca la virulenza di un altro morbo che da tempo ci assedia (noi Italiani soprattutto) e per il quale non sono alle viste vaccini di sorta: il virus statolatrico; soprattutto quello della specie mercatofobica. Fateci caso: la pandemia si sta portando via ogni (da noi pur gracile) paratia fra stato e mercato, ovunque aleggia la soluzione nazionalizzatrice di crisi vecchie e nuove (sia che si tratti di acciaierie, di autostrade, di antiche banche, di compagnie aeree, di fabbriche di elettrodomestici o di altro).
Per ragioni che posso anche capire, vengo spesso trascinato in estenuanti distinzioni ed esemplificazioni miranti a spostare quelle paratie in considerazione delle più disparate e contingenti impostazioni di politica economica (e di non meglio chiariti interessi strategici): ho scelto da tempo di sottrarmi a questo tipo di disquisizioni di principio e di impostare la questione in termini sociologici: finché la selezione della classe politica rimane della qualità che abbiamo sott’occhio, inutile discuterne: meno stato e più mercato, restringere lo stato alle sue proprie funzioni (che non sono affatto di poco momento)!
Qui mi viene in mente una citazione dal bel libro che sto leggendo (di Alberto Mingardi, Contro la tribù – Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna, Marsilio 2020): E’ l'eterna cronaca del nostro presente: lo Stato interviene, aggrava il problema che doveva risolvere e per questo gli si chiede di intervenire di nuovo. Da nessuna parte ciò è chiaro come in Italia, paese la cui opinione pubblica è convinta nello stesso tempo che la classe politica sia composta esclusivamente da truffatori e la burocrazia solo da ignavi di professione, ma non c'è problema che l'intervento pubblico, che tipicamente è disegnato dai politici e messo in atto dai burocrati, non possa risolvere. Questa schizofrenia non appartiene soltanto a persone che, per loro fortuna, hanno un’esperienza superficiale e distante dalle decisioni della politica, ma è propria anche, forse soprattutto, di coloro che vi sono più prossimi: intellettuali, docenti universitari, esperti di ogni risma, giornalisti.
Roma 22 novembre 2020 (festa di Cristo Re, fine dell’anno liturgico)
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