L’era del WWW?
(di Felice Celato)
Come ho appreso l’altro giorno dalla interessante rubrica Media e dintorni (su Radio Radicale), pare che ricorra oggi il 30° anniversario della nascita del World Wide Web (WWW): il prototipo di quello che sarebbe diventato il motore diffusivo dell’accesso privato alla rete internet fu infatti presentato all’interno del CERN di Ginevra, dal ricercatore Tim Berners-Lee, proprio il 12 marzo del 1989; e successivamente reso di pubblico dominio e di libera accessibilità, come HyperText Transfer Protocol, il sistema che permette la lettura ipertestuale e non sequenziale di documenti, cioè saltando liberamente da un testo all’altro mediante un web browser che consente di navigare attraverso il patrimonio di conoscenze censito in tutto il mondo. In sostanza – mi pare di aver capito in base alle mie scarse nozioni di informatica – si trattò della data d’avvio della straordinaria, ampia diffusione di internet come veicolo di conoscenza (e di informazione) a libera disposizione di chiunque; una data – questo invece l’abbiamo capito tutti – veramente storica nel più recente corso dell’evoluzione dell’uomo e dei suoi modi di vita.
Francamente non riesco a comprendere gli atteggiamenti di coloro che sdegnano le straordinarie possibilità offerte dal sistema, esaltandone solo l’intrinseca (ovvia) ambiguità: l’accesso alla conoscenza non è la conoscenza; l’informazione, quand’anche corretta, non è competenza; e il mezzo non è il fine; va bene, guai a fare confusione.
Ma detto questo, pare difficile banalizzare l’enorme potenzialità degli strumenti che ilWWW ha posto a nostra disposizione; potenzialità che è, invece, assai più facile percepire, in via analogica, magari riandando indietro a pregresse esperienze di altri “salti” della storia, per esempio, all’epoca della nascita e della diffusione della stampa.
Bene. Messo da parte l’anniversario, viene però utile ritornare su un tema ormai pacifico fra gli studiosi di politica e di sociologia (e del resto accennato anche nel post che recentemente abbiamo dedicato alle Letture serie, parlando del libro di Yascha Mounk Popolo vs. Democrazia): il decisivo influsso di internet sui contemporanei modelli di democrazia.
Si può fondatamente disputare sulla complessiva positività di tale influsso (che Mounk, per esempio, definisce “corrosivo”, rispetto al “bene” della democrazia liberale), cioè sulla bontà della disintermediazione che ha interessato la vita politica (come del resto ha interessato quella pratica, di ogni giorno, dall’home banking al viaggio-fai-da-te); si potrebbe, ben a ragione, obbiettare che, in politica, la complessità del mondo moderno impone, invece, una profonda intermediazione tecnocratica, senza la quale la disponibilità di informazioni è comunque cieca (o addirittura fuorviante). Ma ancora una volta si tornerebbe all’eterno tema dell’ambiguità di ogni cambiamento, o, se volete, a quello ancor più generale del rapporto fra i mezzi e i fini: è l’uomo che deve fare, dei mezzi ( e di quelli nuovi in particolare), l’uso più saggio, siano essi, chessò, i mercati o la finanza o, per paradosso di più immediata comprensione, l’energia nucleare o l’elettricità (con la quale posso illuminare a giorno una città o bruciare un uomo legato ad una sedia). Ma è certo che la disponibilità di mezzi estremamente potenti avvicina, in via di principio, il conseguimento dei fini più ambiziosi, pur nella permanente ambiguità dei percorsi per – appunto – raggiungerli; ambiguità che, anzi, cresce a dismisura in funzione della potenza del mezzo (con una bicicletta posso sbagliare strada e arrivare nel villaggio sbagliato, con l’aereo – se sbaglio la rotta – posso arrivare nel continente sbagliato). Nel nostro caso (i modelli di democrazia), sappiamo bene che il fine più ambizioso (la perfetta coincidenza fra il volere del popolo e la piena coscienza delle sue decisioni) è assai difficile da conseguire (come dimostrano tante esperienze anche recenti); tanto da apparire quasi impossibile.
Eppure, per non ammettere che stavolta disponiamo di un mezzo del quale non riusciamo né a trarre tutti i benefici che offrirebbe né a padroneggiare gli effetti “corrosivi”, non appare pensabile la rinuncia alle potenzialità del mezzo, di fronte alla ambivalenza dei risultati che permette di conseguire.
Il fatto è che più complessa si fa l’esistenza dell’uomo nei molteplici ed articolati scenari del mondo, più pressante si fa l’immane esigenza di un umanesimo più educato, più cosciente, più responsabile. I cattolici, come me, potrebbero impopolarmente ricordare a sé stessi che l’uomo da sé non può fondare un vero umanesimo, come scrivevano Paolo VI e Benedetto XVI; ma volendo restare nel recinto di un ragionamento laico, dobbiamo comunque concludere che stavolta la potenza del mezzo pone senza dubbio sfide più che proporzionate.
Roma 12 marzo 2019
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