…e pensieri quaresimali
(di Felice Celato)
In questi giorni, i nostri fratelli ebrei festeggiano Purim, una festa che non ha equivalenti nel cristianesimo e che spesso viene considerata, a torto, una specie di carnevale degli ebrei, in ragione soprattutto della allegria di molte fasi della sua celebrazione. Si tratta in realtà – come spiegano gli esperti – di una celebrazione connotata di sensi storico-politici ma non priva di profondi significati religiosi, anzi messi in evidenza da alcune liturgie tradizionali che celebrano la presenza divina nella storia, nascosta dietro l’apparenza del caso (Purim significa tirare a caso).
Leggendone qualcosa qua e là (vedasi, fra gli altri, il bell’articolo di Ugo Volli, Purim, la festa della sconfitta anche militare dell’antisemitismo, sul sito progettodreyfus.com) non ho potuto fare a meno di considerare come il rapporto fra Dio e la storia costituisca da sempre uno dei punti più drammatici delle “architetture” delle nostre fedi (sia cristiano-cattolica che ebraica, e forse anche di quella islamica, della quale però so molto meno); forse il più drammatico, insieme al problema del male (del resto assai correlato al rapporto fra Dio e la storia, dell’uomo e degli uomini). In fondo, il senso stesso della preghiera ne è intriso (dacci oggi il nostro pane quotidiano, non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male): nell’Antico Testamento (basti pensare ai Salmi; ma, del resto, che cos’è l’intera narrazione biblica se non una cronaca ispirata della reciproca ricerca, nella storia del popolo eletto, dell’uomo da parte di Dio e di Dio da parte dell’uomo?); e, ovviamente, nel Nuovo Testamento; anzi, quest’ultimo è tutto incentrato sulla più pro-vocatoria delle concezioni di tale rapporto (Dio, attraverso il Figlio e lo Spirito Santo, interviene in prima persona nella storia, starei per dire vi fa irruzione prepotente, tanto che noi uomini abbiamo imparato a “spaccarla”, questa nostra storia, con la data dell’Incarnazione, ante e post Christum natum).
Le implicazioni di questo rapporto (fra Dio e la storia degli uomini, come singoli e come collettività) sono, come è facile intendere, anzitutto personali, sicché – credo – per ciascuno di noi esse toccano, appunto anzitutto, l’incontro fra il Sommo Bene e la nostra propria storia, intesa come esistenza, spesso intrisa di male. Ma esse sono anche implicazioni collettive, come lo furono quelle del rapporto fra Dio e il popolo eletto dell’Antico Testamento: chi non ricorda con sgomento le parole del Deuteronomio (31, 16-18) , dove Dio disse a Mosè, annunciandogli la sua morte imminente: ”Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri. Questo popolo si alzerà e si solleverà per prostituirsi con dèi stranieri nella terra dove sta per entrare. Mi abbandonerà e infrangerà l’alleanza che io ho stabilito con lui: io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati. Lo colpiranno malanni numerosi ed angosciosi e in quel giorno dirà: ’Questi mali non mi hanno forse colpito per il fatto che il mio Dio non è più in mezzo a me?’ Io, in quel giorno, nasconderò il mio volto a causa di tutto il male che avranno fatto rivolgendosi ad altri dèi”.
Se non ci fosse stata (per noi cristiani) la theologia crucis, con Cristo che prende su di sé il peccato del mondo e riassume in sé ogni vicenda fra Dio e l’uomo, il drammatico scenario del Dio che nasconde il proprio volto al suo popolo a causa della sua infedeltà non potrebbe non risuonare come profondamente inquietante anche alle nostre orecchie contemporanee, che tanto si sono fatte avvezze all’ascolto compiacente di ogni sorta di infedeltà (rispetto alla nostra natura creaturale).
Per fortuna, come ben a proposito ci ricorda anche la festa di Purim, la presenza di Dio nella storia si nasconde dietro l’apparenza del caso e i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri, le nostre vie non sono le Sue vie. Ci sarà dunque, senz’altro, fra i tanti casi di questi tempi, il caso ancora nascosto ai nostri occhi che cela in sé una luce nuova sulle cose, una luce che ora non vediamo, capace di risvegliare i sonnambuli che siamo diventati e di richiamarci semplicemente al nostro essere uomini, seri, buoni, creature di Dio pensanti e, perciò, partecipi del Suo Logos (anzi, immerse nel Suo Logos).
Roma 21 marzo 2019
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