Investimenti
(di Felice Celato)
Nell’ultima
Relazione della Banca d’Italia, quest’anno (mi pare per la prima volta),
compare (a pagina 51) un grafico sulle “Determinanti
della caduta degli investimenti” che fa fare interessanti considerazioni, in
qualche modo riferibili a ciò che dicevamo qualche giorno fa a proposito di sfarinamento della necessaria coesione
morale ed organizzativa del paese.
Prima
di tentarne una sintesi in parole, diamo un paio di dati interessanti:
- le imprese italiane dalla fine del 2006 (quindi ben prima della famosa crisi finanziaria cominciata nell’estate 2008, sulla quale di solito scarichiamo tutte le colpe) alla fine del 2014 hanno ridotto il volume degli investimenti del 30%; misurati in rapporto al PIL gli investimenti fissi lordi sono passati dal 21,6 al 16,9 % del PIL (fonte: ibid. pg 50);
- nello stesso periodo, dopo tanto gridare alla spending review, gli unici significativi tagli di spesa effettuati sono quelli fatti sugli investimenti pubblici, passati dal 5 al 3% del PIL (fonte: Lavoce.info, Massimo Bordignon, 22 5 15); più o meno giustificatamente è cresciuta quasi tutta la restante spesa pubblica corrente, prestazioni sociali comprese)
Bene;
e che ci dice in parole povere il grafico della Banca d’Italia? In fondo ci
dice cose ovvie: che, cioè, i fattori che spingono o comprimono gli
investimenti (dai quali, ricordiamolo, dipende la crescita dell’occupazione,
cioè il calo della disoccupazione) sono il valore aggiunto atteso delle
produzioni, l’offerta di credito e il costo del capitale, il clima di fiducia e
l’incertezza. Ma ciò che è particolarmente interessante notare (il grafico è
chiarissimo e si trova anche su Il sole
24 ore on line), oltreché
l’avvitarsi nel tempo dei pesi rispettivi di ciascun fattore, è che nell’ultimo
biennio (2013-14) le componenti più facilmente quantizzabili numericamente
(valore aggiunto atteso, offerta di credito e costo del capitale) hanno
progressivamente cessato o ridotto la loro influenza negativa; mentre, quelle
meno facilmente quantizzabili (incertezza e clima di fiducia), rimangono negative
o quanto meno debolissime.
Ecco,
lo sfarinamento produce (anche)
questo: ci manca – e ce ne sono quotidiane evidenze – la coesione morale ed organizzativa che è alla base di un clima di
fiducia, mentre perdura una grande
incertezza su che cosa voglia di sé il Paese (in fondo i risultati elettorali
ne sono testimonianza) e sui diritti che è disposto a garantire stabilmente a
chi investe (si pensi solo alle leggi ostili all’impresa che sono recentemente
passate o che stanno per passare, una miscela di giustizialismi populisti che
lo stato della nostra certezza del diritto rende difficilmente sopportabile per
chi voglia investire seriamente).
Ecco,
quando sento enunciare il mantra
delle riforme (che dobbiamo fare, dalle quali dipende il nostro futuro, che tutti
si attendono da noi, etc) mi viene il dubbio che non si abbia chiaro che non
sono certo le riforme del sistema elettorale, della scuola, del sistema
parlamentare, etc. che rimetteranno, nel breve, in trazione investimenti,
produzione e occupazione (riforme tutte, si badi bene, forse necessarie, per
carità, ma assolutamente non in grado di svegliare urgentemente l’economia,
come, invece, forse è stato – e lo vedremo nel tempo– il famoso job act); le riforme di cui abbiamo
necessità sono quelle che facciano pensare al mondo delle imprese (almeno a quello,
visto che lo Stato, anche per paura di non saper gestire i propri processi di
investimento, li ha fortemente tagliati!) che l’Italia è, di nuovo ed ancora,
un posto dove valga la pena spendere ora per generare futuri flussi di cassa
superiori all’investimento effettuato, dove l’impresa non è il nemico da
minare, dove lo Stato può restringersi senza danno per i cittadini, dove
l’imprenditore non è, salvo prova contraria a suo pesante carico, l’avido ladro
da cui guardarsi.
Senza
di ciò – per carità, posso sbagliare, ma
non credo – potremo vedere il nostro PIL aumentare di qualche decimale (finché
durano il petrolio basso, il costo del denaro ai minimi storici e il resto del mondo
che spende) ma molto oltre non andremo.
Roma,
6 giugno 2015
l’Italia è, di nuovo ed ancora, un posto dove valga la pena spendere... comprando aziende che evidentemente ancora valgono ma non per gli "imprenditori" che invece preferiscono fare cassa. In una situazione di questo tipo e' vantaggioso che lo Stato continui a restringersi? Claudio
RispondiEliminaIl problema è che, per riuscire a fare le "le riforme di cui abbiamo necessità", dato il cambiamento nel modo di fare politica in Italia, sono necessarie delle riforme delle istituzioni (tra cui legge elettorale, e sistema parlamentare, e aggiungo della giustizia) e della "cultura" degli elettori (sistema scolastico).
RispondiEliminaQueste riforme non sono popolari proprio perchè richiedono tanto tempo e non hanno effetti immediati, ma sono necessarie per fornire una nuova "potenzialità" alle nostre istituzioni di studiare e varare le riforme che hanno impatti più diretti (contratti di lavoro, fiscalità, welfare, aggiungo di nuovo la giustizia).
La strada che si sta prendendo è quella di fornire i mezzi per fare riforme "da soli" in tempi brevi, questo ci espone a riforme sbagliate (che non passano da processi di mediazione e condivisione), ma fornisce nuovamente al seguente legislatore gli strumenti per modificarla. Con tutto che non sono un "fan" di questo approccio, data la mentalità italiana in cui la propria opinione è quella giusta e tutte le altre sono SBAGLIATE, rifletto sul fatto che forse è l'unico sistema istituzionale che consente di muovere il paese da una stasi pluriennale