sabato 6 giugno 2015

Numeri e futuro

Investimenti
(di Felice Celato)
Nell’ultima Relazione della Banca d’Italia, quest’anno (mi pare per la prima volta), compare (a pagina 51) un grafico sulle “Determinanti della caduta degli investimenti” che fa fare interessanti considerazioni, in qualche modo riferibili a ciò che dicevamo qualche giorno fa a proposito di sfarinamento della necessaria coesione morale ed organizzativa del paese.
Prima di tentarne una sintesi in parole, diamo un paio di dati interessanti:
  • le imprese italiane dalla fine del 2006 (quindi ben prima della famosa crisi finanziaria cominciata nell’estate 2008, sulla quale di solito scarichiamo tutte le colpe) alla fine del 2014 hanno ridotto il volume degli investimenti del 30%; misurati in rapporto al PIL gli investimenti fissi lordi sono passati dal 21,6 al 16,9 % del PIL (fonte: ibid. pg 50);
  • nello stesso periodo, dopo tanto gridare alla spending  review, gli unici significativi tagli di spesa effettuati sono quelli fatti sugli investimenti pubblici, passati dal 5 al 3% del PIL (fonte: Lavoce.info, Massimo Bordignon, 22 5 15); più o meno giustificatamente è cresciuta quasi tutta la restante spesa pubblica corrente, prestazioni sociali comprese)
[N.B.: l’investimento, come sa anche un allievo della prima classe di ragioneria, è una spesa che si effettua oggi con l’obbiettivo di generare da essa futuri flussi di cassa superiori alla spesa iniziale maggiorata almeno degli interessi. J.M. Keynes scriveva, in ottica macroeconomica, che l’obbiettivo sociale di un investimento intelligente dovrebbe essere la sconfitta delle forze oscure del tempo e dell’ignoranza che aleggiano sul nostro futuro.]

Bene; e che ci dice in parole povere il grafico della Banca d’Italia? In fondo ci dice cose ovvie: che, cioè, i fattori che spingono o comprimono gli investimenti (dai quali, ricordiamolo, dipende la crescita dell’occupazione, cioè il calo della disoccupazione) sono il valore aggiunto atteso delle produzioni, l’offerta di credito e il costo del capitale, il clima di fiducia e l’incertezza. Ma ciò che è particolarmente interessante notare (il grafico è chiarissimo e si trova anche su Il sole 24 ore on line), oltreché l’avvitarsi nel tempo dei pesi rispettivi di ciascun fattore, è che nell’ultimo biennio (2013-14) le componenti più facilmente quantizzabili numericamente (valore aggiunto atteso, offerta di credito e costo del capitale) hanno progressivamente cessato o ridotto la loro influenza negativa; mentre, quelle meno facilmente quantizzabili (incertezza e clima di fiducia), rimangono negative o quanto meno debolissime.
Ecco, lo sfarinamento produce (anche) questo: ci manca – e ce ne sono quotidiane evidenze – la coesione morale ed organizzativa che è alla base di un clima di fiducia, mentre  perdura una grande incertezza su che cosa voglia di sé il Paese (in fondo i risultati elettorali ne sono testimonianza) e sui diritti che è disposto a garantire stabilmente a chi investe (si pensi solo alle leggi ostili all’impresa che sono recentemente passate o che stanno per passare, una miscela di giustizialismi populisti che lo stato della nostra certezza del diritto rende difficilmente sopportabile per chi voglia investire seriamente).
Ecco, quando sento enunciare il mantra delle riforme (che dobbiamo fare, dalle quali dipende il nostro futuro, che tutti si attendono da noi, etc) mi viene il dubbio che non si abbia chiaro che non sono certo le riforme del sistema elettorale, della scuola, del sistema parlamentare, etc. che rimetteranno, nel breve, in trazione investimenti, produzione e occupazione (riforme tutte, si badi bene, forse necessarie, per carità, ma assolutamente non in grado di svegliare urgentemente l’economia, come, invece, forse è stato – e lo vedremo nel tempo– il famoso job act); le riforme di cui abbiamo necessità sono quelle che facciano pensare al mondo delle imprese (almeno a quello, visto che lo Stato, anche per paura di non saper gestire i propri processi di investimento, li ha fortemente tagliati!) che l’Italia è, di nuovo ed ancora, un posto dove valga la pena spendere ora per generare futuri flussi di cassa superiori all’investimento effettuato, dove l’impresa non è il nemico da minare, dove lo Stato può restringersi senza danno per i cittadini, dove l’imprenditore non è, salvo prova contraria a suo pesante carico, l’avido ladro da cui guardarsi.
Senza di ciò –  per carità, posso sbagliare, ma non credo – potremo vedere il nostro PIL aumentare di qualche decimale (finché durano il petrolio basso, il costo del denaro ai minimi storici e il resto del mondo che spende) ma molto oltre non andremo.
Roma, 6 giugno 2015

2 commenti:

  1. l’Italia è, di nuovo ed ancora, un posto dove valga la pena spendere... comprando aziende che evidentemente ancora valgono ma non per gli "imprenditori" che invece preferiscono fare cassa. In una situazione di questo tipo e' vantaggioso che lo Stato continui a restringersi? Claudio

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  2. Il problema è che, per riuscire a fare le "le riforme di cui abbiamo necessità", dato il cambiamento nel modo di fare politica in Italia, sono necessarie delle riforme delle istituzioni (tra cui legge elettorale, e sistema parlamentare, e aggiungo della giustizia) e della "cultura" degli elettori (sistema scolastico).
    Queste riforme non sono popolari proprio perchè richiedono tanto tempo e non hanno effetti immediati, ma sono necessarie per fornire una nuova "potenzialità" alle nostre istituzioni di studiare e varare le riforme che hanno impatti più diretti (contratti di lavoro, fiscalità, welfare, aggiungo di nuovo la giustizia).
    La strada che si sta prendendo è quella di fornire i mezzi per fare riforme "da soli" in tempi brevi, questo ci espone a riforme sbagliate (che non passano da processi di mediazione e condivisione), ma fornisce nuovamente al seguente legislatore gli strumenti per modificarla. Con tutto che non sono un "fan" di questo approccio, data la mentalità italiana in cui la propria opinione è quella giusta e tutte le altre sono SBAGLIATE, rifletto sul fatto che forse è l'unico sistema istituzionale che consente di muovere il paese da una stasi pluriennale

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