(di Felice Celato)
Commentando
una mia forse ingenua opinione, peraltro non recente ma ripresa nell’ultimo post (il perdono come strumento della
politica, per sbloccarne la sopravvenuta futilità), un’amica mi ha indotto ad
approfondire la riflessione appunto sulla “dimensione politica” del perdono;
riflessione – è banale avvertirlo – che ha un senso solo se letta in chiave
meta-partitica, direi sociologica, in quanto riferita non alle vicende di
qualche singolo partito o addirittura di qualche singolo esponente dell’establishment politico, ma, invece, alle
constituencies che in qualche
modo hanno rappresentato le radici culturali delle vicende politiche del nostro paese
negli ultimi 30 anni.
Al
perdono siamo abituati a pensare in chiave etica o, se si vuole, religiosa (rimetti a noi i nostri debiti, come noi li
rimettiamo ai nostri debitori), connessa al peccato più che all’errore; ma
forse ce ne sfugge la dimensione pragmatica, direi, non a caso, politica. La
verità è, mi sembra, che nella valutazione delle cose del mondo e dei suoi
reggitori raramente ci soccorre ex ante la
piena percezione della loro fallibilità; non perché – ovviamente – li immaginiamo
esenti da errore, direi anzi tutt’altro: in fondo il nostro votare diversamente
da come si era votato nell’elezione precedente non è altro che una valutazione
sintetica di comportamenti che ex post
giudichiamo erronei, inappropriati o addirittura dannosi; ma, invece, perché,
nel momento in cui li votiamo, in fondo scegliamo di aderire, consapevolmente o
inconsapevolmente, ad uno schema mentale che è quello che ci viene proposto da
chi, lato sensu, chiede il nostro
voto, cioè quello dell’ottimismo senza
scrupoli (il termine è del filosofo inglese Roger Scruton in Del buon uso del pessimismo, Lindau,
2011, già citato mi pare, in questo blog)
basato sull’illusione della migliore
delle ipotesi, che, davanti alla
necessità di operare delle scelte in condizioni di incertezza, immagina il
miglior risultato possibile e presume che non serva considerarne altri.
Della
possibilità, anzi della probabilità, dell’errore non si tiene conto ex ante (salvo che non si sia coltivato….
l’irritante distacco del pessimista
assennato), anche se le vicende storiche, ma più in generale della vita,
insegnano ampiamente che l’errore di valutazione, di stima, di previsione, di
aspettativa dei comportamenti propri od altrui, è sempre in agguato e che ben raramente
si realizzano le migliori delle ipotesi. Per questa via l’errore scompare dal
nostro schermo (lo ripeto: ex ante)
sicché, quando ex post lo si
constata, ci appare quasi sempre
grossolano – quand’anche, magari, non lo sia stato in effetti –, definitivo e,
quindi, imperdonabile. E invece la possibilità di errore è una condizione
permanente dell’agire umano, che ben poco si presta ad essere realisticamente
richiamata quando si chiede il voto dell’elettore e che l’elettore stesso tende
a non considerare ex ante. Col senno
del poi, certamente, anche l’elettore che più si è abbandonato all’ottimismo senza scrupoli è in grado di
valutare l’errore e, salvo che non sia prigioniero di vincoli ideologici, non
pensa ad esercitare il perdono ma, tutt’al più, a mutare il suo voto, come in
fondo, dal punto di vista pragmatico, è anche giusto e comprensibile. Ora,
però, specie quando la prospettiva storica sia sufficientemente lunga, appare
evidente la perversa concatenazione di errori anche di segno opposto che hanno
nel tempo rese illusorie, come è fatale, tutte le migliori ipotesi via via –anche contraddittoriamente – proposteci
(in fondo il libro che commentavamo nell’ultimo post è quasi un’antologia di errori e contro-errori della nostra
politica economica); sicché l’arma estrema che abbiamo per combattere la loro
paralizzante evidenza è solo il perdono, il perdono politico, appunto, basato
sulla reciproca cancellazione delle doglianze per gli errori commessi, nella
certezza che il meccanismo democratico ha reso anche il più distante degli
elettori in qualche modo complice della collettiva dannosità di quegli errori,
se non addirittura, come nel caso esaminato dal libro di Tedoldi, beneficiario
diretto e individuale di quella collettiva dannosità.
L’alternativa
al perdono politico, del resto, è solo un ulteriore abbandono ad un nuovo ottimismo senza scrupoli che,
immancabilmente, ci proporrà lo schema consueto, una nuova organizzazione in cui non si facciano mai errori sicché, davanti alla necessità di operare delle
scelte in condizioni di incertezza, si dovrà di nuovo immaginare il miglior risultato possibile e
presumere che non serva considerarne
altri.
Roma,
14 giugno 2014
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