domenica 14 giugno 2015

Il perdono in politica

.....e l'ottimismo senza scrupoli
(di Felice Celato)

Commentando una mia forse ingenua opinione, peraltro non recente ma ripresa nell’ultimo post (il perdono come strumento della politica, per sbloccarne la sopravvenuta futilità), un’amica mi ha indotto ad approfondire la riflessione appunto sulla “dimensione politica” del perdono; riflessione – è banale avvertirlo – che ha un senso solo se letta in chiave meta-partitica, direi sociologica, in quanto riferita non alle vicende di qualche singolo partito o addirittura di qualche singolo esponente dell’establishment politico, ma, invece, alle constituencies che in qualche modo hanno rappresentato le radici culturali delle vicende politiche del nostro paese negli ultimi 30 anni.
Al perdono siamo abituati a pensare in chiave etica o, se si vuole, religiosa (rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori), connessa al peccato più che all’errore; ma forse ce ne sfugge la dimensione pragmatica, direi, non a caso, politica. La verità è, mi sembra, che nella valutazione delle cose del mondo e dei suoi reggitori raramente ci soccorre ex ante la piena percezione della loro fallibilità; non perché – ovviamente – li immaginiamo esenti da errore, direi anzi tutt’altro: in fondo il nostro votare diversamente da come si era votato nell’elezione precedente non è altro che una valutazione sintetica di comportamenti che ex post giudichiamo erronei, inappropriati o addirittura dannosi; ma, invece, perché, nel momento in cui li votiamo, in fondo scegliamo di aderire, consapevolmente o inconsapevolmente, ad uno schema mentale che è quello che ci viene proposto da chi, lato sensu, chiede il nostro voto, cioè quello dell’ottimismo senza scrupoli (il termine è del filosofo inglese Roger Scruton in Del buon uso del pessimismo, Lindau, 2011, già citato mi pare, in questo blog) basato sull’illusione della migliore delle ipotesi, che, davanti alla necessità di operare delle scelte in condizioni di incertezza, immagina il miglior risultato possibile e presume che non serva considerarne altri.
Della possibilità, anzi della probabilità, dell’errore non si tiene conto ex ante (salvo che non si sia coltivato…. l’irritante distacco del pessimista assennato), anche se le vicende storiche, ma più in generale della vita, insegnano ampiamente che l’errore di valutazione, di stima, di previsione, di aspettativa dei comportamenti propri od altrui, è sempre in agguato e che ben raramente si realizzano le migliori delle ipotesi. Per questa via l’errore scompare dal nostro schermo (lo ripeto: ex ante) sicché, quando ex post lo si constata, ci appare  quasi sempre grossolano – quand’anche, magari, non lo sia stato in effetti –, definitivo e, quindi, imperdonabile. E invece la possibilità di errore è una condizione permanente dell’agire umano, che ben poco si presta ad essere realisticamente richiamata quando si chiede il voto dell’elettore e che l’elettore stesso tende a non considerare ex ante. Col senno del poi, certamente, anche l’elettore che più si è abbandonato all’ottimismo senza scrupoli è in grado di valutare l’errore e, salvo che non sia prigioniero di vincoli ideologici, non pensa ad esercitare il perdono ma, tutt’al più, a mutare il suo voto, come in fondo, dal punto di vista pragmatico, è anche giusto e comprensibile. Ora, però, specie quando la prospettiva storica sia sufficientemente lunga, appare evidente la perversa concatenazione di errori anche di segno opposto che hanno nel tempo rese illusorie, come è fatale, tutte le migliori ipotesi via via –anche contraddittoriamente – proposteci (in fondo il libro che commentavamo nell’ultimo post è quasi un’antologia di errori e contro-errori della nostra politica economica); sicché l’arma estrema che abbiamo per combattere la loro paralizzante evidenza è solo il perdono, il perdono politico, appunto, basato sulla reciproca cancellazione delle doglianze per gli errori commessi, nella certezza che il meccanismo democratico ha reso anche il più distante degli elettori in qualche modo complice della collettiva dannosità di quegli errori, se non addirittura, come nel caso esaminato dal libro di Tedoldi, beneficiario diretto e individuale di quella collettiva dannosità.
L’alternativa al perdono politico, del resto, è solo un ulteriore abbandono ad un nuovo ottimismo senza scrupoli che, immancabilmente, ci proporrà lo schema consueto, una nuova organizzazione in cui non si facciano mai errori sicché, davanti alla necessità di operare delle scelte in condizioni di incertezza, si dovrà di nuovo immaginare il miglior risultato possibile e presumere che non serva considerarne altri.


Roma, 14 giugno 2014

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