Nostalgia dei ricci
(di Felice Celato)
La volpe sa molte cose ma il riccio ne sa una grande. Questo oscuro frammento di Archiloco (un lirico greco del VI secolo avanti Cristo) costituisce lo spunto di un affascinate saggio di Isaiah Berlin (uno dei grandi pensatori liberali del XX secolo) che mi è ricapitato fra le mani in questi giorni di pericolosa confusione (Il riccio e la volpe, Adelphi, 1986).
Esiste un grande divario – scrive Isaiah Berlin – fra coloro, da una parte [i ricci], che riferiscono tutto ad una visione centrale, ad un sistema più o meno coerente o articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire – un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono – e coloro, dall’altra parte [le volpi], che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati soltanto genericamente, de facto e per qualche ragione psicologica o fisiologica, non unificato da un principio morale o estetico. Le persone di questa seconda categoria conducono esistenze, compiono azioni e coltivano idee che sono centrifughe piuttosto che centripete, e il loro pensiero è disperso o diffuso perché si muove su molti piani, coglie l’essenza di una vasta varietà di esperienze e di temi per ciò che questi sono in sé, senza cercare, consciamente o inconsciamente, di inserirli in (o di escluderli da) una visione unitaria, immutabile ed omnicomprensiva, a volte contraddittoria e incompleta, a volte fanatica.
La dicotomia Berliniana non ha in sé valenze necessariamente qualitative: basti pensare che il filosofo inglese ascrive alla categoria dei ricci, fra gli altri, Dante, Platone, Hegel, Dostoevskij e Pascal; e alla categoria delle volpi, fra gli altri, Erodoto, Aristotele, Erasmo, Shakespeare, Goethe, Balzac e Joyce. E da tale dicotomia Isaiah Berlin parte per un lungo ed acuto saggio sul senso della storia in Tolstoj (una volpe che credeva fermamente di essere un riccio, dice Berlin), godibile soprattutto dai profondi conoscitori dell’opera dello scrittore russo (ed io non sono fra questi).
Darei per certo (non occorrerebbe precisarlo) che ogni comunità ha bisogno, in una certa misura, della combinazione dell’agilità della volpe e della coerenza del riccio; ma mi è sorta una curiosità, che va al di là di quella se io mi senta più riccio o più volpe (certamente più riccio): nella nostra comunità ci sono forse troppe volpi e pochi ricci?
Dico subito che la categoria dei ricci reca forse in sé una dose – per dirla in termini politici – di conservatorismo pauroso di ogni novità (in fondo il riccio è un animale scontroso e solitario, pronto a chiudersi – appunto a riccio! – in presenza di qualsiasi cosa lo minacci o semplicemente lo intimidisca); e certamente non mi riconosco – scontrosità a parte – in questa sua caratterizzazione zoologica. E, d’altra parte, sono lungi dal sentirmi addosso anche la più piccola parte di astuzia insidiosa che, zoo-tipicamente, attribuiamo alle volpi.
Fortunatamente, in un bel saggio di Ofir Haivry e Yoram Hazony (What is conservatorism?, in American Affairs, 2017), i due politologi dall’ Herzl Institute di Gerusalemme – la cui conoscenza devo ad una gradita segnalazione di un amico – si affannano a distinguere, con argomentazioni molto acute e convincenti, il conservatorismo (cui si ascrivono) dal liberalismo (cui, modestamente, ascrivo i miei sentimenti politici). Perciò mi sento corroborato, anche da questa opinione, nel ritenere che si possa essere profondamente liberali senza temere di apparire (a me stesso, prima di tutto) come un conservatore.
Semmai, dello zoo-tipo del riccio (secondo la descrizione di Isaiah Berlin), mi sento addosso la natura centripeta rispetto a quella centrifuga dello zoo-tipo della volpe (sempre secondo la descrizione di Isaiah Berlin).
Ma, uscendo dalle esigenze di personale disclaimer, domando a me stesso e ai miei lettori: non sentite anche voi un’acuta nostalgia, di qualcuno che sia in grado di legittimamente rivendicare un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono? [Penso, per esempio, al Ratzinger che emerge dalla bella raccolta di suoi scritti lato sensu politici pubblicata sotto il titolo Liberare la libertà, Cantagalli, 2018]. Oppure vi sentite a vostro agio in una comunità dove le volpi dominano, perseguendo, con pensiero… disperso o diffuso… molti fini, spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati soltanto genericamente, de facto e per qualche ragione psicologica o fisiologica? Personalmente non ho dubbi: ho nostalgia dei ricci e del loro ispido mantello che li rende praticamente invulnerabili ai predatori; purtroppo non alle volpi astute, che (spiega Wikipedia) urinando sull’animale appallottolato lo costringono ad uscire dalla corazza, per poi finirlo mordendolo sul delicato muso. Anche l’urina delle volpi può, talora, risultare insidiosa.
Roma 11 settembre 2019 (anniversario dell’attentato alle Twin Towers)
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