Marco Calpurnio Bibulo
(di Felice Celato)
Raccontano, le storie della Roma antica, che Marco Calpurnio Bibulo, che condivideva con Giulio Cesare la diarchia consolare in uno degli ultimi decenni della repubblica Romana, non riuscendo a sopportare lo strabordante ( e prevaricante) carisma del suo “socio” nella gestione della res publica, ad un certo punto abbandonò volontariamente l’esercizio del potere, ritirandosi nella sua villa per dedicarsi alla sua amata lettura dei segni celesti.
Sappiamo tutti come andò a finire: Giulio Cesare divenne console unico (ma i romani, beffardi anche allora, dicevano che i consoli erano sempre due, Giulio e Cesare) e poi dittatore; finché, nelle idi di marzo dell’anno 44 a.C., in un estremo tentativo di salvare la repubblica, Decimo Bruto e Pubblio Servilio Casca (ed altri congiurati) dovettero ucciderlo a colpi di pugnale, ai piedi della statua di Pompeo, in quella che oggi a Roma è la Piazza di Torre Argentina.
Come sia emersa dalla mia memoria questa vicenda sepolta nei ricordi del liceo, non saprei dire; forse – butto là un’ipotesi – è solo perché i giornali che raccontano in questi tristi giorni d’Italia le vicende della nostra politica nelle doglie del parto della Terza Repubblica, spesso hanno preso a chiamare diarchi gli onorevoli Salvini e Di Maio, in ragione – credo – della loro (pacifica, per carità, per quanto verbalmente aggressiva) occupazione della scena politica, nella totale assenza di ogni opposizione e forse anche di ogni costituzionale resistenza.
Allora fu dunque un problema di differente peso carismatico e, forse, di diversa avidità di potere, che a Cesare non mancò mai, durante tutte le sue scorribande politiche. E certamente non sarebbe nemmeno appropriato, anche solo scherzosamente, avanzare paralleli, fra l’altro anche poco benauguranti, sia per chi aspirasse ad essere il Giulio Cesare della situazione, sia per chi dovesse finire per fare la parte di Marco Calpurnio Bibulo; ma – a pensarci bene – nemmeno per la nostra bene amata repubblica. E poi – bisogna pure ricordarlo – quegli eventi del I secolo a.C. accadevano in una Roma militarmente, politicamente, culturalmente ed economicamente quasi all’apice del suo splendore; e, diciamo la verità, questo è ben lungi dal verificarsi per l’Italia di oggi, confusa nei suoi riferimenti internazionali, culturalmente devastata ed economicamente depressa sotto il peso del suo indebitamento e della sua scarsa efficienza.
Dunque, cari lettori di questo blog (che magari avete appena accettato le nuove inutili norme sulla privacy sottopostevi dal gestore del sito), considerate questa breve citazione di memorie liceali come una pura associazione di idee, senza intenti allusivi né tampoco analogici: mi è venuta in mente e come tale ve l’ho girata, sicuro che nessuno di voi si cimenterà nell’ozioso esercizio di preconizzare il ruolo di un tremolante Marco Calpurnio Bibulo per questo o per quell’altro dei nostri attuali cosiddetti diarchi: in Italia, vivaddio!, c’è ancora una Costituzione che, non sarà la più bella del mondo come andava fatuamente ripetendo la dimenticata Laura Boldrini, ma di diarchie non ne prevede alcuna. Di regole sì, ovviamente; ma queste – credo – nessuno si sogna di violarle con la stessa sicumera del pur simpatico Giulio Cesare; non foss’altro perché potrebbe portargli male.
Roma 25 maggio 2018
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