venerdì 15 luglio 2016

Dolore e rabbie

Il treno di Puglia
(di Felice Celato)
Non lascia indifferenti la lettura degli stralci di vite interrotte da eventi tragici, come quello del treno di Puglia.
Tutte le vite sembrano progettate per un loro naturale ciclo paraboloide, come potrebbe essere una curva di Gauss che concentra il massimo dell'intensità nei punti che più si allontanano dall'origine e dalla fine.
Quando questo ciclo s’interrompe con un taglio netto, prima della sua naturale consunzione  o, peggio ancora, prima di raggiungere l'apice dell'intensità, traboccano dal taglio le potenzialità inespresse, le speranze spezzate, le opportunità sprecate, gli affetti d’un tratto deserti mentre ancora erano vivi e si dispiegavano in progetti ed attese; e, come spesso accade, il sangue del troncamento si fa più rosso, più "assurdo", più "inaccettabile"; e si colora di rabbia. La difformità dal progetto, comprensibilmente, ci sconvolge come se di quel progetto fossimo a pieno titolo certi invece che esserne una mera parte proponente e operante.
E traboccano pure – con la consueta dose di "sdegni" –  le "richieste di giustizia" che vorrebbero compensare, su una ideale bilancia dei dolori, quello immane per le vite troncate con quello, vendicatore, dei portatori incoscienti delle latent failures, dei buchi neri delle nostre menti che spesso sono all’origine dei troncamenti (nella specie: quello dei capistazione che, per tragico errore, avrebbero alzato o abbassato l'arcaica paletta).
Certamente non possiamo più rimetterci ai "fati"; e l'incessante ansia di rendere sempre più sicuri i processi nei quali si dispiegano le dinamiche collettive dei nostri tempi ( primo fra tutti, il trasporto ) è tutt’altro che un inutile esorcismo contro la fatalità, come dimostrano le statistiche.
Ma ancora una volta (ne abbiamo già detto il 27 marzo 2015, all'epoca della tragedia dei Trois-Evechés, dove forse fu la follia a prendere il posto dell'errore fatale) non deve sfuggire al nostro turbamento, depurato dalla rabbia, che il carico dei nostri destini, qualsiasi sia il livello di sicurezza attesa dai relativi processi, resta, alla fine, affidato alla padronanza di sé che si richiede ad ogni individuo, in ogni momento, nell’illusione che sia possibile escludere anche l’emergere di un cedimento della mente o dell’attenzione, improvviso e travolgente; appunto, le latent failures del fattore umano, eterno e sfuggente limite di ogni processo di eliminazione del rischio del vivere.
Certo, possono esserci cause remote e profonde delle arretratezze infrastrutturali, delle inadeguatezze, delle omissioni; e non voglio dire che sia improprio andare alla ricerca di chi ne porta la responsabilità, sul piano politico o sociologico. Solo dico che, appunto, sono cause remote, indirette, non nuove, magari note e rimosse o a lungo sottaciute per qualche oscura convenienza o sorda trascuratezza. Focalizzare l’attenzione su queste cause remote può persino – per un po’ – sorreggere nel dolore e forse anche essere, per chi vi ha interesse, un utile strumento di politicizzazione delle disgrazie; ma certamente ostacola quella purificazione di cui anche il dolore – come spesso la memoria – ha bisogno per essere, esso stesso e fino in fondo, autentico e forse più umano.
Roma 15 luglio 2016


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