Il treno di Puglia
(di
Felice Celato)
Non lascia indifferenti la lettura
degli stralci di vite interrotte da eventi tragici, come quello del treno di
Puglia.
Tutte le vite sembrano progettate per un loro naturale ciclo
paraboloide, come potrebbe essere una curva di Gauss che concentra il massimo
dell'intensità nei punti che più si allontanano dall'origine e dalla fine.
Quando questo ciclo s’interrompe
con un taglio netto, prima della sua naturale consunzione o, peggio
ancora, prima di raggiungere l'apice dell'intensità, traboccano dal taglio le
potenzialità inespresse, le speranze spezzate, le opportunità sprecate, gli
affetti d’un tratto deserti mentre ancora erano vivi e si dispiegavano in
progetti ed attese; e, come spesso accade, il sangue del troncamento si fa più rosso, più "assurdo", più "inaccettabile";
e si colora di rabbia. La difformità dal progetto,
comprensibilmente, ci sconvolge come se di quel progetto fossimo a pieno titolo certi invece che esserne una mera parte
proponente e operante.
E traboccano pure – con la
consueta dose di "sdegni" –
le "richieste di giustizia" che vorrebbero compensare, su una
ideale bilancia dei dolori, quello immane per le vite troncate con quello,
vendicatore, dei portatori incoscienti delle latent failures, dei buchi neri delle nostre menti che spesso sono
all’origine dei troncamenti (nella specie: quello dei capistazione che, per
tragico errore, avrebbero alzato o abbassato l'arcaica paletta).
Certamente non possiamo più
rimetterci ai "fati"; e l'incessante
ansia di rendere sempre più sicuri i processi nei quali si dispiegano le
dinamiche collettive dei nostri tempi ( primo fra tutti, il trasporto ) è tutt’altro
che un inutile esorcismo contro la fatalità, come dimostrano le statistiche.
Ma ancora una volta (ne abbiamo
già detto il 27 marzo 2015, all'epoca della tragedia dei Trois-Evechés, dove forse fu la follia a prendere il posto
dell'errore fatale) non deve sfuggire al nostro turbamento, depurato dalla
rabbia, che il carico dei nostri destini, qualsiasi sia il livello di sicurezza
attesa dai relativi processi, resta, alla fine, affidato alla padronanza
di sé che si richiede ad ogni individuo, in ogni momento, nell’illusione che sia
possibile escludere anche l’emergere di un cedimento della mente o
dell’attenzione, improvviso e travolgente; appunto, le latent failures del fattore umano, eterno e sfuggente limite di
ogni processo di eliminazione del rischio del vivere.
Certo,
possono esserci cause remote e profonde delle arretratezze infrastrutturali,
delle inadeguatezze, delle omissioni; e non voglio dire che sia improprio andare
alla ricerca di chi ne porta la responsabilità, sul piano politico o
sociologico. Solo dico che, appunto, sono cause remote, indirette, non nuove,
magari note e rimosse o a lungo sottaciute per qualche oscura convenienza o
sorda trascuratezza. Focalizzare l’attenzione su queste cause remote può
persino – per un po’ – sorreggere nel dolore e forse anche essere, per chi vi
ha interesse, un utile strumento di
politicizzazione delle disgrazie; ma certamente ostacola quella purificazione
di cui anche il dolore – come spesso la memoria – ha bisogno per essere, esso
stesso e fino in fondo, autentico e forse più umano.
Roma 15
luglio 2016
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