Nullus
ventus
(di
Felice Celato)
Forse
l’ho già citata, su questo blog,
questa straordinaria considerazione di Lucio Anneo Seneca (I sec. d.C.), per
tanti aspetti, dopo duemila anni, così attuale e così amaramente applicabile al
nostro odierno collettivo dis-sentire: ignoranti
quem portum petat, nullus suus ventus est (che possiamo tradurre “nessun
vento è favorevole per chi non sa verso quale porto dirigersi”).
Starei
per dire che mi viene in mente ogni volta che leggo o ascolto le notizie e i
rumori del nostro tempo italiano; sì, italiano; ma, per la verità, non solo, se
devo giudicare dai tanti corti tragitti senza vera meta che sembriamo
imboccare, in Europa ma anche nel nostro mondo occidentale: se non sai dove
andare le tue vele saranno sempre inutili, quand’anche per un po’ ti sembrino gonfie. E’ la mancanza del senso, come direbbero i teologi o gli psicologi, che
disorienta e deprime e, alla fine, suscita le brevi emozioni, le mode emotive,
le pulsioni contraddittorie, le iper-reazioni o le vacue indifferenze di cui ci
nutriamo.
Forse
per questo, “sciapi e malcontenti”
(come diceva De Rita qualche anno fa), ci innamoriamo di pigre rappresentazioni
di effimere mete a favore del mutevole vento, che gonfia per un po’ le vele
minori, regalandoci per un breve tratto l’illusione di un viaggio. Anche noi credenti, non amiamo più pensare al
nostro credo come Verità che dà senso alla vita e mèta al viaggio, sembrandoci
che tutto (..o quasi) possa esaurirsi in un generico appello all’amore, che,
pur essendo virtù ardua ed essenziale e faticosa, paradossalmente finisce per
sembrarci un guscio vuoto da riempire
arbitrariamente (Benedetto XVI, Caritas
in Veritate, 3), sul quale è più facile raccogliere consenso per un viaggio
più breve.
Per
navigare con senso, nella vita o nel mondo, abbiamo bisogno di “sapere” il
porto verso il quale far rotta; per dirigere le vele verso il porto giusto
occorre saper leggere le mappe dell’esistenza e saperle orientare con l’ago
della bussola che ci indica la direzione; per tenere la rotta ci vuole studio e
fatica, perché i vènti sono mutevoli. E la fatica, si sa, stanca.
Il
solito lettore impertinente dirà: beh! Perché, oggi, questa nenia?
Per
quanto non ami chi risponde ad una domanda con una domanda, stavolta direi: ma,
cocco mio, tu li leggi i giornali, li ascolti i nostri leaders o anche, semplicemente, i nostri umori contemporanei, in
Italia ma anche qua o là in Europa? O, ancora più in là, hai mai letto, per esempio, “i programmi”
di Trump? E hai capito dove, collettivamente, vogliamo andare? Che cosa
veramente abbiamo in mente come futuro da vivere?
Io –
lo confesso con amarezza – no.
Il
fatto è, caro amico, che forse sto invecchiando e, come ogni “vecchio” si sente
a disagio in un mondo che gli pare smarrito, così talora mi sembra di essere vissuto
in un’epoca che ha via via rinunciato alla coscienza di sé, assordata dai suoi
propri rumori e ubriacata dei suoi propri umori. Certe volte arrivo a pensare
che forse a questo mondo smarrito, proprio noi, noi della generazione che è
stata adulta negli ultimi trenta o quarant’anni, abbiamo fornito, volendo e credendo
di dargli un luminoso futuro, i mezzi per disperdersi; così mi viene in mente
il dono di Eolo, il mitico re dei vènti, ad Ulisse: un otre che conteneva tutti
i vènti, anche quelli più tempestosi, dal cui collo uno stretto legaccio faceva
uscire solo un morbido soffio che spingeva la nave verso l’agognata Itaca,
tenendo intrappolati i vènti contrari: “eccelso
dono, che la nostra follia volse in disastro” narra l’Ulisse di Omero. E
difatti, immaginando che l’otre contenesse nascosti tesori, gli incauti
compagni di Ulisse, non paghi del vento favorevole che li spingeva verso il
porto desiderato, ne disserrarono il laccio. “Con furia ne scoppiar gli agili venti./La subitanea orribile procella /
li rapìa dalla patria e li portava / sospirosi nell’alto”
Roma,
26 gennaio 2016
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