1° maggio
(di Felice Celato)
Per quello che sono stati in Italia (attenzione: non per quello che avrebbero potuto essere) ho sempre avuto un rapporto difficile coi sindacati; e certamente, dei loro rumorosi primi di maggio, non ho mai apprezzato quasi niente. Eppure quest’anno ne provo un’intensa nostalgia. La loro densità sulla piazza San Giovanni, le loro retoriche comiziali piene di energia e di poco altro, le loro bandiere al vento e le musiche suggestive, in qualche modo mi mancano, fino al punto, per paradosso, di restituirmi – col vuoto della piazza – l’immagine in negativo di una stasi del lavoro che, inevitabilmente, vuol dire stasi del nostro modo di vivere.
Si è fermata l’Italia (ma non solo l’Italia), contratta dal virus e dall’immaginario fosco che lo stesso sparge a piene mani in un mondo confuso e impaurito, mentre volano gli elicotteri delle illusioni, le velleità di onnipotenza regolamentare, le misere contese che della politica portano solo il nome, senza evocare nemmeno l’abbozzo di un disegno.
Mi è capitato di domandarmi se le cupe previsioni che mi affollano la testa non siano esse stesse una specie di colpa, uno stigma del carattere, un segno di sterile vecchiaia o, quanto meno, un sintomo mentale della oscura potenza del virus. Eppure, anche senza scomodare il pessimismo assennato di Scruton e solo ripercorrendo i tanti argomenti che mi affannano la mente, tristemente mi conforto del loro fondamento; sicché la cosa più sana che riesco a mettere insieme in queste ansiose giornate sono… i passi che – nel sostanziale rispetto delle minuziose discipline che regolano i nostri comportamenti nel tempo di “peste” – riesco ad inanellare fino alla stanchezza fisica; che, almeno, mi aiuta a prendere sonno.
Il fatto è che questa strana scossa pandemica (esaltata ovviamente da una connotazione info-demica, mancata a tutti i “precedenti” storici del genere pandemico) sembra indicare chiaramente il bisogno (anzi, l’urgenza) di una riprogettazione, non solo (e non è poco) delle nostre modalità di materiale convivenza (un solo esempio banale: la convivenza “distanziata” nelle classi scolastiche); ma anche – così torno a quello che dicevo all’inizio – delle nostre più complesse modalità di produrre (relativa) ricchezza e (relativo) benessere, in progressione mai vista nella storia e pur in un contesto demograficamente raddoppiato in poco più di 50 anni (chi non è convinto che ciò sia realmente accaduto, può guardarsi le dinamiche mondiali della povertà, della mortalità infantile, della vita media, dell’educazione, etc. che facilmente si trovano su ourworldindata.org).
Si dirà che, come spesso avviene nella storia degli uomini, ben presto le abitudini digeriranno le emozioni della info-demia, magari dopo averle a lungo ruminate; può essere, anche se non ne sono del tutto convinto: ho osservato persone colte e pensose (anziane e giovani) adattarsi con tanto scrupolo alle minute prescrizioni di legge governative, che devo pensare non ad una transitoria emozione negativa ma ad una radicazione profonda delle cupe paure che il virus ha seminato nel mondo.
Sarà come sarà (meglio non fare previsioni!), ma – non foss’altro nel breve-medio termine, almeno durante il periodo di ruminazione degli esiti pandemici – la scossa all’albero delle nostre economie sarà forte; e non sarà certo la finanza ad arrestarla, potendo essa – lo dovremmo ricordare tutti – solo distribuire nel tempo le manifestazioni monetarie degli eventi economici, mettendo nel conto i rischi del tempo.
E allora, che c’entra tutto ciò col 1° maggio? Niente, è solo che la nostalgia porta spesso lontano con la mente; e così mi è capitato di pensare alle leadership che si manifestano nelle piazze, sui palchi davanti a folle plaudenti e a quelle – necessarie al presente – che si manifestano con un progetto e con la capacità di realizzarlo.
Roma 1° maggio 2020 (già Festa del Lavoro)
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