….e le nostre vaghe speranze
(di Felice Celato)
Proprio mentre incostantemente declina (e speriamo che continui a declinare!) il tasso di crescita quotidiana del contagio, mi sono trovato ad ultimare la terza o quarta rilettura di quell’autentico capolavoro che è La peste di Albert Camus. E – nella speranza che la nostra “peste” stia anch’essa finendo e che il famoso lockdown volga alla sua naturale ed integrale remissione – mi hanno fatto riflettere le considerazioni di Tarrou, uno dei più stretti amici di Bernard Rieux (come noto, il protagonista del romanzo) e lui stesso coprotagonista, sul finire della immaginaria peste di Orano e poco prima della morte, per tardivo contagio, dello stesso Tarrou: dunque Tarrou pensava che la peste avrebbe cambiato la città e nel contempo non l'avrebbe cambiata, che naturalmente il più grande desiderio dei [suoi ] concittadini era e sarebbe stato fare come se non fosse cambiato niente e che, quindi, in un certo senso niente sarebbe cambiato, ma in un altro senso [che] non è possibile dimenticare tutto, anche con la debita forza di volontà, e [che] la peste avrebbe lasciato delle tracce, perlomeno nel cuore degli uomini.
Allora mi sono domandato: che cosa, noi (almeno provvisoriamente sopravvissuti), in fondo speriamo per il dopo Covid? E, per non sbagliarmi nell’interpretazione dei sentimenti degli altri, io stesso che cosa spero per noi e per la nostra collettività?
Certo, per pensare in positivo, se anche non mi attendo che tutto cambi, che i frutti di questo doloroso cammino siano, tutti, succosi portatori di energia e di collettiva vitalità, tuttavia, come accade a Tarrou, mi pare giusto pensare che non [sarà] possibile dimenticare tutto,... e [che] la [“nostra”] peste [lascerà] delle tracce, perlomeno nel cuore degli uomini; e magari – auspicabilmente – anche nelle teste di noi che (per ora) siamo sopravvissuti, in fondo senza gravi traumi, alla pandemia da Coronavirus.
Beninteso: che l’Italia – nel suo compendio psico-sociologico – abbia confusamente sperato per sé, nel drammatico corso del picco pandemico, una liberatoria palingenesi integrale, non mi sorprenderebbe; ancorché, in un paese tanto accesamente diviso come il nostro, si sia fatto così difficile immaginare un autentico sentimento collettivo che “ricapitoli” ciò che il Paese vuole per sé. Ma quel che purtroppo mi pare molto probabile è che, nei fatti, sarà difficile non trovarci con un’ambiente umano meno frazionato e diviso di quello che da tempo ci caratterizza, una volta che si saranno appieno manifestate le scorie avvelenate della mentalità parassitaria di massa (copyright Luca Ricolfi, su Huffington Post dell’ 8 maggio u.s.) indotta dalle modalità scelte per fronteggiare la crisi (la faglia fra i protetti e i non proteggibili tenderà inevitabilmente a contrapporci gli uni agli altri).
Eppure, provo a ragionare in positivo, in omaggio allo scheletro contadino vagheggiato da De Rita nel post-crisi del 2011: immaginiamo che – come dice Ricolfi – il governo più risolutamente iper-statalista della storia della Repubblica, per non voluto paradosso, sia riuscito nel miracolo di restituire una sorta di “coscienza di classe” alla parte produttiva del paese; e che questo basti a porre all’opera quel bisogno di fantasia e di apertura mentale di cui abbiamo non recente ma urgente bisogno. Bene; sulla base di tali assunti, che Italia post-Covid possiamo sperare di vedere (negli anni che ci sono rimasti)?
- Un’Italia più conscia della comune interdipendenza, economica prima che politica? E, per conseguenza, un’Italia più aperta verso il resto del mondo (e dell’Europa in primis) e più intelligente e meno chiassosa nel gestire le relazioni che tale apertura postula? Forse, un po’ è possibile sperarlo; d’altra parte – per quanto poco credito si voglia riconoscere alla nostra intelligenza – è difficile pensare che non ci si sia resi conto di quanto abbiamo sperimentato in corpore vili, di come funziona il tessuto economico del mondo moderno, delle inestricabili interconnessioni fra il domestico e “l’altro”.
- Ma anche è possibile sperare in un’Italia più conscia della differenza concettuale fra economia (produzione di ricchezza e di benessere) e finanza (ridistribuzione temporale delle manifestazioni monetarie dell’economia, grazie ai soldi dei creditori)? Anche questo è possibile sperarlo; ma solo a condizione che si sviluppi d’improvviso quella solidarietà intergenerazionale che fino ad oggi non abbiamo coltivato, anche in tempi di vacche (relativamente) grasse.
- Infine (per così dire): è possibile sperare un’Italia che riconosca profondamente la sua drammatica carenza di cultura, di preparazione tecnica e scientifica adeguatamente riconosciuta? Qui sono ancora più cauto: durante la gestione della crisi, in fondo, quello che si è ritenuto più semplice fare è stato chiudere a inizio di marzo scuole ed università, senza nemmeno sforzarsi di immaginare un seguito di più intensificate cure per questo settore così decisivo per ogni paese moderno.
Tutte queste cose, infinitamente dettagliabili, possono costituire la tela delle nostre speranze; e allora – se le speranze generano energie – si potrà dire che – nonostante tutto – al Covid saremo sopravvissuti.
Mentre sperava, forse, cose un po' diverse per Orano, Tarrou – come ricordavo all’inizio – moriva di peste. Io, per ora, mi sono limitato a….farla un po' lunga.
Roma 20 maggio 2020
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