Al triste vento
(di
Felice Celato)
L’avevamo
previsto oscuro (“2012, un anno oscuro”
post del 4 gennaio), quest’anno 2012 che si avvia a svoltare verso la metà
calante. E tante cose – al di là di quelle troppo facili da prevedere – non
avevamo né previsto né avuto ragione di immaginare: anche -ovviamente - il terremoto che
uccide fra la forte gente d’Emilia e sbriciola capannoni, case, chiese e
campanili; anche il corvo della camera papale; anche le goffe beghe vaticane; anche
i nuovi scandali; anche la ripresa del terrorismo non avevamo potuto prevedere
(sebbene, quest’ultima, avessimo ragione di temerla).
Ed
ora, mentre si avvicina il periodo più luminoso dell’anno, mi viene in mente
l’oscurità che prevedevamo; in larga misura, non fino a tanto.
La
tristezza e lo sgomento che ci pervadono, mi richiamano alla mente la disperata
poesia di guerra di Quasimodo, ispirata al canto degli ebrei deportati a
Babilonia (Salmo 136): “Alle fronde dei salici, per voto,/anche le nostre cetre
erano appese,/oscillavano lievi al triste vento”.
Al
triste vento che ci scuote come uomini e come società e che solleva la polvere
dalle macerie di Rovereto sulla Secchia, sale la domanda di sempre: perché
anche il buon parroco che voleva solo mettere in salvo la statua della Madonna?
Perché anche gli operai di Medolla, di San Giacomo Roncole, di San Felice e di
Cavezzo, che lavoravano per far rifluire la vita? Perché tutti gli altri?
Al
triste vento che ci scuote come fedeli, risuonano le parole del Papa
nell’omelia pentecostale: “Non ci
accorgiamo che stiamo rivivendo la stessa esperienza di Babele….? Tra gli
uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di
timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l’uno per l’altro?”
Al
triste vento che ci scuote come cittadini ondeggiano i timori sui recessi
maligni dell’animo umano, le memorie di un periodo folle della nostra storia e
le ansie per un presente che non riusciamo a governare (e che – così pare troppo
spesso – fatichiamo a comprendere).
Al
triste vento oscillano le nostre domande silenziose, alcune senza umana
risposta, altre non senza umana vergogna. Le nostre cetre rimarranno, temo a
lungo, appese ai salici, nell’attesa di una nuova breve speranza che si
affianchi a quella lunga ed antica.
Roma,
31 maggio 2012
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