sabato 28 marzo 2020

Le ore nel lazzaretto

Il sole e le lampade ad olio
(di Felice Celato)
Stanotte, come ogni anno, entra nel nostro quotidiano l’ora legale. Questo piccolo “trucco” che il nostro mondo pone in essere stagione per stagione (mettere in avanti, per qualche mese, le lancette dell’orologio per rubare tempo all’oscurità) prende il posto del consueto conteggio delle ore secondo la convenzione del “tempo solare”. 
In fondo l’ora legale, pensata per risparmiare energia elettrica quando il tempo del buio si fa più breve, corrisponde anche al desiderio di luce che abbiamo connaturato, da quando lasciamo l’utero delle nostre madri: ci piace avere, ogni giorno, più ore di chiaro a disposizione, per godere più a lungo, durante la nostra giornata, della luce e di quello che essa significa per ciascuno di noi, se abbiamo la fortuna di vedere. Così, quando le notti si fanno più brevi, ci pare opportuno di abbandonare il convenzionale conteggio del tempo quotidiano e rubare alle ventiquattro ore uno spazio più largo per la luce vissuta. Ci siamo abituati da tempo (mi pare che nella nostra generazione si cominciò ad usare l’ora legale a metà degli anni ‘60), sicché l’annuale rito delle lancette spostate in avanti non avrebbe nulla per farsi notare. Eppure quest’anno il ritorno dell’ora legale ha assunto per me un sapore speciale: mi pare portare con sé, quest’anno, un desiderio particolare di luce, una voglia spasmodica di voltare in fretta le pagine di questo buio periodo di “peste”; non solo per i molti morti e i tanti dolori, per fortuna non vicini; non solo per l’oscuro vagare delle nostre conoscenze del male che gira in mezzo alle nostre case e ci fa temere anche la vicinanza di nostri consimili; non solo per il triste conteggio quotidiano dei nuovi attinti dal virus,  per l’isolamento fisico da familiari ed amici o per le limitazioni alla nostra libertà; ma anche per le cupe ombre sul nostro futuro, di cui parlano le pagine di questo buio periodo: non abbiamo ancora idea di quanto sarà pesante il fardello che “la peste” sta caricando sulle nostre spalle, sappiamo solo che sarà molto pesante, al limite delle nostre capacità di portarlo. Ah! certo, hanno a loro modo ragione i tanti “continuisti” (che si ripetono scioccamente, passerà, andrà tutto bene, in fondo il mondo ne ha visti tanti di mali, anche peggiori!). Se guardiamo alla nostra storia, certamente, ore così buie non sono nuove (ce ne è state anzi di molto peggiori, anche se noi forse non le abbiamo direttamente vissute); e alla fine, in qualche modo ne siamo usciti: l’uomo è più resistente di quanto esso stesso non sia portato a credere di sé. 
Tutto vero. Ma noi siamo qui ed ora; il passato – proprio perché è passato – non ci sta davanti, sta alle nostre spalle e possiamo solo rievocarlo, magari sfogliando libri di storia comodamente seduti sul divano o ascoltando i nostri genitori – se li avessimo ancora – mentre ci raccontano come l’hanno vissuto, allora, quando il nostro passato era il loro oggi o il loro sperato futuro. Ma la nostra vita, per il tempo che Dio ci vorrà concedere, a noi ed ai nostri cari, si dipanerà tutta nel futuro, che ci preme più di ogni rievocazione del passato. E la luce ci preme per questo tratto della nostra vita, per quanto breve possa essere.
Ecco, la luce cui aneliamo (e che questo piccolo "trucco" dell’ora “legale” in qualche modo, forse emozionato, mi evoca) è certamente luce di vita; ma anche di intelligenza e di umanità. Al buio (quello della notte e dei dolori) vorremmo lasciare meno tempo, meno spazio nelle nostre giornate; e con esso – speriamo – anche ai tristi mestatori di discordie e di rancori, ai maneggioni di opinioni, ai pescatori nel torbido, agli intorbidatori di acque, che con maleodoranti lampade ad olio sanno solo inquadrare i tratti del buio più vicino. Le più numerose ore di luce che ci apprestiamo a vivere ogni giorno, portino con sé molto sole; anche se la luce lascia intravvedere strade molto dure, se  c’è il sole non servono lampade ad olio.
Roma 28 marzo 2020

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