Emigrato dal
passato
(di Felice Celato)
Fila, l'altro ieri, all’anagrafe, per incombenze varie: davanti a me fanno la coda, silenziosi, due
immigrati, forse africani. Non ho potuto fare a meno di cercare di indovinare i
loro pensieri mentre si sottoponevano con timidezza alle incertezze e alle arroganze delle nostre polverose burocrazie: mi sembrava di leggere nei
loro occhi la nostalgia dei grandi spazi ariosi che si erano lasciati alle spalle,
che avevano barattato con la speranza di un radicamento meno difficile, di una
vita meno affannosa, di una pace meritata per le sofferenze e la miseria
patite. Inevitabilmente mi è andato il pensiero al nonno materno (che non ho
conosciuto), emigrato in America, agli inizi del secolo scorso, per costruirsi un migliore futuro: anche lui, avrà pensato tante
volte, con tutta la nostalgia che la solitudine acuisce, all’Umbria verde (e,
allora, povera) che aveva lasciato, mentre faticava nelle miniere grigie della (ricca)
Pennsylvania, lo stato Americano che l' aveva accolto – così mi raccontavano – con tanta fatica ma anche con tante opportunità.
Dell’emigrazione cogliamo facilmente la connaturata dimensione spaziale (e anche quella culturale): si muove da un luogo, di solito
povero, insicuro, talora violento, e, sull’onda di una ignara speranza (e
forse perciò veramente speranza), si ricerca un altrove di pace, di vita più
sicura, di minore indigenza, liberando energie vitali, magari sconosciute ai
loro stessi portatori, per radicarsi in contesti talora ottusamente ostili, dei
quali non si conoscono la lingua e i costumi.
Per
nostra fortuna, mi è venuto di pensare, degli affanni di questo sradicamento spaziale e
culturale noi non abbiamo conosciuto che i cascami, quando una vaga solidarietà,
che sarebbe disumano non provare, ci fa almeno riflettere sulle tante storie
dei migranti; e facciamo persino fatica ad immaginarne la fatica.
Allora,
non senza coscienza dell’incomparabile diversità
delle nostre esperienze, ho cercato tuttavia, fra di esse, un parallelo, almeno
lontanamente paragonabile a questo dépaysement
degli emigrati: e mi è venuta in mente – forse per una insopprimibile
inquietudine sul nostro futuro – una dimensione temporale dell’emigrazione: mi
sono pensato, cioè, come un emigrato dal passato, non del passato, come mio
nonno materno; ma DAL passato.
In
fondo, credo, un po’ tutti noi di una certa età siamo come i migranti che (per
fortuna nostra) tanto più spesso vediamo popolare le nostre città, i nostri
paesi e le nostre campagne: abbiamo lasciato, portati dai barconi del tempo,
gli habitat umani, culturali e
sociali in cui siamo nati e siamo emigrati in quelli in cui viviamo, dove, io,
almeno, per mia fortuna, non ho fatto alcuna fatica a radicarmi; in fondo il
presente e il futuro mi hanno per lungo tempo appassionato, ho sempre guardato
alle novità con passione e fiducia.
Eppure,
col volgere degli anni, qualcosa del
nostro presente e i timori per quello che ne può nascere mi hanno portato
indietro con nostalgia verso “ la madre patria” che abbiamo lasciato (il nostro
passato), della quale, nonostante che ne siamo emigrati verso il presente,
ricordiamo inevitabilmente solo le cose belle, come gli spazi ariosi dei due
immigrati africani.
E, dunque, si parva licet componere magnis, il tempo è stato come il nostro “mare monstrum”
che abbiamo attraversato con speranza; e, il presente, talora finiamo per sentirlo come un centro di
accoglienza nel quale ci sentiamo confinati e che ci esclude dal futuro che
avevamo immaginato.
Mi
perdonino, gli immigrati, per questo accostamento fra dimensione spaziale e dimensione
temporale della loro e nostra esperienza, che potrebbe sembrare in
qualche modo irrispettoso della loro fatica esistenziale; si tratta, in realtà, di una semplice considerazione
suggerita dal passare del tempo; anzi, forse,
anch’essa può essere un modo per farceli sentire meno estranei.
Roma
5 gennaio 2014
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