Emozioni, semplici emozioni
(di Felice Celato)
La prima metà di quest’anno orribile se n’è già andata senza risparmiarci affanni, nuovi ed antichi. Mentre sembra scendere (a coda di topo, si direbbe negli ambienti che ho tanto a lungo frequentato) l’impatto pandemico diretto sul nostro fragile paese, cresce invece a proboscide di elefante (stesso linguaggio, stessi ambienti) l’impatto socio-economico del post-pandemia, nella speranza che di "post" si tratti e non di una tragica pausa.
Confesso che, se all’inizio di questa vicenda non mi ero aspettato una tale profondità dell’impatto sanitario, l’ampiezza di quello socio-economico mi era parsa chiara fin dall’inizio; e ciò non certo per particolari doti di preveggenza, ma per il semplice motivo che un paese-colibrì (copyright mio, con qualche debito verso il romanzo di Sandro Veronesi, cfr. post del 19 giugno 2020), così concentrato nel restare fermo a mezz’aria, una società così priva di intenzionalità collettiva (copyright: De Rita) come la nostra, mi sono parsi strutturalmente privi degli stamina necessari per trarsi fuori dai guai. Certamente, per la dimensione che ha assunto, il problema post-covid non è solo nostro; e ciascuno avrà i suoi problemi per tirarsene fuori. Ma – spero di sbagliarmi – i nostri saranno più grevi (sic, grevi!) e più incidenti nel corpo della nostra società; sia per le condizioni di partenza, sia in ragione della nostra attuale identità asistemica (copyright: De Rita), sia per le fratture della nostra collettività, sia, infine, per la nostra profonda difficoltà a fare i conti con la realtà. Vedremo.
Dunque, mentre stavo amaramente ruminando questi pensieri, proprio l’altro ieri mi è capitata sotto gli occhi la pericope di Matteo (8,23-27) sottopostaci dal Messale quotidiano del tempo ordinario e pressoché identica in Marco (4, 35-41) e in Luca (8, 22-25). E’ uno dei passi dei tre Sinottici nei quali la salvezza si declina (anche) in termini “mondani”: Maestro, non t’importa che siamo perduti? (Mc 4,38). Il Signore è qui, anche quando, semplicemente, la barca sembra essere travolta dalle onde; e Lui sembra addormentato.
La magnifica omelia del p. De Bertolis nel giorno di San Pietro e Paolo (chiesa del Gesù, ore 10), fra le altre, esponeva una riflessione “strana”, che mi ha colpito: in fondo – diceva più o meno il predicatore – nella famosa frase “Tu sei Pietro e su questa pietra…etc” c’è racchiusa la storia straordinaria di Roma, il luogo dove, abbandonata la terra d’Israele, Pietro e Paolo, sospinti dallo Spirito, sono venuti a far crescere la Chiesa, cattolica, apostolica e romana. Nelle mie cupe riflessioni sul nostro tempo, mi è parso di potermi dire che questa nostra vocazione storica non può essere dimenticata dal Signore del Tempo. E allora, caduto l’impero Romano, trasformato in un cumolo di rovine, il nostro faro è restato acceso, nonostante le ingiurie dei tempi e le incurie degli uomini. E per quanto temibili, anche i nuovi barbari non praevalebunt.
Chiedo scusa ai miei lettori per questa confusa ondata di emozioni, nella quale, come in ogni emozione, i piani dei concetti si mescolano e si confondono; per una volta (forse, per la verità, non proprio unica) mi sono abbandonato pubblicamente ad essa. E mi è restato in mente l’emozionato stupore dei poveri pescatori del mare di Galilea: Chi è mai costui che perfino i venti e il mare gli obbediscono?
Roma, 2 luglio 2020
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