Discontinuità e continuismo
(di Felice Celato)
I lettori di queste mie note sanno bene con quanto interesse e passione segua le analisi e le opinioni con le quali Giuseppe De Rita, da oltre mezzo secolo, accompagna le vicende sociologiche di questo nostro stanco paese; eccomi dunque a segnalare un piccolo volume (Come cambia l’Italia – Discontinuità e continuismo, e/o editore, Collana di pensiero radicale, 2020) che raccoglie tre brevi saggi di De Rita (Il Consolato Guelfo – Un’ipotesi di governo del futuro; Il cimento del continuismo nelle turbolenze della discontinuità; e, infine, Di ritorno dalla disintermediazione) come al solito lucidi, ragionati e….dolenti.
Il medico pietoso lascia la ferita infetta, era solito dire mio padre, come per giustificare il temporaneo abbandono della impostazione liberale nell’educazione di noi figli, quando – raramente, per la verità – si vedeva costretto ad irrogare qualche punizione o ad imporci qualche divieto. Perciò, anni fa, quando mi venne in mente, ebbi qualche remora a pensare Giuseppe De Rita come un medico pietoso; ma il senso che mi parve (e tuttora mi pare) appropriato attribuire alla piccola metafora non era quello del medico che rinuncia alla cura per non causare dolore al malato (potrei fare molti esempi tratti dalla politica nostrana!) ma quello del medico che, dopo profonde e dolorose disinfezioni delle ferite, prova una profonda pietà per il malato che ama. Credo che chi voglia capire più a fondo la com-passione di De Rita per il paese che da cinquant’anni disseziona con le sue analisi, dovrebbe fare l’esercizio (molto interessante) di rileggere in sequenza le sue Considerazioni generali con le quali introduceva l’annuale Rapporto Censis (le ha raccolte e commentate in un volume che credo di aver già segnalato ai miei ventiquattro lettori: Dappertutto e rasoterra, Cinquant’anni di storia della società Italiana, Mondadori, 2017, ebook).
Bene: i tre brevi saggi contenuti nel volumetto che oggi segnalo, letti in sequenza, mi hanno restituito l’immagine del medico pietoso che, però, stavolta, comincia – così mi è parso – a dubitare delle possibilità di sottrarre l’amato infermo al destino che della sua involuzione. Riecheggiano tutte, le sue spietate diagnosi, nei tre saggi in discorso, come pure le fulminanti intuizioni del suo lessico incisivo e spiazzante. Ma il volumetto va letto con attenzione e meditato a lungo; e non è possibile in poco più di settecento parole riassumere i fili del suo ragionare. Ma mi pare di cogliere, nella pietà del diagnostico, una qualche venatura di sconforto [Lo sviluppo italiano in altre parole ha avuto una profonda radice di psicologia di massa, tanto da poter dire che esso è stato uno sviluppo a forte intensità psichica. E questo spiega alcuni suoi esiti antropologici decisamente ambigui visto che siamo diventati in fondo una società emozionale sia nei rapporti micro (dei singoli soggetti) sia nella vagante relazionalità complessiva; una società che scivola facilmente in pieghe di patetismo, di edonismo, spesso di narcisismo; una società senza intenzionalità collettiva (di nuovi traguardi e impegni) che si condanna quindi alla staticità emotiva del moralismo (tradotto con furbizia in etica collettiva); una società dove tale soggettività moralistica si esplica essenzialmente nei media con l'effetto (tramite la diffusione virale dei messaggi) di attivare una serialità “giustizialista” che è scarsamente controllabile e governabile.
Tutte queste caratteristiche hanno particolare effetto regressivo nella nostra identità collettiva].
Una venatura di sconforto, dicevo, temperata però dalla com-passione tenace che si affanna a formulare una prognosi riservata ma non disperata; da un lato ricostruendo, in chiave di orgoglioso impegno di essere soggetti della propria storia, la trama di un continuismo che – nonostante tutto – può sopravvivere alle “botte di discontinuità” combattendo i vizi antropologici della società con le virtù antropologiche dei soggetti; dall’altro, abbarbicandosi alla coltivazione di una rinascente vitalità – in limine mortis, mi viene da dire – delle tradizionali strutture di rappresentanza, per arrestare gli esiti della accelerata disintermediazione socio-politica che ha adulterato la rappresentanza in rappresentazione.... (funzione più coerente – aggiunge De Rita – alla componente spettacolare dell’attuale opinione pubblica).
Non so dire se – come scrive il prefatore (Piergiorgio Giacchè) – si tratti dell’ultimo gesto ottimista che si può tentare (di solito faccio fatica a dare senso…ultimativo all’aggettivo ultimo). Resta il fatto che De Rita (rappresentante di prima fila di quegli uomini di stato meno evidenti e più sapienti che accompagnavano la politica e ne influenzavano la cultura) continua a meritare ascolto attento e intelligente (= che ha facoltà di intendere e di ragionare, secondo la Treccani).
Roma 25 giugno 2020
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